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La democrazia che non c’è

di Pasquale Rotunno - 23/01/2007




Troppi politici si attardano in vecchie contrapposizioni. E ignorano le domande nuove che le “promesse mancate” della democrazia suscitano tra i cittadini più avvertiti. Liberalismo e comunismo non hanno molto da dire su come costruire una democrazia pienamente partecipata. Né John Stuart Mill, massimo teorico del liberalismo, né Karl Marx, teorico della dittatura del proletariato, erano democratici fino in fondo. Mill credeva nella democrazia rappresentativa, ma non riteneva praticabile quella diretta. Temeva la tirannia di una maggioranza male informata e auspicava un sistema elettorale in cui i voti dei cittadini avevano pesi diversi, per dare più rappresentatività ai ceti colti. Mill era anche convinto che “la direzione effettiva della cosa pubblica” dovesse essere affidata a un’élite non eletta: “un piccolo numero di uomini eminenti; esperimentati, preparati da un’educazione e da un’esperienza particolare, personalmente responsabili di fronte alla nazione”. Marx, al contrario, credeva nella democrazia diretta o partecipativa, basata sul coinvolgimento diretto di tutti i cittadini. Considerava la democrazia rappresentativa un imbroglio, “il sofisma dello stato politico”. Ma prefigurava la “dittatura del proletariato”. Marx e Mill tendevano ad attribuire, entrambi, uno status politico privilegiato a una sola classe. Con la differenza che per Mill la classe designata era la borghesia illuminata, per Marx il proletariato industriale. Come previsto da Rosa Luxemburg, nei sistemi comunisti la dittatura del partito si sostituì alla dittatura del proletariato e quella del comitato centrale a quella del partito. Marx e Mill non erano neppure universalisti, nel senso che non consideravano tutti i popoli e le nazioni candidati a pari merito alla democrazia.
Le due tradizioni del liberalismo e del comunismo hanno dominato la politica mondiale nel secolo scorso. Dopo il 1989 e il crollo del comunismo, la democrazia liberale, pur trionfante, ha rivelato anch’essa tutti i suoi limiti. Si avverte “la necessità di inventare nuove forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa”. È questa la convinzione dello storico Paul Ginsborg, argomentata nel saggio “La democrazia che non c’è” (Einaudi, pp. 152, euro 8,00).
Nelle democrazie liberali lo spazio concesso, in teoria e in pratica, alla partecipazione diretta al governo è minima. Il governo e il processo decisionale sono affidati a rappresentanti. I cittadini devono solo andare saltuariamente, seppur regolarmente, alle urne per eleggerli. Il governo è esercitato “in nome dei” cittadini, non “dai” cittadini. In tal modo, notava Benjamin Constant già nel 1819, la politica e la vita quotidiana, le decisioni della sfera pubblica e le normali attività degli individui e delle famiglie sono formalmente disgiunte.
Numerosi sintomi rivelano la crescente disaffezione verso la democrazia puramente formale, elettorale: calo dell’affluenza alle urne, calo del tesseramento ai partiti, perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche e nella classe politica. Le cause dello scontento sono molteplici. Ginsborg colloca al primo posto “la delega della politica a una sfera separata, abitata da professionisti, organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori”. In secondo luogo, rimarca Ginsborg, “l’autoreferenzialità dell’individuo e della famiglia, l’aumento delle ore passate davanti al video e la dipendenza dalla televisione si sono combinati a produrre una straordinaria passività e disinteresse per la politica”. La televisione, in special modo quella commerciale, ha un ruolo particolare in questo processo. La programmazione è pensata come intrattenimento, per consentire alla pubblicità di raggiungere il maggior numero di telespettatori. Quella che sopravvive è solo “politica mediatica e della personalità, da vedere più che da vivere”. Gli oligarchi della tv commerciale “hanno obiettivi politici propri, ben poco attinenti alla libera discussione democratica”. D’altro canto, la tv pubblica è sempre più subordinata al modello commerciale. Un terzo aspetto critico deriva dalla dipendenza della politica democratica dal grande capitale. Le elezioni moderne “non si combattono a pari livello e le spese elettorali in quasi tutte le democrazie sono aumentate vertiginosamente senza alcun controllo”. Si vincono le elezioni per assegnare redditizi appalti ai finanziatori o per collocare gli amici in posti di potere e prestigio. Il sistema dei partiti fatica a restare immune da questi processi. Il cittadino comune critica ferocemente la classe politica, ma “segretamente (o apertamente) aspira a salire su una delle numerose scale clientelari che costituiscono il meccanismo nascosto di numerosi stati democratici contemporanei”. Un ultimo punto debole sta nel ruolo storico della più potente democrazia del mondo, quella statunitense. Una quota considerevole dell’opinione pubblica mondiale accusa l’America di agire in nome di interessi nazionali e imperialistici spacciandoli per universali e democratici. Gettando così discredito sulla parola stessa “democrazia”.
