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USA, coperture militari per soluzioni politiche

di Piero Visani - 16/01/2007

La “nuova strategia” in Iraq di Bush non è altro che un’escalation bellica intesa a rendere meno umiliante il ritiro delle truppe

 

Sotto il profilo strettamente

militare, la nuova

linea di condotta

voluta da Bush in Iraq non è

un’altra “tempesta nel deserto”,

ma - più modestamente -

una tempesta in un bicchier

d’acqua.

Annunciata in forma solenne

con un discorso presidenziale

alla nazione e preceduta da

alcuni importanti avvicendamenti

di comandanti sul campo,

la strategia varata dalla

Casa Bianca non è né vecchia

né nuova: molto più semplicemente

non è, almeno in termini

militari. Non ci sono

innovazioni operative, mutamenti

di approccio, nuove tattiche;

ci sono solo 21.500

uomini in più rispetto ai circa

135.000 già presenti in territorio

iracheno, dunque un

incremento del 15% che non

muta i rapporti di forza e, tanto

meno, le prospettive del

conflitto. In particolare, non

garantisce ai reparti statunitensi

quella schiacciante superiorità

numerica sulle forze

insurrezionali che - secondo

la dottrina militare classica - è

indispensabile per garantire il

controllo di un territorio.

Circa 17.500 uomini (di cui

meno di un quarto - in un

esercito pesantissimo, sotto il

profilo logistico, come quello

americano - effettivamente

operativi) saranno gettati nel

calderone della capitale irachena,

una città con più di

cinque milioni di abitanti,

scenario ideale per la più classica

delle guerriglie urbane:

possibilità per i guerriglieri di

confondersi costantemente

con la popolazione civile e,

dunque, di colpire agendo da

combattenti e poi svanire trasformandosi

in non combattenti

protetti da una densa rete

di solidarietà personali, familiari

e societarie. Se anche tutto

dovesse andare per il

meglio per gli americani, il

massimo che si può ipotizzare

è una loro superiore capacità

di ingaggio degli insorti, ma -

ed è quello che veramente

conta - l’iniziativa resterà saldamente

nelle mani di questi

ultimi che potranno continuare

a colpire dove e come

vogliono, per poi sottrarsi alla

reazione statunitense e ricomparire

non appena le acque si

saranno calmate.

Si può, quindi, escludere che

la decisione presa da Bush,

tra l’altro - si vocifera - in

netto contrasto con gli orientamenti

degli Stati Maggiori,

abbia quel carattere militare

che si è voluto a tutti i costi

attribuirle. Se così fosse, non

varrebbe neanche la pena di

cominciare, in quanto è una

scelta già condannata in partenza:

i pochi rinforzi americani

non potranno fare nulla

di concreto per ribaltare le

sorti di una guerra già irrimediabilmente

perduta; potranno,

al massimo, fare da bersagli,

statici o in movimento,

per le varie milizie locali e

allungare così la già nutrita

lista di caduti in combattimento.

Tuttavia, se si approfondisce

l’analisi, emergono indicazioni

assai diverse: in un Paese

come gli Stati Uniti, dove è

stata inventata la strategia

mediatica, dove è continuo il

ricorso alla metanarrazione

non solo per la descrizione

degli eventi passati, ma anche

per quelli in corso e, addirittura,

per quelli futuri, dove è

molto elevato il livello di

attenzione per tutte le forme

comunicative, la nuova fase

operativa è stata definita “surge”

- facendo ricorso ad un

termine marinaro che indica

un’ondata, un rialzo improvviso

delle acque - e non

“escalation”. È vero che quest’ultima

parola è tabù, nel

linguaggio politico americano,

per l’immediata associazione

di idee che porta a fare

con il conflitto in Vietnam ed

i suoi esiti infausti, ma certo

“surge” non è stata scelta a

caso. Probabilmente intende

evidenziare che la superpotenza

è ferita, ma non doma, e

che sa benissimo che, se deve

andarsene dall’Iraq e/o negoziare

una soluzione politica

con l’Iran, deve poterlo fare

da posizioni di forza e non

dall’attuale condizione di

debolezza.

