Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Lo studio dell'etica buddhista

Lo studio dell'etica buddhista

di Paolo Vicentini - 05/02/2007

 

 

 

 

 

 

1. Le principali monografie

      

   Di fronte alla complessità di quell’insieme di dottrine che vanno sotto il nome di buddhismo è facile dimenticare che ciò a cui esse cercano di dare una risposta è, fondamentalmente, anche un problema etico: l’eterno problema di quale sia per l’uomo il modo migliore di vivere. La soluzione che il buddhismo vi dà, però, è eminentemente gnoseologica. Siddattha Gotama sosteneva di aver trovato una via per eliminare la sofferenza dalla vita umana, ma essa passava per un radicale riorientamento della nostra comprensione della realtà, poiché la sofferenza aveva origine, a suo modo di vedere, in un’errata percezione di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo.

  Ciò spiega perché l’etica, come disciplina filosofica indipendente, non abbia mai goduto nel pensiero buddhista di quell’autonomia di cui invece ha goduto in Occidente.[1] Poiché il Buddha aveva già provveduto a dare, nei suoi insegnamenti, un’ampia e dettagliata esposizione dei principi etici normativi in base ai quali condurre una vita “nobile”, sarebbe apparsa superflua ogni ulteriore speculazione in questo campo, e comunque di minor importanza rispetto alla loro applicazione e verifica nella propria esperienza.

  Relativamente pochi sono dunque gli studi che sono stati specificamente dedicati all’etica buddhista e ancor meno quelli che hanno cercato di offrirne una panoramica che coinvolgesse anche la tradizione del grande veicolo (mahayana) e non solo del piccolo veicolo (hinayana).[2] Lo studio dell’etica buddhista è stato trascurato non solo all’interno di tale tradizione, ma anche dagli studiosi occidentali. Solo recentemente, con il fiorire di studi su tutti gli aspetti del pensiero e della pratica buddhisti, si è cominciato a rivolgere la dovuta attenzione anche all’ethos. Tuttavia, molto del lavoro che è stato fatto è ancora preparatorio e assai poco sistematico e non esistono studi d’insieme che provvedano ad indagare e caratterizzare l’etica buddhista utilizzando la tipologia dell’etica filosofica occidentale.[3]

  Molti dei contributi che sono stati dedicati all’etica buddhista (quasi esclusivamente rivolti all’etica theravada) si sono fermati al livello dell’etica descrittiva. Ne è un esempio eloquente il primo studio del genere, ossia Ethics of Buddhism (1926) di S. Tachibana, in cui l’autore, dopo aver affermato che “per quanto ne so, nessuna opera è dedicata specificamente allo studio di questo singolo argomento”,[4] precisa che il suo intento è di “illustrare la moralità pratica del buddhismo” piuttosto che “semplicemente astrarre la sua idea morale ed esaminarla da un punto di vista filosofico”.[5] Un più recente esempio in questo senso è il lavoro di H. Saddhatissa, Buddhist Ethics (1970), che ha comunque il merito di esporre gli insegnamenti morali fondamentali del Buddha in forma chiara e comprensibile, fedele alle categorie e classificazioni tradizionali. Anche se interamente dedicato all’etica del buddhismo mahayana tibetano, non sfugge a questo giudizio neppure il recentissimo Buddhist Ethics (1997), di Jamgön Kongtrul Lodrö Tayé.

