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Gli esiliati di Montparnasse

di Stenio Solinas - 29/01/2007

«Mai andare a

Montparnasse

» era il

cartello,

scritto di

propria

mano, appeso

da Max Jacob al muro della sua

stanzetta di rue Ravignan, a Montmartre.

All’inizio del Novecento il

passaggio di consegne intellettuali

fra i due quartieri era di fatto avvenuto,

e la modernità era discesa

dalla Butte, la collina del Sacro

Cuore, e si era installata sul Monte

Parnaso di un quartiere non particolarmente

bello, né caratteristico, per

nulla elegante, povero quanto a

monumenti: la fontana di Carpeaux

dedicata alle Quatre Parties du

Monde e la statua del maresciallo

Ney, opera di Rude, entrambe al

Carrefour de l’Observatoire, quella

del Lion de Belfort scolpita da Bartholdi

in piazza Denfert-Rocherau.

Nulla che valesse il viaggio, bofonchiava

Jacob, e in più che babele di

lingue e di costumi, che assenza di

gusto e di moralità. La Rotonde

aveva aperto i battenti nel 1911,

proprio all’angolo fra i boulevards

Raspail e Montparnasse: era ristorante,

dancing e locale notturno,

c’era una fauna di artisti slavi,

sudamericani, scandinavi mischiata

a modelle, magnaccia, spacciatori.

Ci andavano Picasso, Modigliani,

Van Dongen, «i pittori traditori di

Montmartre» secondo Jacob, i poeti

Cendrars, Salmon, Fargue. Di

fronte c’era il D^ome, che il critico

d’arte del Figaro, Andreé Warnod,

aveva definito «piazza pubblica,

albergo, foro, ghetto, corte dei

miracoli»: nel 1905 l’arrivo di Jules

Pascin, l’illustratore principe del

Semplicissimus, era stato festeggiato

da tutti i pittori dell’Europa centrale

di stanza a Parigi.

La «resistenza» di Max Jacob durò

sino all’agosto del 1916: c’era la

Grande guerra, molti amici erano al

fronte, un invito a pranzo difficile

da rifiutare, per di più da Bety, che

il suo adorato Apollinaire definiva

l’unico vero vinaio di Parigi. E

pazienza se Bety era in quel maledetto

quartiere e proprio accanto

alla Rotonde, di faccia al D^ome.

Una serie di fotografie scattate da

Jean Cocteau con la macchina presa

in prestito dalla madre, perché

naturalmente c’era già Cocteau lì

dove la celebrità affermata e/o in

fieri era presente, mostra Jacob,

Picasso, lo scrittore Henri-Pierre

Roché, quello di Jules e Jim, e la

scultrice ventenne Marie Vassilieff.

Sono loro i quattro commensali di

Bety, ma le immagini sono state

prese al momento del caffè, quando

il quartetto si è trasferito sulla terrazza

della Rotonde ed è stato raggiunto

da Modigliani, Salmon, Kisling,

Ortis de Zàrate. In quelle

istantanee c’è, nero su bianco, lo

spirito di un’epoca e di un luogo.

Quando la guerra finisce e gli anni

Venti hanno inizio il quartiere odiato

da Max Jacob non si chiama più

così, ma The Quarter: ci vivono

almeno 250 americani, poeti,

romanzieri, direttori di riviste, edi-

tori. Al cambio un dollaro vale cinquanta

franchi, e questo è già un

buon motivo per spiegare il perché

di una scelta. E poi c’è l’America

puritana, l’America austera, l’America

del proibizionismo che invoglia

alla fuga: a Parigi si beve, si fuma,

non ci si scandalizza, si va alle

mostre, c’è Proust, c’è Joyce... Cosa

si può chiedere di più? Les exilés de

Montparnasse (291 pagine, 21 euri)

li definisce Jean-Paul Caracalla nel

saggio appena uscito che li immortala

e il connubio arte-vita è per gran

parte di essi la vera molla a un «esilio

» volontario e per nulla sofferto.

Prendiamo l’americana Sylvia

Beach. Ha 29 anni quando incontra

la francese Adrienne Monnier, che

ne ha ventiquattro e gestisce una

libreria in rue de l’Odeon. Nel giro

di poco, Sylvia apre la sua, prima in

rue Dupuytren, poi di fronte a quella

dell’amica, con cui ormai convive: si

chiamerà Shakespeare and

Company, avrà la benedizione di

Gertrude Stein, la decana degli americani

a Parigi, diverrà il luogo di

ritrovo di tutti gli scrittori anglosassoni

che contano. Sarà Sylvia a editare

l’Ulisse di Joyce, proibito oltre

Manica e oltre oceano.

Prendiamo Robert McAlmon. Ha 26

anni, sogna di essere poeta, ha fama

di seduttore, ha contratto un matrimonio

«bianco» con Winifried Ellerman,

nome d’arte Bryher, inglese,

figlia di finanzieri, lesbica. In cambio

del patrimonio, che gli vale il

soprannome di McAlimony, assegno

alimentare, Bob le dà la rispettabilità

di un’unione borghese e le permette

di dividere il letto matrimoniale non

con lui, ma con lei, Hilde Doolittle,

il grande amore di Bryher. Tutto ciò

a Parigi, naturalmente, dove McAlmond

sarà di volta in volta bevitore,

editore, scrittore, gran pettegolo. È

di casa a La Coupole, al Select, al

Dingo di rue Delambre, che ha per

barman un ex pugile, per proprietario

un altro americano, per cliente

più fedele Ernest Hemingway. I due

sono fatti per piacersi e poi detestarsi:

Bob sarà uno dei suoi primi editori

e poi lo ridicolizzerà in un libro di

memorie, Being Geniuses Together

(in Italia l’ha tradotto Adelphi, Vita

da geni). Ernest si limiterà a ritenerlo

un fallito.

