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La filosofia della conservazione

di Mario Spinetti - 19/01/2007

 

"Quando avrete inquinato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, tagliato l'ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro" (profezia degli indiani Cree).

La materia che concerne la conservazione della natura può essere definita una vera e propria scienza filosofica che ha stretti legami con l’ecologia. Occorre però avvertire che, quantunque un siffatto legame appaia intrinseco, sarebbe erroneo considerare la conservazione della natura un’esigenza che si esaurisce nella pura sfera scientifica, poiché essa ha una connotazione ben più ampia che spazia dalle implicazioni etiche a quelle sociali e politiche. D’altra parte una tale puntualizzazione giova anche all’ecologia in sé stessa, che, operando già in una sfera tanto vasta, non può sopportare altre sovrapposizioni.

La scienza ecologica offre senza dubbio le basi alla conservazione dell’ambiente, ma questa dovrà poi percorrere una propria strada che è irta di ostacoli spesso difficilmente superabili. Infatti, la protezione della natura, entrando inevitabilmente in conflitto con le attività umane che turbano l’equilibrio dell’ecosistema, trova spesso una opposizione totalizzante e tenace, come sa esserlo solo quella connessa a interessi economici.

Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello che a volte l’animo del naturalista ne rimane sopraffatto al punto da non essere più in grado di appellarsi al rigore mentale, senza il quale non può impostare le direttive per la soluzione dei problemi. Accade invece altre volte che il naturalista abbia la ventura di portare i propri passi in zone, sempre più rare, non ancora ferite dal degrado, e allora l’incessante dialogare della natura lo affascina, ora con l’apparire delle tenui luci del sottobosco, ora con il bagliore di grandi distese di ghiaccio, ora col nitido stagliarsi di vette immacolate, ora col rosseggiare della faggeta in autunno.

“Una foresta ininterotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.

Questo è un posto differente, è un’altra giornata.

In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; nè la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.

Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivi ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.

Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.

Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “. WA-SHA-QUON-ASIN (Grey Owl, 1940)

A questo punto un interrogativo si fa pressante: la civiltà potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto quasi raggiungere il potenziale biotico massimo che può essere attinto alla natura dalla specie umana. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano al totale esaurimento.

In verità, gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento dell’ambiente naturale: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, l’assetto della cosiddetta materia inerte, ecc. L’uomo sfrutta la natura in mille modi, quasi sempre per il volgare ed inutile accumulo delle ricchezze e del potere. Ciò che una volta, nel piccolo e nell’episodico, poteva essere sostenibile (p.e. la caccia sportiva, il prelievo di risorse non rinnovabili, la pesca, l’emissione di sostanze relativamente inquinanti, ecc.), anche perché molte attività venivano adeguatamente filtrate e degradate dai sistemi naturali (per esempio l’autodepurazione dei fiumi o dei piccoli mari), ora, con i mezzi tecnologici, con l’eccessivo uso delle “cose” e con il dramma della sovrappopolazione, molte attività umane non lo sono più e ciascuna di esse esercita un forte impatto sull’economia della natura. Se una o due persone persone raccolgono un fiore in un prato, il prato non ne risente affatto, ma se quella operazione viene svolta da migliaia di persone il prato perderà tutti i fiori che possiede. Questo deve far riflettere sulle continue pretese che l’uomo contemporaneo accampa continuamente anche in riferimento ad attività dei tempi andati. Si ricorda inoltre che anche nel passato, fenomeni sistematici e capillari, anche se esercitati con mezzi ridotti e da una popolazione meno esigente, hanno prodotto risultati deleteri per la natura (si pensi al massiccio disboscamento della Gran Bretagna o all’estinzione del lupo nell’arco alpino). Un altro esempio ci viene offerto dal fenomeno del turismo di massa. Favorire al giorno di oggi la frequentazione turistica di luoghi naturali, vuol significare alterare completamente quei territori. Per esempio, gli ultimi luoghi abitati dall’orso bruno in territorio italiano (Abruzzo e Trentino), dovrebbero essere gelosamente tutelati dalla perniciosa presenza massiva delle persone, altrimenti nel volgere di un brevissimo tempo il plantigrado resterà un lontano ricordo della fauna autoctona.

Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. “La visione dell’uomo ‘signore del creato’, in pieno diritto di distruggere o alterare tutto, è dura a morire. Certe culture, più di altre, hanno manifestato addirittura una profonda ostilità verso qualsiasi cosa naturale: questo spiega perché in alcuni paesi industrializzati la degradazione e l’alterazione dell’ambiente siano maggiori che in altri” (Storer et al., 1984).

Ma occorre comunque considerare che i problemi ambientali sono a tal punto complessi che ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto. “Gli uomini devono trovare la soluzione ai problemi attuali in un contesto universale” (Dorst, 1990).

Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici o del pensiero comune da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo, cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita e non, sulla Terra (ecocentrismo concetto base dell’ecologia profonda). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà, ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Dobbiamo invertire il pensiero di salvaguardare una “valle selvaggia” per poter poi provare emozioni e profonde sensazioni dinanzi a quello scenario naturale incontaminato. La “valle selvaggia” va mantenuta tale per se stessa, per il suo essere libero, poi se il nostro spirito ne troverà giovamento sarà solo una eventuale positiva conseguenza e non la molla che ci ha spinto ad operare per il mantenimento di quello status incontaminato. Sono andato alla fine della terra, sono andato alla fine delle acque, sono andato alla fine del cielo, sono andato alla fine delle montagne, non ho trovato nessuno che non fosse mio amico. (Canto per il Dio della Piccola Guerra, Navajo - in AA. VV., 1995). Il valore in sé delle cose indipendentemente da noi e da tutto è il pensiero più elevato che la mente umana possa concepire. E’ anche possibile giustificare l’antropocentrismo come “istinto” della specie umana per una efficace autoconservazione. In fondo ogni specie è un po’ “egocentrica” verso se stessa per sopravvivere nella natura. Ma negli altri esseri viventi l’egocentrismo porta in genere ad un indubbio vantaggio per la specie e un ancor più grande vantaggio per la natura tutta. L’egocentrismo umano invece porta distruzione e morte sia nell’uomo stesso che in tutto il mondo naturale. Tra l’altro gli atteggiamenti degli altri viventi non sono affatto premeditati e consapevoli delle conseguenze, mentre l’uomo è pienamente cosciente dei propri abusi, della propria superbia e delle proprie distruzioni e prevaricazioni. Una bella differenza dunque tra le due forme di egocentrismo! Scrive Santayana (1944): “Un californiano che ho recentemente avuto il piacere di conoscere mi diceva che se i filosofi vivessero tra i suoi monti, i loro sistemi sarebbero diversi da quello che sono i sistemi che la tradizione europea della buona creanza ci ha tramandati dai tempi di Socrate, perché questi sistemi erano egoistici; direttamente o indirettamente erano antropocentrici, e ispirati dalla fatua nozione che l’uomo o l’umana ragione, o l’umana distinzione tra il bene e il male, siano il centro e il perno dell’universo. Questo è ciò che i monti e le foreste dovrebbero farvi vergognare d’asserire”. Santayana con questo suo discorso presentato nel 1911 a Berkeley è stato uno dei pochi filosofi occidentali a sferrare un significativo attacco all’antropocentrismo e alla visione egocentroca del cristianesimo. Infatti “rappresentò una svolta storica nello sviluppo dell’indagine contemporanea su una visione del mondo alternativa e un’etica ambientale non soggettivistiche, antropocentriche ed essenzialmente materialiste.

Nel suo discorso Santayana affermava che acquisire consapevolezza ecologica per mezzo di un contatto profondo con la natura ci avrebbe aiutato ad abbandonare la zavorra del nostro sciovinismo umano” (Devall & Sessions, 1989). Gli aspetti di una siffatta esiziale commistione di ruoli sono focalizzati con grande chiarezza da Franco Zunino (fondatore dell'Associazione Italiana per la Wilderness) quando dice che ".... L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sè, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza". Scrive poi Pavan (1988): “...stiamo traversando una fase di confusione dell’uomo, dei suoi valori morali, dei suoi diritti e doveri, del suo ruolo e delle prospettive; siamo in una fase di scoperta degli errori che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma abbiamo ancora la facoltà di corregerci.”

Occorre domandarci: siamo realmente in grado di corregerci ? I dubbi sono tanti, troppi. Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se, ad esempio, l’uccisione di un orso da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutti gli orsi nel territorio. Scrive Thoreau “Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere e a cui possano far ricorso”.

Queste considerazioni sull’orso bruno ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. L’esempio sul quale ci siamo pocànzi intrattenuti, ipotizzando la scomparsa dell’orso bruno in seguito al sovvertimento del suo “habitat”, trova un riscontro, portando a paragone un altro esempio, nella scomparsa dell’Aquila di mare da alcune zone del suo areale anche in seguito alla distruzione del proprio “habitat” rappresentato dalle coste marine che l’attività antropica ha profondamente modificato ed inquinato. Occorre tra l’altro puntualizzare che la conservazione di un territorio (valle, grotta, costa marina, ecc.) deve essere sempre paritetica alla conservazione di una specie animale o vegetale anche se un dato ambiente è di minime dimensioni (distruggere un territorio perché piccolo è come uccidere gli ultimi orsi del trentino ritenendo inutile la loro sopravvivenza in quanto ormai troppo pochi). Anzi, spesso, la salvaguardia dei “luoghi” è un atto ancora più importante. Le ultime aree selvagge hanno una grande importanza in quanto complessi integri o unitari e rari come tali; conservandoli salvaguarderemo anche i loro “capitali” di specie animali e vegetali salvaguarderemo il paesaggio, l’ambiente, l’intera struttura: tutto questo in un unico atto di azione. Animali e piante infatti sono solo una parte di un territorio, sia pur saliente ed inalienabile. “Un fiore senza giardino è condannato a morte anche se trova sopravvivenza nel limitato spazio di un vaso grazie alla seminazione artificiale” (F. Zunino).

