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Le sanzioni all'Iran

di Gian Carlo Caprino - 05/01/2007

 



Dopo molti mesi di sforzi l'amministrazione Bush è infine riuscita a coagulare, in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, l'unanimità necessaria per imporre all'Iran delle sanzioni "leggere" per l'annosa questione nucleare.

Senza entrare nel merito delle sanzioni stabilite, occorre però notare che queste, paradossalmente, sono state imposte ad un Paese che non ha violato il trattato di non proliferazione nucleare; tant'è che l'AIEA (l'organo ONU che è incaricato della verifica dell'applicazione di tale trattato) non ha mai ritenuto Teheran in aperta contravvenzione con i suoi obblighi e non ha mai trovato intralci nell'eseguire le verifiche nei siti giudicati a rischio.

Inutile dire che questa decisione avrà, come conseguenza immediata, un ulteriore scadimento della credibilità di questo organismo, che va trasformandosi sempre di più, da massima assise mondiale per la risoluzione dei problemi internazionali (come dovrebbe essere), nella cassa di risonanza e di legittimazione della geopolitica degli USA. L'impressione che se ne ricava è, infatti, che i trattati internazionali valgano o non valgano a seconda dell'inclinazione dell'amministrazione americana verso i Paesi interessati.

Ma come si è potuto arrivare a tanto?

Dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) soltanto gli ultimi tre possono (o potevano) essere considerati parzialmente indipendenti dalle pressioni USA.

L'orgogliosa Francia della "grandeur" è però attualmente attanagliata da una fase di declino politico, con il governo Chirac protagonista di un interminabile tramonto, costellato da débacles interne: prima il rifiuto popolare di approvare la Costituzione europea (fortemente voluta da Chirac), poi la rivolta delle banlieues urbane, infine lo scandalo "Cleastream", che vede implicati lo stesso Chirac ed il premier de Villepin in una losca storia di falsi dossier a carico di avversari politici. La politica estera francese, a conseguenza di questa crisi globale, sta rapidamente implodendo verso un atteggiamento sempre più conforme ai "desiderata" statunitensi, come ogni altro bravo satellite europeo.

La Cina, pur assetata di energia ed interessata al petrolio iraniano (che dovrebbe rifornirla attraverso il Pakistan e l'India mediante un costruendo oleodotto), teme per un eventuale blocco dell'export verso gli USA, ha in corso un contenzioso sul valore di cambio tra dollaro e yuan (gli americani vorrebbero che rivalutasse lo yuan, per rendere le merci cinesi meno appetibili) ed infine, non meno importante, deve "ringraziare" gli USA per la recente non opposizione al suo ingresso nel WTO. E poi la Cina, pur essendo un colosso economico, non ha ancora la mentalità del "global player"; oggi le basta essere centrale nell'Asia.

Quello che meraviglia più di tutto è però l'assenso dato a queste dissennate sanzioni dalla Russia di Putin; la Russia non ha infatti oggi gli stessi problemi, valutari e commerciali, che ha la Cina con gli USA.

Occorre considerare poi che l'Iran è Paese confinante con la Russia attraverso il mar Caspio; con l'Iran la Russia ha un patto di cooperazione nel campo nucleare civile che prevede la costruzione di alcune centrali atomiche con tecnologia russa; l'Iran fa parte, come osservatore, dello SCO (Shangai Cooperation Organization), patto politico-militare definito ormai come "la NATO orientale" e a cui partecipano Cina, Russia e Paesi dell'Asia centrale.

Putin sa inoltre benissimo che il vero motivo delle sanzioni imposte dagli USA non è il timore di un armamento nucleare, bensì la volontà di destabilizzare l'Iran per poter poi insediarvi un governo "indigeno" da Protettorato, con relative basi militari per completare l'accerchiamento della Russia; è conscio, infine, del rischio che i popoli islamici inizino a considerare la Russia come un nemico.

Ciò malgrado egli ha finito con lo schierarsi, anche se su una mozione edulcorata, con gli americani per l'imposizione di sanzioni prive di ogni seria motivazione giuridica. Gli è mancato il coraggio di schierarsi apertamente con la repubblica islamica

L'impressione che se ne ricava, quali che siano i retroscena di questa vicenda, è quella di una Russia impacciata e timorosa, ancora molto lontana dal prestigio e dal ruolo internazionale che ricopriva quando era il cuore dell'impero sovietico; di una Russia ancora influenzata dalla nefasta eredità del decennio di presidenza Eltsin.

Putin, dunque, ha ancora molta strada da fare prima di divenire il "global player" per il quale tenta di spacciarsi. Per ora gli americani continueranno ad avere sempre l'ultima parola nelle crisi internazionali.