Il nuovo protagonista della scena internazionale, l’Unione Europea, pratica anch’esso la democrazia in forma limitata, indiretta e insoddisfacente. Fin dall’inizio il progetto europeo e il linguaggio adottato privilegiarono i bisogni dell’economia politica e prestarono scarsa attenzione a quelli della democrazia. La separatezza della sfera decisionale, già notevole nelle democrazie rappresentative nazionali, divenne macroscopica nel caso delle istituzioni europee. Il Parlamento europeo, eletto direttamente solo a partire dal 1979, è tuttora in posizione subordinata rispetto agli altri organismi (il Consiglio e la Commissione). Le decisioni fondamentali vengono prese da “istituzioni non maggioritarie”, come la Banca Centrale Europea, prive di doveri democratici. Non a caso l’affluenza alle urne nelle elezioni europee è in costante declino.
Le difficoltà della democrazia moderna non sono contingenti, né si risolvono con la mera ingegneria istituzionale. A fronte di potenti imprese globali che controllano ampie quote dell’economia mondiale, manca una “sfera pubblica” in cui i cittadini possano far sentire con efficacia la loro voce. Che fare allora? Va contrastato anzitutto il potere passivizzante della televisione: i cittadini “devono invece essere attivi, critici, capaci di organizzarsi e di esprimere autonomia e autodisciplina”. La famiglia può diventare, come aveva intuito John Stuart Mill, “la vera scuola della libertà e delle sue virtù”. A condizione che le famiglie creino un “sistema di connessioni” che superi la loro tradizionale separatezza dalla società civile e dalle istituzioni politiche. Il ruolo dell’associazionismo è fondamentale. Le associazioni non devono solo “controllare” i rappresentanti politici, ma recare un “contributo” propositivo alla sfera pubblica. Ginsborg non ignora i rischi che anche l’associazionismo può correre. In assenza di regole formali, “è facile per i singoli individui sfruttare la loro posizione di figure carismatiche fondatrici o simili, per cercare di controllare le organizzazioni o di porsi al di là delle critiche”. Esiste poi il problema della rappresentanza. Chi rappresentano esattamente le organizzazioni della società civile? E in che modo è possibile accertarlo? Dietro denominazioni magniloquenti possono celarsi solo ambizioni individuali. Le organizzazioni della società civile hanno bisogno di codici di condotta. Va trovato un equilibrio tra informalità e spontaneità, da un lato, e regole procedurali, dall’altro.
Una prospettiva volta ad arricchire la partecipazione politica è la cosiddetta “democrazia deliberativa”. Già Marx aveva segnalato la necessità di superare la scissione tra “l’uomo reale e individuale” e il “cittadino astratto”, così che politica e società tornassero unite. L’esigenza di riconnettere la sfera politica alla società è attualissima. Le iniziative che propongono l’ascolto e il coinvolgimento della gente comune si moltiplicano. Per valutarne l’efficacia, Ginsborg propone due criteri. Il primo è che tali esperimenti creino cerchie sempre più ampie di cittadini critici, informati, partecipi, che dialoghino con politici e amministratori su una determinata base di uguaglianza e rispetto reciproco. Il secondo, è che le prassi deliberative contribuiscano a mutare il comportamento dei politici. Si tratta insomma di verificare l’eventuale crescita della società civile e la trasformazione culturale della classe politica. Se manca l’uno o l’altro elemento è improbabile che la sperimentazione deliberativa contribuisca molto al rinnovamento a lungo termine della democrazia. La sfera politica, prima separata, deve insomma diventare più recettiva. Non si tratta di aggiungere semplicemente al vecchio modello della democrazia rappresentativa qualche consultazione ogni tanto. I cittadini devono non solo dibattere tra loro e con i politici, ma giocare un ruolo significativo nel processo decisionale. La democrazia deliberativa può generare decisioni migliori; con un più alto grado di legittimità, in quanto non prodotte separatamente da un piccolo gruppo ma da una pluralità di persone. Inoltre, la deliberazione promuove le virtù civiche insegnando ad ascoltare, a essere più tolleranti e a costruire rapporti di fiducia reciproca.
