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Gli Stati uniti dalle bugie in grigioverde

di Augusto Illuminati - 17/01/2007

 
Nel 1965 furono rese pubbliche le false analisi del Pentagono sull’intervento nel Vietnam. Hannah Arendt le analizzò nel saggio «La menzogna in politica» ora riproposto da Marietti. Un testo da leggere alla luce della guerra in Iraq


Nel 1971 la pubblicazione sul «New York Times» di alcuni stralci dei documenti segreti del Pentagono (i cosiddetti Pentagons Papers), una fuga di notizie dovuta al pentito Daniel Ellsberg, uno degli analisti arruolati da Robert Mc Namara per studiare le strategie e i risultati della guerra del Vietnam, suscitò uno scandalo clamoroso. Hannah Arendt intervenne nella polemica con una conferenza al Council for Religion and International Affairs di Washington, successivamente rielaborato in forma di articolo per la «New York Review of Books» (1972), tradotto in italiano nel 1985 e ora riproposto, con testo a fronte e a cura di Oliva Guaraldo, per le edizioni Marietti 1820 (La menzogna in politica. Riflessioni sui "Pentagon Papers", pp. 85, euro 12).

I Papers erano il resoconto completo delle teorie, strategie e valutazioni del Pentagono, 47 volumi di memorandum, da cui emergevano chiaramente tutti i fattori, del resto già noti, del disastro vietnamita e insieme l’ostinata e quasi candida volontà di manipolare i dati che li attestavano, al fine di procurarsi il consenso dell’opinione pubblica americana. Una dimostrazione lineare che il problema non era quello di cercare di vincere una guerra ormai data per persa, quanto piuttosto di salvare l’immagine degli Usa come superpotenza, insomma un cedimento della fredda ragion di Stato alle gratificanti tecniche pubblicitarie. Le analogie con la gestione Bush del disastro irakeno sono lampanti e ci inducono a retrodatare alcuni segnali dell’attuale palese decadenza imperiale americana.

Logica contro i fatti

Arendt non critica le menzogne in nome di una verità morale, ma cerca piuttosto di rintracciare il tratto «totalitario» (proprio di un moderno totalitarismo democratico, non più di quello degli anni Trenta), evidenziando la cieca fiducia dei problem solvers, che suggerivano le politiche fallimentari per il Vietnam, nei calcoli e negli scenari probabilistici con cui, autoingannandosi, coprivano le informazioni sostanzialmente corrette fornite dagli operatori in loco.
Logica contro fattualità, insomma, ciò che vi è di più lontano dalla contingenza della politica. In questo senso i problem solvers, sono una variante neopositivista degli ideologi anti-comunisti (e spesso ex-staliniani) della guerra fredda degli anni Cinquanta e un’anticipazione dei fanatici neocons (a volte di estrazione ex-trotskista) del terzo millennio. Una feroce volontà di prevedere a tutti i costi il corso della storia, semplicemente cambiando le bandiere. Del resto, non ne abbiamo a casa nostra un esempio nel Foglio di Giuliano Ferrara, più bushiano di Bush e che sfida arditamente i fatti per imporre la propria visione del mondo, anzi uno stile macho di vedere il mondo?

Arendt parte correttamente dalle implicazioni della propria definizione di agire come capacità di dare sempre inizio a qualcosa di nuovo, spesso rimuovendo o distruggendo quanto c’era prima e dunque immaginando un diverso stato della realtà. L’immaginazione è comune al cambiamento effettivo e alla capacità di mentire e la menzogna si giustifica almeno in parte perché si riferisce a un ambito dove effettivamente le cose possono stare in un modo o in un altro, senza contenere nessuna verità necessaria. L’inganno è attraente e plausibile, perché il discrimine fra realtà e immaginazione è fattuale, non logico. La tentazione di manipolare i fatti non solo è forte, ma porta a schemi apparentemente più coerenti di come la storia è realmente andata. Di qui il successo di tutti coloro che costringono i fatti passati, presenti e futuri in un perfetto meccanismo logico, di cui riescono perfino a volte ad autoconvincersi.

Questa tendenza implicitamente totalitaria emerge nei redattori del Papers, che conoscono perfettamente la situazione reale, descritta dai comandi operativi e dai servizi di informazione, ma si limitano a occultarla agli organi costituzionali sostituendola con un resoconto plausibile meglio corrispondente ai desideri dei loro committenti. I fatti non «filtrabili» adeguatamente vengono rimossi inserendoli in un nuovo progetto di come andranno. Il resoconto degli errori e delle sconfitte in Irak viene censurato sovrapponendogli il quadro idillico di come andrà bene con un ulteriore impegno militare. Se non sfondiamo nel Vietnam, estendiamo il conflitto al Laos e alla Cambogia; se non la spuntiamo a Baghdad prendiamocela con Siria e Iran!

A partire dal 1965, osserva l’autrice, la nozione di vittoria è abbandonata e sostituita con l’obbiettivo di convincere il nemico che non ce l’avrebbe fatta. Fallito anche questo (quegli stupidi insorti non capiscono mai quando stanno perdendo...), il nuovo obbiettivo diventa evitare una sconfitta umiliante, cioè non ammettere la sconfitta. Si punta non più alla conquista del mondo, come nell’imperialismo classico, ma alla creazione di un’immagine per aggiudicarsi il favore della gente - nel caso più recente di Bush per evitare un collasso elettorale disastroso alle prossime elezioni presidenziali - applicando meccanicamente alla politica un modello più adatto alla vendita di un prodotto o alle pubbliche relazioni.
Il vero «segreto» che viene svelato nei documenti «coperti» è il mancato coordinamento dei vari settori della burocrazia civile e militare e l’insussistenza dei presupposti che dovrebbero giustificare determinate scelte politiche: ieri la credenza che i partigiani sudvietnamiti agissero agli ordini del Vietnam del Nord e che questo agisse agli ordini di Urss e Cina (mentre fra quei paesi esistevano più motivi di conflitto che di alleanza), oggi l’idea che Saddam possedesse le armi di distruzione di massa e lavorasse d’intesa con i terroristi di Al Qaeda. La divergenza tra i fatti verificabili e le teorie in base alle quali venivano prese le decisioni risultava (e ancor oggi risulta) totale e a suo modo «onesta».
Inganno e autoinganno

Arendt è colpita, più che dalle sporadiche falsificazioni e provocazioni, dalla diffusa indifferenza per i fatti, che le sembra inaugurare una sistematica interdipendenza fra inganno e autoinganno: l’anticipazione del risultato positivo (Mission accomplished) serve per ottenere il consenso (e i finanziamenti) per realizzare un obbiettivo, ma poi ci si finisce per credere e il risveglio è ancora più amaro. Alla fine non c’è più neppure il conflitto etico-psicologico fra ingannatore e mondo reale, perché quest’ultimo viene de-fattualizzato, ridotto a calcolo probabilistico, a simulazione di computer e a videogioco. Svaniscono il giudizio e la responsabilità delle scelte.

I limiti della manipolazione erano rintracciati dalla Arendt nel ruolo attivo della stampa e nella difficoltà di adattamento del carattere americano a una politica estera aggressiva e militaristica. Sia qui lecito rilevare che tali controtendenze, indubbiamente esistenti allora e anche oggi, possono essere paralizzate, nel nuovo scenario caratterizzato dal terrorismo, in misura abbastanza estesa - come ha dimostrato il prolungato consenso bipartisan all’intervento in Irak e al Patriot Act. Speriamo che Arendt non abbia peccato di eccessivo ottimismo.