Proprio qui sta il punto, però,

perché la strategia della “surge”

non è in grado di ridare

agli USA quanto da tempo

hanno perduto: non è in grado

di restituirgli il controllo del

territorio iracheno e, tanto

meno, di consentirgli di

costringere le forze della resistenza

locale ad un combattimento

in campo aperto dal

quale uscirebbero, ovviamente,

annientate. In mancanza di

questo, però, l’opzione della

“surge” è destinata a dimostrarsi

non un’attestazione di

potenza, ma una dichiarazione

di impotenza, il colpo di

coda necessario, a puri fini di

prestigio, per poter avviare

con un minimo di credibilità

in più una “exit strategy” che

sancirà il pieno fallimento

dell’impresa irachena e la

consegna di quel Paese ai più

acerrimi nemici di Washington.

A differenza di quanto si

sostiene da molte parti, quindi,

la scelta operata da George

W. Bush non è di carattere

prettamente militare, ma

intende, semmai, fornire una

copertura militare a una soluzione

che è, a tutti gli effetti,

politica. Si tratta, in altre

parole, di dimostrare che neppure

una “surge” è in grado di

rovesciare i rapporti di forza

in Iraq e di trarne le inevitabili

conseguenze, lasciando il

Paese ed abbandonandolo al

suo destino.

Nulla può modificare la situazione

sul campo: non la scelta

di comandanti operativi sensibili

alla conquista del favore

della popolazione locale e

non semplicemente inclini

all’impiego indiscriminato

della potenza di fuoco anche

a carico dei civili, perché

ormai è tardi per un mutamento

di rotta così marcato,

in quanto è troppo lunga la

scia di ostilità e di odio che

gli americani si sono lasciati

dietro; non qualche missione

offensiva in più, perché essa

fornisce vantaggi troppo

modesti rispetto ai costi,

umani e materiali, che impone.

Si tratta, quindi, di prepararsi

a levare le tende e di farlo

in condizioni un po’ diverse

e meno umilianti di quanto

avvenne a metà degli anni

Settanta a Saigon.

Qualche margine di manovra

c’è ancora, poiché è possibile

agire per linee interne sfruttando

le divisioni tra sciiti,

sunniti e curdi, ed anche

approfittando delle grandi

divisioni esistenti all’interno

della maggioranza sciita, ma

si tratta di pura e semplice

gestione della sconfitta. Poi si

dovrà passare oltre e su questo

già si stanno aprendo

inquietanti interrogativi: fermo

restando che la gestione

con successo di conflitti a

bassa e media intensità resta

un autentico miraggio per le

Forze Armate statunitensi, al

punto che l’esistenza di una

situazione operativa appena

vagamente simile a quella

vietnamita ha portato la guerra

ad un esito esattamente

analogo al precedente, si

ripropone con rinnovata forza

l’opzione contraria, vale a

dire quella di gestire qualsiasi

situazione potenzialmente

polemogena solo restando ai

livelli più elevati dello spettro

operativo. Fuor di metafora,

la tentazione di gestire qualsiasi

crisi non sporcandosi le

mani con i tradizionali combattimenti

di fanteria, in cui

l’avversario conserva molti

vantaggi, ma puntando tutto

sulla superiorità tecnologica

e, in particolare, su un’arma

assoluta come quella nucleare.

Non per nulla l’arsenale

USA, specie quello tattico, è

al centro di una rinnovata

attenzione.

Al Pentagono, del resto, sanno

bene che la crescente

miniaturizzazione di questo

tipo di ordigni ne rende sempre

più possibile (e legittimabile)

l’impiego, creando

asimmetrie irresistibili non

per sé, ma per il nemico. L’Iran

è avvertito.