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Senza illusioni

di Roberto Zavaglia - 05/01/2007

Il condannato non andava giustiziato anche se se lo meritava ampiamente. Questo giudizio è il filo rosso che unisce le varie prese di posizione contro l’esecuzione-linciaggio di Saddam Hussein. Le proteste sono state, essenzialmente, di tre tipi. C’è chi si è dichiarato per principio contro la pena capitale, chi ha detto che la condanna era stata pronunciata da un tribunale senza garanzie per i diritti dell’imputato e chi, schierato dalla parte degli invasori statunitensi, ha ammonito che la morte di Saddam ne farà un martire e ingrosserà ancora di più la resistenza. Nessuno di costoro ha messo in dubbio che il presidente iracheno avesse compiuto crimini tali da giustificarne l’uccisione se solo fosse avvenuta con modalità diverse, magari in un conflitto a fuoco durante la cattura.

  Ma è sui presunti crimini di un capo di Stato che vanno valutate la sua detenzione e la sua messa a morte da parte di una potenza vincitrice, per il tramite di un tribunale da essa stessa istituito e condizionato? Chi la pensa così dovrebbe, conseguentemente, chiedere la creazione di una magistratura inquirente e di un tribunale penale internazionale per investigare, ed eventualmente incolpare, tutti i capi di governo del mondo. Se anche ciò fosse possibile, quale sarebbe l’autorità sovranazionale capace di dare vita a queste nuove istituzioni? Non essendo l’Onu, per via dei limiti del suo statuto, altre non se ne vedono all’orizzonte. La selettività del giudizio e della pena (Saddam sì, tutti gli altri no) è contraria a ogni principio giuridico e toglie ogni legittimità all’uccisione del leader iracheno in qualsiasi forma essa sarebbe potuta avvenire. La condanna dell’esecuzione di Saddam si dovrebbe basare, prima di tutto, sulla riprovazione verso una sentenza emessa, di fatto, da una potenza che ha invaso, contro le regole del diritto internazionale, una nazione sovrana, pretendendo poi di giudicarne il legittimo capo di Stato.

  Oltre che censurabile sul piano morale e del diritto, l’impiccagione di Saddam è, dunque, un crimine politico. Sostenendo ciò, siamo forse costretti a difenderne l’intera opera politica come, maliziosamente, insinuano i fautori dell’invasione? Certamente no, anche se in sede di giudizio politico e storico, ci disgusta l’abituale caricatura del tiranno pazzo e criminale. Riteniamo che il regime del Baath, pur tra mille ambiguità, avesse garantito all’Iraq il sistema di garanzie sociali forse più avanzato fra quelli arabi (l’ambito in cui correttamente si dovrebbero effettuare le comparazioni) e avesse favorito una salutare modernizzazione del sistema economico e di quello giuridico assai superiore a quelle dei Paesi filoccidentali. Non diversamente dalla Siria, la spinta propulsiva del socialismo nazionale baathista si era, però, molto attenuata, con fenomeni degenerativi di corruzione e di illegalità da parte delle corporazioni statali e di partito. Resta poi, oltre alla sciagurata e tragica scelta di Saddam di aggredire l’Iran, la grave questione della repressione politica interna, della quale non si conosce, però, l’esatta dimensione. Nessuno, con un minimo di onesta intellettuale, potrebbe dire che il numero delle vittime del regime si possa neanche lontanamente avvicinare a quelle provocate, direttamente e indirettamente, dall’invasione Usa che, ad oggi, oscillerebbero tra le seicento e le settecentomila, a causa delle quali Bush non finirà certo i suoi giorni con un cappio intorno al collo.

  Gli avversari del nuovo imperialismo Usa devono rivendicare la sovranità dell’Iraq a prescindere da Saddam e dal suo regime, poiché sanno che difendere l’indipendenza degli Stati dalle mire di Washington, o di chiunque altro, significa, nel mondo imperfetto nel quale ci è dato vivere, scegliere quantomeno il male minore. I missionari della democrazia, all’opposto, credono o fingono di credere che, con golpe, invasioni e guerre, si possa creare il regno della giustizia sulla terra. Noi, invece, abbiamo imparato che, su questa stessa terra, non esistono potenze che scatenano  la guerra per qualcosa di diverso dai propri interessi, cioè per accrescere la propria forza e controllare le risorse dei Paesi aggrediti, poco curandosi di seminare morte e distruzione.

Quanti, da qualsiasi cultura politica provengano, hanno compreso che le vecchie categorie politiche, come la destra e la sinistra, servono a nulla per comprendere i conflitti e i drammi dei nostri anni, devono però porre attenzione a non infatuarsi acriticamente delle cause che difendono. I problemi del mondo arabo, per esempio, non dipendono solo dagli Usa o dal più generale Occidente. Se, oggi, una parte degli iracheni decide di massacrarsi in una guerra civile, è anche colpa degli invasori ma non solo. Significa che quella società, come altre arabe le quali non sono state in grado di darsi una dirigenza politica decente, soffre di un’arretratezza sul piano culturale e civile che dura da qualche secolo. Se l’Africa affamata produce una quantità di tremende guerre intestine, non è solo per colpa dei cacciatori occidentali di diamanti e di altre risorse, ma anche perché al potere ci sono dei beoti che spendono in armamenti gran parte del bilancio statale.

  Oggi, chi si oppone allo stato delle cose non dispone di un modello concreto a cui riferirsi, ma non deve però rinunciare a denunciare le falsità del pensiero dominante e a difendere i germogli di libertà e autentico progresso che, qua e là, sbocciano per il mondo. Ai manichei che chiedono da che parte stiamo, risponderemo che, senza illusioni, stiamo con quelli che ci portano in dono un po’ di speranza.