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Il migliore dei mondi possibili (recensione)

di Lorenzo Belli - 22/01/2007

 

Negli anni '70 Pier Paolo Pasolini denunciava la presenza, nella società italiana ed occidentale, di una preoccupante metamorfosi antropologica, che svuotava di senso le istituzioni, i valori ed i meccanismi sociali tradizionali per lasciare spazio alla società dei consumi.

Trent'anni dopo, il consumismo è stato assimilato dalle coscienze e non viene più avvertito come un fenomeno negativo e disgregante per la società.

È infatti ora diffusa nell'opinione pubblica, una visione distorta del consumismo, confuso spesso con i suoi effetti più concreti e quotidiani, come l'abitudine allo spreco o la tendenza ad acquistare beni superflui.

Si tende a vedere, come una necessità naturale, la ricerca incessante della soddisfazione dei bisogni materiali, in realtà artificialmente creati ed indotti dal mercato e dalle forze che lo manovrano.

L'uomo alienato della società dei consumi appartiene ad essa solo in quanto consumatore, e vive  vittima di "tensioni patologiche di decisione, introversione e scissione dell'Io, invidia sociale, complessi d'inferiorità e assenza dei una vera vita di relazione."

E proprio partendo dalle ragioni sociologiche di questo fenomeno che Carlo Gambescia sviluppa l'analisi del suo libro "Il migliore dei mondi possibili - il mito della società dei consumi".

In queste pagine l'Autore, seguendo il pensiero del sociologo russo Sorokin,individua la genesi del consumismo nel passaggio da una struttura socio-culturale di tipo idealistico (il medioevo cristiano) ad una sensistico-materiale (la modernità).

La società dei consumi ha consolidato nelle coscienze i suoi valori, mercificando i rapporti sociali e politici, e imponendo un'idea di felicità-piacere legata all'accumulazione di beni materiali.

Nella conclusione del libro l'Autore intravede nell'attuale stato di maturità della società dei consumi la premessa per un suo superamento in chiave spirituale ed anti-materialistica: un ritorno al quotidiano, al limite, al sacro attraverso quella "decolonizzazione dell'immaginario", teorizzata da Serge Latouche, che spogli il consumo di ogni valenza mitica e simbolica per ricondurlo nella dimensione del necessario.