Scrive ancora Pavan (1967): “ La natura è costituita da innumerevoli fattori legati fra di loro da fini, azioni e reazioni che costituiscono un equilibrio dinamico in continuo spostamento: l’uomo si getta a capofitto in azioni di disturbo, di alterazioni, e provoca profonde modificazioni e rotture di equilibri di cui raramente si preoccupa di prevedere l’evoluzione e il destino........Lo sviluppo storico dell’umanità, presa nel suo insieme, è avvenuto in modo molto disarmonico e così procede tuttora, mantenendo molti squilibri, talora aggravandoli e creandone nuovi.”

In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si presenteranno. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo dialettico che determinerà poi il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un proprio assetto unitario. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo dialettico a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto della cosiddetta materia inerte mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di nuove città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. Su tali problemi si intrattengono Galiano & Marchino (1990), che annotano “...il grande ‘peccato’ dell’uomo occidentale è di essersi staccato dalla natura, dal suo ambiente. Per lui il sole, la luna, le stelle, i fiori, le piante, gli animali, non sono più né ‘sorelle’ né ‘fratelli’. Dal cosmocentrismo è passato al teocentrismo ed è finito nell’antropocentrismo. La conseguenza ‘perversa’ è stata chiara: se l’uomo è centro di tutto, egli allora diventa despota, può imporre senza remora le sue leggi, può esercitare violenza sulla natura e oppressione sui fratelli. Ma la natura espropriata e manipolata manifesta tutti gli effetti boomerang di un tale intervento”. Con queste considerazioni G. Galiano e M. Marchino focalizzano icasticamente la dimensione dell’uomo di oggi che sembra drammaticamente vocato all’autodistruzione.

Il progresso rappresenta, secondo il Rousseau, qualcosa di esteriore rispetto all’uomo, qualcosa che non tocca ciò che v’è di più intimo nel nostro essere, cioè l’istinto naturale (Geymonat, 1971). Se poi il pensatore ginevrino sembra cadere nel paradosso quando proclama la superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli cosiddetti “civili”, è pur vero che uno degli aspetti più significativi della crisi dell’uomo moderno è proprio il suo distacco dalla natura. Ed è stato un distacco particolarmente cruento quello verificatosi negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione industriale, quando il saccheggio dell’ambiente assunse una capacità distruttiva fino ad allora inimmaginabile. “L’umanità è un cancro nell’universo della vita” (David Foreman). L’uomo occidentale è infatti un vero e proprio “cancro” nell’organismo natura e, a similitudine delle cellule maligne, porta solo morte e distruzione.“La conservazione dell’ambiente manca il suo obiettivo perché è incompatibile con il concetto di terra che ci è stato tramandato dai tempi di Abramo: noi violentiamo la terra perché la consideriamo un articolo che ci appartiene. Solo quando la vediamo come una casa comune, a cui apparteniamo, possiamo cominciare a servircene con amore e rispetto” (Leopold, 1949-1997).

La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (gli esempi sono pochi: J. Muir, A. Leopold, H.D. Thoreau, ecc.). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......

L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale......

Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta.....”.

La mancanza di questa base filosofica ha senz’altro determinato tutti i sostanziali atteggiamenti negativi che l’uomo ha sviluppato nella sua visione del mondo (andropocentrismo, dualismo, ecc.). Ne sono testimonianza le ottuse speculazioni religiose scissionistiche e prevaricatrici proprie dell’Occidente o il rigido meccanicismo del razionalismo cartesiano. Scrisse A. Leopold (1949-1997): “Non esiste tuttora un’etica che consideri il rapporto dell’uomo con la terra, e con gli animali e le piante che crescono su di essa. Proprio come le schiave di Ulisse, la terra è considerata ancora una proprietà. Il rapporto con la terra è tuttora strettamente economico e prevede diritti ma non doveri.....

In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale”.

Integra molto bene il discorso Capra quando scrive (1997): “Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa percezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.

Oggi la necessità di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita né a preservarla, ma a distruggerla. Con i fisici che progettano sistemi di armamenti che minacciano di cancellare la vita sul pianeta, con i chimici che contaminano l’ambiente mondiale, con i biologi che mettono in circolazione tipi nuovi e sconosciuti di microrganismi senza poter prevederne le conseguenze, con gli psicologici e altri scienziati che torturano animali nel nome del progresso scientifico, con tutte queste attività che continuano, appare urgentissimo introdurre nella scienza delle norme di ‘eco-etica’”.