Gli esperimenti, a livello di governo locale, di democrazia deliberativa vanno dal “campionamento casuale” (una giuria di cittadini rappresentativa dei vari strati sociali) al “Town Meeting”, che può coinvolgere anche migliaia di cittadini. Ma, a giudizio di Ginsborg, “non rispondono effettivamente al nostro bisogno di reinventare la connessione tra partecipazione e rappresentazione”. Diverso il caso di esperienze come quella di Porto Alegre in Brasile, dove tutti gli abitanti partecipano al controllo del bilancio cittadino e dell’equa distribuzione delle scarse risorse disponibili. Il processo è complesso e dura un anno, forme di democrazia diretta e rappresentativa si intrecciano, solo alla fine gli eletti decidono. Resta il fatto che anche nella democrazia deliberativa è solo una minoranza a partecipare: non può sostituire quindi la democrazia rappresentativa. Tuttavia, suggerisce Ginsborg, “l’attività costante della partecipazione garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza”. La democrazia deliberativa favorisce la trasparenza, pone costantemente in discussione le decisioni finanziarie, amplia l’accesso al processo decisionale, fa crescere il numero di cittadini qualificati e attivi.
Di enorme rilievo è la questione della democrazia economica. Se i cittadini godono di pari diritti nella sfera politica ma vivono manifeste sproporzioni in quella economica, possiamo ancora parlare di democrazia? Il politologo Robert A. Dahl afferma che “se la democrazia è legittimata a governare lo stato, deve esserlo anche a governare le imprese economiche”. Tre sono le definizioni principali di democrazia economica. Il primo, più radicale, è quello di Marx: l’esproprio dei capitalisti. Ma in termini storici non ha portato maggior democrazia, né politica né economica. Il secondo è quello delle socialdemocrazie: maggiori diritti sociali ai lavoratori e aumento del loro reddito. La cittadinanza resta tuttavia ampiamente passiva e atomizzata. La terza definizione implica maggiore democrazia sul posto di lavoro. I cittadini devono portare i valori democratici all’interno della loro esperienza lavorativa. Le due sfere, economica e politica, non possono essere compartimenti stagni.
Quella delineata da Ginsborg è una democrazia particolarmente esigente, che rifiuta di confinare la politica in una sfera professionale separata e distante, cercando di combinare rappresentanza e partecipazione, che contesta la condizione per cui gli individui sono cittadini nella sfera politica ma semplici subordinati nel lavoro. A quanti obiettano che la partecipazione richiede tempo ai cittadini. Ginsborg risponde che il problema non è la mancanza di tempo; è piuttosto la “disabitudine a trovare il tempo per la sfera pubblica”. Trascorriamo ormai regolarmente un certo numero di ore ogni settimana nei centri commerciali, potremmo trovare altrettanto naturale dedicare un paio d’ore la settimana a questioni di pubblico interesse. Le tecnologie informatiche, se ben usate, possono recare un valido ausilio. Non va infine trascurata la ricerca di una politica partecipata su scala mondiale. I Social Forum hanno contribuito a creare una cultura diffusa alternativa al neoliberismo, sviluppando campagne e reti internazionali. Sono nate voci globali alternative, presenti al momento di prendere decisioni internazionali di cruciale importanza. È tempo, conclude Ginsborg, anche per l’Unione Europea di far propria “una teoria di democrazia combinata che intrecci in maniera significativa rappresentazione e partecipazione”. L’Unione Europea dovrebbe “incoraggiare la creazione di circoli virtuosi di partecipazione democratica, invece di creare un distacco sempre maggiore in un modello di democrazia rappresentativa in decadenza”.