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Il drago rampante (recensione)

di Federico Rampini - 03/01/2007


I mille volti della Cina
L'atteggiamento iconoclasta nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai
Le espressioni del post maoismo: dalla politica all'economia alla cultura

Forse nessun altro periodo è così importante per capire la Cina di oggi, quanto il primo Novecento: la caduta della dinastia imperiale Qing la cui decadenza è accelerata dalla pressione dell´Occidente; l´instaurazione della Repubblica; il rigetto del passato e la tormentata ricerca di valori nuovi su cui fondare la modernizzazione; il rischio che l´appuntamento con il progresso stravolga l´antica e ricca identità culturale del paese. Sono temi che si riaffacciano in vari modi nei decenni seguenti: da Mao Zedong fino all´integrazione vincente della Cina nell´economia globale del XXI secolo, la nazione più grande del mondo continua a girare attorno allo stesso dilemma che non ha risolto all´inizio del Novecento: quanto può restare se stessa mentre accetta la sfida del cambiamento. Giustamente ai tumultuosi avvenimenti di cent´anni fa Renata Pisu dedica un capitolo del suo bel libro Cina il drago rampante (Sperling & Kupfer, pagg. 290, euro 16). Ricorda che l´Occidente si presentava allora con un volto odioso - la politica delle cannoniere - «ma anche con tante proposte nuove», proprio mentre un ceto dirigente antico di secoli crollava travolto dalla propria inefficienza e corruzione, e trascinava con sé nella stessa fine anche il prestigio del confucianesimo. «Era un´epoca strana - scrive la Pisu - di disperazione ma anche di effervescenza: tutte le teorie venute dall´Occidente erano avidamente assimilate da intellettuali che avevano studiato in Giappone, in Europa, negli Stati Uniti.. Tutti gli «ismi» dell´Occidente erano appassionatamente discussi e abbracciati o rigettati: darwinismo, romanticismo, anarchismo, populismo, socialismo. Scienza e Democrazia erano però i due concetti d´obbligo per ogni discorso». Nelle nuove generazioni di Pechino e Shanghai assetate di modernità all´inizio del Novecento «prevale un atteggiamento iconoclasta, che mette in dubbio o addirittura nega la necessità di conservare l´essenza cinese».
Quell´atteggiamento si sviluppa in correnti diverse: Shanghai si trasforma economicamente ed anche urbanisticamente modellandosi su New York; c´è chi guarda con interesse alla restaurazione Meiji, le riforme con cui il Giappone dal 1898 si lancia alla rincorsa dell´Occidente. Dopo decenni di guerra civile prevale la via marxista adattata da Mao, l´innesto di un pensiero rivoluzionario di matrice europea transitato attraverso la Russia di Lenin.
Proprio in Mao sopravvive a lungo uno dei tratti della generazione progressista del primo Novecento: l´ansia di liberarsi del passato, di scrivere una storia nuova trasformando la Cina in una pagina bianca, usando il suo popolo come materia grezza da plasmare ex novo, una tendenza che degenera negli autodafè e nella follìa distruttiva della Rivoluzione culturale degli anni Sessanta. Il libro di Renata Pisu racconta soprattutto la Cina post-maoista, che l´autrice conosce bene in tutte le sue espressioni e che percorre con vivacità e ritmo narrativo: la politica e l´economia, la cultura, l´evoluzione dei costumi, la vita quotidiana, i rapporti fra uomini e donne, il conflitto generazionale. Il filo conduttore è sempre quello, costante dal primo Novecento: la ricerca di una nuova identità che consenta di traghettare la Cina verso lo sviluppo e la conquista di un benessere diffuso, e al tempo stesso risponda alla richiesta di valori stabili, di un collante sociale, di un «senso» al percorso che si sta facendo. Si può dire che la Cina sta ancora digerendo gradualmente quell´immenso choc che fu il primo contatto brutale con l´apertura all´Occidente. All´inizio del Novecento l´impatto pose un problema inedito, quello di definirsi come nazione. Un concetto nuovo, imposto dalla forza dei nazionalismi europei. «Nel corso della sua lunga storia - scrive la Pisu - il problema nazionale non aveva mai toccato la Cina, che non si era mai pensata come identità da affermare rispetto ad altre identità nazionali. La civiltà cinese non era mai venuta in contatto con altre civiltà portatrici di valori con la stessa pretesa universale». Non è molto diverso il problema con cui il paese e la sua classe dirigente si misurano in questi ultimi trent´anni, da quando Deng Xiaoping ha sposato l´economia di mercato e ha riaperto una stagione ricca e fruttuosa di relazioni con il resto del mondo. Il capitalismo e la globalizzazione hanno ridisegnato stili di vita, consumi, mode, l´etica collettiva, oltre a creare una nuova gerarchia tra le classi, nuove tensioni sociali. Più la Cina è in mezzo a noi, ci penetra e ci condiziona, più essa stessa accetta di cambiarsi e di lasciarsi contaminare. Riscopre il suo passato, torna a nutrire orgoglio per la sua storia, ma non ha ancora scelto fra Confucio e Darwin, fra Adam Smith e il tao. La costruzione di una nuova memoria storica, funzionale a definire l´identità nazionale, viene seguita con molta attenzione dal regime autoritario che investe risorse nella propaganda patriottica, nella riscoperta del confucianesimo, nel rilancio di un buddismo addomesticato. Ma è una questione destinata a riesplodere continuamente in nuove forme. Il giorno in cui la Cina diventerà democratica, potremmo scoprire dentro la sua società civile delle correnti nazionaliste spontanee, forse perfino più radicali di quanto sospettiamo.