Vittorio Hosle nella sua interessante opera “Filosofia della crisi ecologica” (1992) evidenzia l’importanza che assume il pensiero etico/filosofico per una nuova responsabilità collettiva verso la natura. “Le catastrofi ecologiche sono la sciagura che incombe su di noi in un futuro non più lontano; nonostante tutti gli sforzi collettivi per rimuovere tale prospettiva, nonostante tutte le strategie sviluppate per rassicurarci e tranquillizzarci, nel frattempo questa convinzione si è consolidata nelle coscienze della maggior parte delle persone e costituisce il cupo sottofondo del senso della vita per la giovane generazione dei paesi sviluppati. Da un lato la prassi di coltivare questo sentimento ha in sé qualcosa di ripugnante, in quanto è fin troppo facile che essa porti alla rassegnazione e all’apatia, o addirittura, cosa ancor peggiore, che induca le masse a un edonismo frenetico e gli intellettuali a un cinismo morboso che si rassegna a ciò che sembra inevitabile e che desidera soltanto sorbire le ultime gocce dal calice del mondo, prima di mandarlo in frantumi. D’altro canto però questo pericolo non può servire a giustificare la rimozione e quindi l’imperterrita, folle corsa suicida verso l’abisso: ciò vale per ognuno di noi, e innanzitutto per la filosofia. Questa infatti mal si concilia con le rimozioni. perché la filosofia si occupa della verità, e precisamente non di questo o quel singolo momento di essa, ma della verità che concerna la totalità dell’essere...... La filosofia non può restare indifferente di fronte al suo destino. Nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del proprio tempo......; quindi nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anche quello dell’umanità e di gran parte della natura inanimata, essere indifferente significa tradire la causa della filosofia......

Come è arrivato l’uomo a minacciare il proprio pianeta nel modo che oggi stiamo sperimentando? E di fronte a questa situazione ha ancora senso l’idea del progresso? ......... Non è sufficiente riconoscere il pericolo in cui ci si trova quando, nel mezzo di un lago gelato, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri piedi; bisogna cercare delle scappatoie per sfuggire al pericolo. E anche se tutt’intorno siamo avvolti dalla nebbia, la filosofia può comunque sperare di scorgere la spiaggia di salvezza grazie alla luce che irradia; può forse indicare la direzione nella quale è necessario procedere..... “.

Kaiser (1992) mette bene a fuoco gli aspetti estremamente negativi della visione dualistica della vita in quattro relazioni fondamentali (Io-Sé; Io-Tu; Io-mondo; Io-Dio). Scrive infatti: “(Io-Sé) Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura. Frutto di questa scissione l’esperienza di una profonda contraddizione, di una lacerazione interiore, è la sensazione di non essere uno con se stesso, di non vivere in armonia con la propria persona - (Io-Tu) Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui. Ne sono un eloquente esempio le tendenze polarizzatrici nella vita politica e sociale - (Io-mondo) Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, in quanto sostanzialmente diverso da essa. Anche qui solo un passo ci separa dalle conseguenze dell’imperialismo, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere - (Io-Dio) Nella relazione dell’uomo con il divino, il dualismo porta al concetto di un Dio personale e trascendente (e pertanto teistico), separato nettamente dall’uomo e dal mondo. Dio è ‘totalmente altro’, non confrontabile con alcuna cosa terrena. Conseguenza di questa concezione dualistica di Dio è la dissacrazione del mondo.... che sta alla base dell’imperialismo cosmico...”.

Scrive G. Snyder (1992): “La società americana (come tutte le società) ha un proprio sistema di assunti sulla realtà che vengono dati per scontati. Continua a nutrire una fede in gran parte acritica nel concetto di progresso. E’ attaccata all’idea che possa esservi un’immacolata obiettività scientifica. E, ancora più importante, funziona in base all’illusione che ciascuno di noi sia come una specie di ‘conoscitore solitario’, una pura intelligenza sradicata, senza numerosi strati di contesti locali: l’illusione che ci sia un ‘sé’ e il ‘mondo’”.

Una filosofia della conservazione deve dunque ispirarsi ad una profonda visione unitaria della vita, dove i particolarismi divisori lascino il posto all’universalità e all’impersonale: “L’esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” (Fukuoka, 2001). Solo così il valore in sé delle cose potrà essere acquisito gradatamente dal pensiero collettivo facendo leva, nella fase iniziale, sulle persone più sensibili e profonde che avendo compreso tale idea si impegnino a diffonderla.

“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).

“Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto” (Lao-Tze).