  Meno afflitti dalle ristrettezze di visuale imposte da una presentazione semplicemente descrittiva dell’etica buddhista, ma riguardanti solo l’ambito theravada, sono gli studi di W.L. King, In the Hope of Nibbana (1964), e D.J. Kalupahana, Ethics in Early Buddhism (1995). Il lavoro di King si interessa in particolar modo di sei aspetti dell’etica buddhista theravada: 1) la relazione dell’etica con la struttura complessiva della dottrina e della pratica buddhista, 2) la relazione dell’etica con la psicologia buddhista, 3) l’effetto sulle virtù etiche della polarità nibbana-kamma, 4) l’analisi buddhista della bontà e della malvagità sul piano dell’azione concreta, 5) l’esistenza o meno di un’etica sociale nel buddhismo, 6) i nuovi sviluppi dell’etica, qualora vi siano, nel buddhismo theravada. Il lavoro di Kalupahana, invece, dopo una prima parte dedicata all’illustrazione dello sfondo storico dell’etica buddhista e di alcuni problemi centrali che ne caratterizzano l’andamento – la conoscenza, la distinzione fatti-valori, il rapporto fra volontà individuale ed universale e quello fra individuo e società –, e una seconda parte volta ad una esposizione descrittiva dell’etica buddhista così come risulta dai primi discorsi del Buddha (sutta) e dai libri del Canone pali che espongono le regole disciplinari monastiche (vinaya), si sofferma, nella terza parte (capp. 12-17), ad esaminare da un punto di vista normativo le applicazioni dei principi morali buddhisti nell’ambito di alcuni aspetti della vita umana: l’organizzazione sociale, l’economia, la politica, la legge e l’ambiente.

  E’ il libro La morale bouddhique (1927), di L. de La Vallée Poussin, a spingersi per la prima volta al di là del theravada, sebbene non al di là del piccolo veicolo. Avendo come sua fonte principale l’Abhidharmakosa di Vasubandhu, esso è in larga parte un riassunto delle teorie del karma proprie delle scuole della tradizione scolastica (Abhidharma) del buddhismo indiano. Il primo vero studio sull’etica mahayana si ha solo nel 1978, con l’opera di R. Hindery, Comparative Ethics in Hindu and Buddhist Traditions, che dedica un intero capitolo alle scuole mahayana dell’estremo oriente.[6]  L’ulteriore contributo innovativo di questo lavoro è poi fornito dal suo stile di analisi, che si distacca dal livello semplicemente descrittivo per cercare di comprendere il dinamismo complessivo dell’etica mahayana. L’uscita dal ristretto ambito delle fonti di matrice theravada produce una nuova prospettiva: guardando all’etica theravada dal punto di vista del mahayana è possibile indagare e stabilire con più chiarezza la sua nozione di valore, mentre attraverso l’operazione inversa è possible osservare con più facilità il processo di adattamento e ricalibrazione subito dall’etica buddhista nel corso del suo divenire storico.

  Gli scrittori che hanno confinato la loro attenzione alle fonti theravada hanno sofferto di una mancanza di sensibilità proprio nei confronti dei sottili cambiamenti che il pensiero etico ha manifestato all’interno della tradizione buddhista considerata nella sua globalità. A questo difetto hanno cercato di ovviare gli studi di G.S.P. Misra, Development of Buddhist Ethics (1984), e di D. Keown, The Nature of Buddhist Ethics (1992). Il primo va elogiato per aver ampliato non poco lo studio dell’etica buddhista, includendo degli importanti capitoli sull’analisi psicologica dei dati etici nell’Abhidharma (cap. 3) e sui valori morali del bodhisattva nel mahayana (cap. 5). Il capitolo finale (cap. 6) esplora inoltre l’oltrepassamento dei valori etici nei sistemi buddhisti tantrici. Obiettivo dell’autore è studiare l’etica buddhista “come un processo che si sviluppa non solo dal punto di vista delle dinamiche interne relative alle sue formulazioni dottrinali ed etiche, ma anche da quello della sua risposta a varie necessità di tipo storico, con la conseguente volontà di parte dei suoi praticanti di introdurre nella sua struttura generale novità di forme e di espressioni”.[7] Lo studio di Keown, invece, si propone una discussione del complesso divenire dell’etica buddhista da un punto di vista sia descrittivo che metaetico. In esso, cioè, sono presenti sia dei capitoli volti a presentare in maniera descrittiva l’etica del piccolo (cap. 2) e grande veicolo (cap. 6), sia una precisa disamina delle basi teoretiche dell’etica buddhista alla luce di due grandi modelli etici occidentali: quello utilitarista e quello aristotelico (capp. 6 e 7).