Al Dingo è di casa anche Francis

Scott Fitzgerald ed è qui che

Hemingway lo incontra per la prima

volta, nel 1925. L’uno è uno scrittore

affermato, l’altro una semplice promessa

che ha però dalla sua il talento

e la voglia di arrivare, la capacità di

farsi amare e l’egoismo di chi non

accetta di sentirsi in debito con qualcuno.

Sarà così con Gertrude Stein,

sarà così con Scott, ma in quel 1925

tutto è ancora sereno e senza scosse.

A Fitzgerald Montparnasse non piace:

lo frequenta, sì, ma lui è da Rive

Droite, più che da Rive Gauche. I

suoi amici più cari sono i Murphy,

Sara e Gerald, che abitano in rue

Greny, vicino al bois de Boulogne e

che per festeggiare i balletti russi

Noces, musiche di Stravinski, coreografia

di Balanchine, hanno affittato

un ristorante-peniche al pont de la

Concorde: ai tavoli siedono Picasso,

Tzara, la pianista Marcelle Meyer e

la pittrice Natalia Goncharova.

Vestito da ufficiale di marina, Jean

Cocteau spalanca ogni tanto gli oblò

e annuncia con aria funebre: «Affondiamo

».

Il melange Rive Droite-Montparnasse

più incredibile è forse quello simboleggiato

da Helena Rubinstein e

Edward Titus. Lei vive all’isle Saint-

Louis, in un H^otel particulier del

Seicento, lui in un bilocale in rue

Delambre, sopra il Ringo, in pratica,

e a due passi dal D^ome. Lei ha passato

la cinquantina, lui ha 13 anni di

meno, sono stati sposati, hanno messo

al mondo due figli, ma Edward ha

una passione per le babysitter dei

loro bambini, è scappato con una di

esse, c’è stata una separazione… E

tuttavia Helena non si decide a rompere,

liti e riconciliazioni si susseguono,

vivono ciascuno per conto

proprio, ma continuano a vedersi.

Titus è negato per gli affari, ma capisce

di arte e di letteratura, la Rubinstein

confonde Picasso con Botticelli,

non ha mai letto un libro, ma ha

messo su la più importante realtà

cosmetica del suo tempo. Così, lei lo

foraggia e in cambio si fa consigliare

sugli investimenti redditizi in campo

artistico. Risultato: Titus edita The

Quarter, rivista cult dell’epoca, pubblica

D.H. Lawrence, Ralph Dunning,

Schnitzler, le memorie di Kiki

di Montparnasse con prefazione di

Hemingway, apre una libreria, At

The Sign of the Black Manikin, specializzata

in antiquariato: le prime

edizioni di Verlaine, Le Corbeau di

Edgar Allan Poe tradotto da Mallarmé

e illustrato da Manet, innumerevoli

corrispondenze private. «Parlare

con lui è fare un viaggio nel regno

della spiritualità» dice chi lo frequenta.

Helena ne è soggiogata, ma

non rinuncia a dire la sua: Joyce

puzza e mangia allungando il collo

come un uccello, Hemingway fisicamente

non le piace, Lawrence è un

timidone e insomma «per me erano

tutti dei pazzi a cui bisognava pagare

sempre il pranzo. Come potevo

pensare che valessero qualcosa?».

Se la Rubinstein non capisce niente

di arte, tutto di affari e ha in fondo

amato un unico uomo nella sua vita,

Nancy Cunard è molto bella, si ritiene

una poetessa e sogna di essere la

ninfa egeria della Parigi intellettuale.

L’unica cosa che le due donne hanno

in comune sono i soldi, ma quelli di

Helena derivano dal suo talento,

quelli di Nancy dal fatto di essere

l’erede di un grande armatore. Bambina

poco amata, ha vissuto l’infanzia

in una casa dove c’erano «quaranta

domestici, ma non un genitore

». Adesso che ha vent’anni vuole

rifarsi: sarà l’amante di Aldous Huxley

e di Louis Aragon, l’ispiratrice di

Brancusi e di Kokoschka, la modella

di Man Ray e Cecil Beaton, la regina

del Boeuf sur le toit di rue Boissy

d’Anglas e della Cigale di boulevard

Rochechouart... Ma è anche la fondatrice

delle edizioni Hours che tengono

a battesimo Samuel Beckett,

pubblicano Lewis Carroll e Ezra

Pound, Aragon e Norman Douglas.

Ha imparato l’arte tipografica, comprato

una macchina a stampa, convive

con un musicista di colore...

Ricchi, poveri, geni, mediocri, gli

«esiliati» di Montparnasse dettano

legge per un ventennio e passa.

Henry Miller arriva a Parigi nel

1928 insieme con June, sua moglie.

Ci ritorna nel 1930 da solo, batte la

città palmo a palmo, fa la fame,

spesso dorme per strada, si innamora,

scrive. Il risultato è Tropico del

Cancro ed è il 1934. Perchè Miller

possa vedere il suo romanzo pubblicato

negli Stati Uniti dovrà aspettare

trent’anni e averne lui settanta. «Esiliarsi

» a volte vuol dire salvarsi.