Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'escalation di violenza in Palestina

L'escalation di violenza in Palestina

di Elle Emme - 02/02/2007

 

L'escalation di violenza in Israele e Palestina sembra proseguire senza soste negli ultimi giorni. Nel solo weekend corso sono una trentina le persone uccise, tra cui donne e bambini, e centinaia i feriti, durante gli scontri sempre più feroci tra le milizie armate di Fatah e Hamas nella Striscia di Gaza. I negoziati per la formazione del governo palestinese di unità nazionale sembrano definitivamente tramontati, lasciando la parola alle armi. E una prima conseguenza drammatica della lotta fratricida tra i militanti palestinesi è stato l'attacco suicida di Lunedì a Eilat, un resort turistico israeliano sul Mar Rosso, il primo attentato in Israele da Aprile dell'anno scorso.

L'incontro tra il Presidente dell'ANP Mamhoud Abbas e il leader di Hamas Khaled Masha'al, svoltosi la scorsa settimana a Damasco, aveva creato grosse aspettative nell'opinione pubblica palestinese. Dopo una serie di smentite e riconferme, l'incontro ha avuto luogo grazie alla mediazione del Presidente siriano Assad. Tuttavia si è rivelato un completo fallimento: non c'è stato nessun accordo sul governo di unità nazionale né sulla cessazione delle ostilità tra i clan rivali a Gaza e Abbas se ne è tornato a Ramallah senza alcun risultato politico. L'unica novità è stata il trasferimento di cento milioni di dollari ad Abbas da parte del governo israeliano, che sono stati immediatamente utilizzati per riarmare i militanti di Fatah e che probabilmente hanno minato sul nascere la riuscita dell'incontro di Damasco. A fronte del fallito vertice, le violenze nei Territori hanno subito un'impennata improvvisa: sparatorie tra milizie armate e colpi di mortaio si sono susseguiti a continui rapimenti di militanti e uomini politici; blocchi stradali improvvisati (checkpoint palestinesi) sono apparsi ovunque a protezione delle case e degli uffici dei funzionari dei due movimenti.

Se fino a pochi mesi fa Gaza era la roccaforte indiscussa del movimento islamico Hamas, ora grazie agli aiuti americani e israeliani la situazione è decisamente cambiata. Come ha recentemente dichiarato Mohammed Dahlan, l'uomo forte di Fatah nella Striscia, ormai il partito del presidente ha recuperato il consenso perduto ed è pronto per un confronto a tutto campo con Hamas. Se le sue sole forze non bastassero, potrebbero arrivare persino rinforzi dall'esterno. In una recente intervista, infatti, un generale dell'IDF ha ventilato l'ipotesi di un'eventuale incursione a Gaza dell'esercito israeliano, nel tentativo di aiutare Fatah a schiacciare definitivamente il movimento islamico.

Dalla società civile palestinese si alzano continue voci di protesta contro questo inarrestabile bagno di sangue. I prigionieri palestinesi di tutte le organizzazioni, reclusi nelle carceri israeliane, hanno annunciato all'unanimità uno sciopero della fame ad oltranza per chiedere la fine dei combattimenti. I prigionieri sono da mesi particolarmente attivi nello sforzo di ricondurre al dialogo Fatah e Hamas: lo scorso anno fu proprio il cosiddetto “documento dei prigionieri”, ideato da Marwan Barghouti, a dare il via ai negoziati tra i due movimenti per la creazione di un governo di unità nazionale, poi naufragati. Nelle città della West Bank si svolgono in questi giorni continue manifestazioni per chiedere la fine degli scontri, anche se purtroppo le violenze si stanno espandendo da Gaza fino a Ramallah e Nablus. Le autorità islamiche di Gaza hanno persino emanato una fatwa che proibisce gli scontri tra militanti palestinesi.

Dopo la fallita mediazione siriana, è ora il turno dell'Arabia Saudita di scendere in campo. Il principe saudita ha invitato i leader palestinesi alla Mecca per rilanciare il dialogo. L'invito è stato subito accolto sia da Abbas che dal premier Haniyeh, ma non è ancora stata fissata una data precisa per l'incontro. Una tenue speranza si è accesa lunedì, quando i leader di Hamas e Fatah hanno dichiarato un “cessate il fuoco”, che ha portato allo scambio di alcuni dei militanti sequestrati. Tuttavia questa tregua non ha impedito ulteriori scontri e al momento non è chiaro quale sarà il suo l'esito.

L'unica cosa certa al momento è che la strategia studiata a tavolino dall'amministrazione Bush e dal governo israeliano sta dando i suoi frutti. In seguito al disastroso fallimento dell' “esportazione della democrazia” in Afghanistan e Iraq, la nuova politica del “caos creativo” in Medio Oriente, dopo la prima sperimentazione in Libano, viene ora applicata in Palestina con pieno successo. Appurato il fatto che la sola forza militare americana non è sufficiente a eliminare i movimenti di resistenza islamica, la nuova strategia consiste nel favorire nella regione la creazione di focolai di guerre civili a bassa intensità. In questa prospettiva di anarchia, i conflitti locali mantengono impegnate in scontri contrapposti le varie fazioni, evitando che queste si coalizzino contro gli interessi occidentali nell'area.

Nel caso della Palestina, continuando a fornire armi a Fatah e spingendo Gaza verso la guerra civile, Bush e Olmert stanno lentamente logorando il movimento islamico Hamas, senza dover più intervenire direttamente. Tuttavia, l'instabilità nei Territori Occupati può facilmente sfuggire al controllo e ha avuto il suo primo “effetto collaterale” in Israele. Dopo quasi dieci mesi di calma all'interno della Linea Verde, lunedì mattina un kamikaze della Jihad Islamica ha fatto saltare un panificio nel centro di Eilat, cittadina turistica sul Mar Rosso, uccidendo tre passanti israeliani. Il kamikaze era un giovane militante proveniente dalla striscia di Gaza. Si è potuto infiltrare in Israele seguendo una nuova strada. Dal momento che la West Bank è sotto la morsa d'acciaio dell'IDF, che ha aumentato a dismisura il numero di checkpoints e ridotto al minimo le possibilità di spostamento per il milione e mezzo di palestinesi che vi risiedono, la nuova tattica della Jihad è quella di spedire i kamikaze in Sinai attraverso dei tunnel scavati sotto al valico di Rafah tra Gaza ed Egitto e, da qui, attraversare agevolmente il confine non sorvegliato tra Egitto e Israele.

Nel rivendicare l'attentato, la Jihad ha sottolineato che lo scopo dell'attacco è stato proprio quello di cercare di porre fine agli scontri fratricidi nella striscia di Gaza. Un portavoce del movimento islamico ha infatti invitato i militanti di tutte le fazioni a “seguire l'esempio di questo martire e puntare i fucili non contro i proprio fratelli ma contro il nemico sionista.” A quanto pare il messaggio è stato ricevuto dalle leadership di Hamas e Fatah e un volatile tentativo di cessate-il-fuoco è stato messo in campo ed è tuttora in corso. Il governo israeliano ha per il momento deciso di non rispondere all'attentato con una massiccia offensiva e di non rioccupare Gaza.

Olmert teme infatti di dare ai militanti un motivo per distogliere le armi dagli scontri inter-palestinesi per rivolgerle nuovamente contro Israele. La situazione rimane quindi estremamente instabile ed è difficile prevedere se e quando i clan rivali, attualmente ingaggiati in una vera e propria guerra per il controllo del territorio, troveranno finalmente una via d'uscita dal vicolo cieco in cui stanno facendo precipitare la striscia di Gaza e l'intera Palestina.