 

 

2. Le principali interpretazioni

 

  Dal punto di vista interpretativo, poi, le varie posizioni assunte da questi e da altri studiosi nei confronti dell’etica buddhista possono essere classificate in base al rapporto da essi stabilito, all’interno del sentiero buddhista, fra etica, conoscenza e summum bonum, ossia, in termini buddhisti, fra sila, panna e nibbana. Vi sono vari modi in cui questi tre elementi della soteriologia buddhista possono essere posti in relazione, ma tre sono particolarmente significativi.

  Di gran lunga la più comune è la prospettiva secondo cui l’etica (sila) è solo strumentale rispetto alla conoscenza (panna) e che identifica quest’ultima con il nibbana. Il nibbana consisterebbe così nel possesso di un certo tipo di conoscenza e diverrebbe un fine di tipo intellettuale. Dal punto di vista dell’ottuplice sentiero, questa interpretazione considera la moralità uno stadio preliminare sulla via che porta alla conoscenza: la moralità (sila) conduce alla meditazione (samadhi) che a sua volta conduce alla conoscenza o comprensione (panna). Un buon esempio di questa prospettiva è fornito da O.H. de A. Wijesekera:

 

                   Si ritiene che questo sentiero consista di tre stadi o parti (¼). Il primo di tali stadi è sila o condotta etica ed il comportamento morale ha significato per il discepolo soltanto finché egli non giunga al successivo stadio del sentiero, cioè la concentrazione (samadhi). Ma il fine non è ancora conseguito e deve essere attraversato uno stadio evolutivo ancora più elevato, tecnicamente conosciuto come panna (saggezza).[8]

 

  Qui l’etica svolge solo un ruolo provvisorio e sussidiario nella realizzazione della conoscenza ed il nibbana, caratterizzato come uno stato “al di là del bene e del male”, è considerato trascendente i valori etici. Questa prospettiva può vantare una lunga tradizione, essendo stata adottata da molti autori. Già nel 1914 essa fu suggerita da E.J. Thomas:

 

                   Ma sebbene il processo sia in ampia misura etico, ciò non è altrettanto vero per la sua conclusione. Il fine è il completo distacco dal mondo di nascita e morte ed il carattere etico permane solo fintantoché la retta condotta sia considerata essenziale per conseguirlo.[9]

 

  Un esempio ancora più chiaro della completa separazione della sfera del nibbana da quella etica è fornito da C. Gudmunsen. Egli attribuisce all’etica solo una funzione strumentale, volta a facilitare il passaggio dal mondo condizionato al nibbana, e propone un modello di etica buddhista a due livelli: uno superiore (Higher Order Evaluation), concernente il nibbana, ed uno inferiore (Lower Order Evaluation), concernente sila. Una distinzione, questa, basata su un supposto “assoluto abisso logico e ontologico fra il nibbana ed il mondo condizionato”,[10] tale che l’interesse per l’etica, proprio di quest’ultimo, non può per nulla trovare fondamento nel primo. Data questa dicotomia, sila diviene semplicemente “la prima parte, da ‘superare’, della via verso il nibbana”.[11]

  Anche G.S.P. Misra sembra seguire questa tesi:

 

                   Il Dhamma del Buddha ebbe un carattere pratico e dinamico, ma anche mistico. Conformemente al suo carattere mistico esso ha presentato, quali parti inseparabili, una mescolanza di religione ed etica, l’ultima essendo non un fine in sé ma un mezzo per condurre ad uno stadio superiore, di completa trascendenza.[12]

 

  Tuttavia, solo due pagine prima, egli appare sostenere un punto di vista assai differente, poiché cita con approvazione M. Anesaki riguardo la relazione non strumentale fra sila e panna:

 

                   Condotta e intuizione sono inseparabilmente unite; esse formano una coppia fondamentale, ciascuna delle due adempiendo alla sua specifica funzione con l’ausilio dell’altra. “La moralità, osserva M. Anesaki, non è solo un mezzo in vista della perfezione¼ è una parte integrante della perfezione”.[13]

 

  Un altro sostenitore della teoria secondo cui, attraverso la conoscenza, l’etica è trascesa è S. Wang, a parere del quale sebbene i dieci precetti (dasasila) abbiano costituito per il buddhismo una serie di regole etiche “essi erano volti a far presa sul non illuminato, cioè su chi era mentalmente un bambino”.[14] In breve: “Il buddhismo giunse al relativismo ed all’etica situazionale già prima dell’era volgare”.[15]

  Quelli che però hanno espresso in maniera più sistematica l’interpretazione “trascendentalista” dell’etica buddhista sono W. King[16] e M.E. Spiro.[17] Detto molto brevemente, King e Spiro, che delimitano le loro ricerche all’interno della tradizione theravada, sostengono l’esistenza di due forme di buddhismo, regolate separatamente attraverso i valori disgiuntivi del nibbana e del kamma. Essi rilevano, inoltre, come questi due valori siano perseguiti da due gruppi sociologicamente distinti: i monaci, da una parte, i laici dall’altra. Così, mentre un laico cerca di accumulare merito (punna) attraverso la generosità (dana) e la moralità (sila) nella speranza di una buona rinascita, un monaco cerca di sradicare ogni tipo di kamma, anche quello positivo, attraverso la coltivazione della mente (bhavana) nella speranza di porre fine alle rinascite e realizzare il nibbana. Queste due forme di buddhismo sono chiamate, rispettivamente: a) “buddhismo kammatico” (Spiro) o “etica del kamma” (King), e b) “buddhismo nibbanico” (Spiro) o “etica del nibbana” o “etica dell’equanimità” (King). Secondo questa prospettiva, allora, i valori morali sono confinati nella sfera del buddhismo kammatico ed esclusi da quella del buddhismo nibbanico. Peraltro, come nel caso di Gudmunsen, anche questi due studiosi considerano la distinzione fra ambito del kamma ed ambito del nibbana non solamente sociologica, ma ontologica e assoluta:

 

                   Da un punto di vista ontologico, il buddhismo postula l’esistenza di due piani i quali, come linee parallele, non si incontrano mai. Da una parte vi è il samsara, il piano mondano (lokiya); dall’altra vi è il nirvana, il piano oltremondano (lokuttara) o trascendente (¼). Questi due piani, comunque, non sono solo ontologicamente discontinui, ma anche edonisticamente dicotomici. Il primo è il regno della completa sofferenza; il secondo è il regno della cessazione della sofferenza.[18]

 

  Di solito, la visione dell’etica come solo preliminare o strumentale va di pari passo con una visione del karma come meccanismo di compenso o retribuzione personali il quale tende a corrodere la struttura di fondo della moralità, per sua natura impersonale. In questo senso P. Dahlke può affermare:

 

                   Quella cordialità che dimentica se stessa per gli altri, quell’affetto che genera tenerezza e sentimento, qui mancano del tutto. Nel buddhismo l’intero modello morale non è altro che il risultato di una somma aritmetica attuata da un lucido, freddo egoismo; tanto io dò agli altri, altrettanto ne verrà a me. Il kamma è il matematico più preciso del mondo.[19]

 

  Esprimendo un punto di vista simile, H. Dayal scrive:

 

                   I buddhisti hanno sviluppato una visione chiaramente quantitativa di punna, che sembra trasformare la loro tanto celebrata etica in un sordido sistema di aritmetica commerciale.[20]

 

  Questa interpretazione utilitaristica dell’etica buddhista è diffusa soprattutto nell’ambito della tradizione theravada, molti dei cui praticanti considerano l’etica come uno stadio preparatorio sul sentiero dell’illuminazione. I praticanti del mahayana, invece, sono meno inclini verso questa prospettiva, forse perché i testi della loro tradizione affermano a più riprese l’importanza di karuna (compassione) quale caratteristica essenziale del bodhisattva. