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Quando le multinazionali fanno il pieno

di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro - 25/01/2007

 

So, was this what the Iraq war was fought for, after all? Così, era per questo che si era combattuta la guerra in Iraq, infine? Inizia con questa domanda dal vago sapore retorico l’articolo rivelazione del quotidiano inglese The Independent. Nel numero domenicale del 7 Gennaio, troviamo infatti pubblicata la bozza di una nuova possibile legge che darebbe alle compagnie petrolifere occidentali il controllo su un’enorme fetta delle riserve irachene.
Questa proposta segue di poche settimane i suggerimenti dell’Iraq Study Group, guidato da James Baker. Pragmatico per eccellenza, James A. Baker III raccomandava nelle sue conclusioni un ritiro graduale delle truppe entro il 2008 e l’apertura ai privati del mercato del greggio iracheno, ora nazionalizzato. I media mondiali, concentrati esclusivamente sul primo punto, si sono dimenticati di osservare il secondo. L’importanza di una tale mossa è indubbia, sia sotto il profilo economico che geopolitico.

Dopo l’11 Settembre la dipendenza dal petrolio saudita era diventata non solo imbarazzante, ma anche pericolosa per gli USA. La famiglia reale saudita sembra aver dimenticato i rapporti idilliaci con Washington e guarda con sempre maggior interesse verso Mosca e Pechino.
Il controllo della terza riserva petrolifera mondiale sembrava aver risolto questi problemi, grazie ad una serie di giacimenti praticamente intonsi, ottimi per soddisfare i propri bisogni energetici.
Tuttavia i costi della guerra e della successiva ricostruzione appaiono ora troppo gravosi per la Casa Bianca. Oberati dai debiti, necessitano di capitali freschi.
La vera svolta per uscire da questo stato di crisi è fare entrare il denaro contante portato in dote dalle multinazionali del petrolio. Questo matrimonio s’ha da fare a patto però che la sposa, l’Iraq, sia il più attraente possibile. Come fare se non offrendo agli eredi delle Sette Sorelle prezzi stracciati, fuori dal mercato mondiale come convenienza?

La bozza scoperta dall’The Independent è la risposta naturale a questo quesito. Il meccanismo scelto è quello del “Production Sharing Agreement”. Si offre quindi alle multinazionali una sorta di “rimborso spese” consentendogli di tenere per sé, come copertura degli investimenti iniziali, una fetta consistente dei profitti petroliferi. Si parla del 70% dei ricavati, a fronte del 40% solitamente offerto. Ovviamente il vantaggio non si limita all’ammortizzare prima gli investimenti, anche la quota per gli anni successivi è allettante: il 20% raffrontato al normale 10%. Tutto questo in un contratto di ferro dalla durata trentennale.
Per quanto l’offerta faccia gola è difficile che le compagnie maggiori intervengano subito, si limiteranno a fare intervenire le loro consociate più piccole. Il motivo è semplice: il paese è ancora troppo instabile. Nel momento in cui la guerriglia avrà esaurito la sua fase di massima basterà acquistare le concessioni.

Il fatto che molte delle aziende in questione siano americane non può che far piacere alla Casa Bianca. In questo modo c’è la possibilità di far tornare indietro, seppur dilazionati nel tempo, i soldi spesi per la guerra. Inoltre le compagnie petrolifere non verrebbero da sole. Porterebbe con sé un esercito di “contractors” e civili di ogni sorta, impegnati a difendere i pozzi. Concedendo quindi una boccata d’aria alle stremate truppe presenti nell’Iraq occupato.
Inutile dire che questo comporti anche vantaggi di natura tecnica: i “contractors” non hanno dietro di sé il peso dell’opinione pubblica. Sono praticamente invisibili agli occhi dell’uomo comune che apre il giornale. Che uccidano o vengano uccisi a saperlo saranno praticamente soltanto gli addetti ai lavori.

C’è poi un terzo motivo legato sia a quello che è il prezzo del petrolio che alla sua geopolitica. Si deve infatti considerare che questo mercato non è esattamente concorrenziale, anzi. Segue in pieno quelle che sono le regole dell’oligopolio. In pratica l’ultima parola sui prezzi spetta all’Opec, il cartello degli undici maggiori produttori di greggio. Un colosso che da solo controlla il 78% delle riserve mondiali. Il problema sorge quando a far parte dell’Opec non troviamo un paese come gli Stati Uniti che, nel cartello, vedono più un nemico che un alleato.
Non potendo entrare direttamente Washington ha deciso di utilizzare un proprio cavallo di Troia. Compito di questo agente è sfondare regolarmente il tetto di produzione concordato, col risultato di abbassare il prezzo. In passato questo ruolo è stato coperto dal Venezuela, ma l’arrivo di Chavez e il suo impossessarsi della compagnia petrolifera nazionale hanno fatto perdere il controllo americano sul seggio sudamericano all’Opec.

Quale miglior candidato, dunque, del governo fantoccio iracheno per ricoprire il ruolo lasciato da Caracas? Perché comunque, anche nel progetto attuale, le concessioni riguardanti i diritti di estrazione vengono rilasciate dal governo centrale iracheno. Scelta non casuale, nonostante la pretesa costituzione federalista. Le autorità territoriali infatti risultano essere molto meno controllabili, se non altro per la forte componente etnica che li contraddistingue. In un Iraq sull’orlo della guerra civile affidare la ricchezza principale alle fazioni in conflitto sarebbe stata una scelta oltremodo stupida, se non suicida.

Un altro modo per definire il petrolio è “oro nero”. Metafora linguistica sicuramente azzeccata per raccontare l’importanza del greggio nelle nostre vite. Tuttavia ancora una volta quello che per il mondo occidentale è nuova occasione di arricchimento per l’Iraq si trasforma nell’ennesimo tentativo di colonizzazione.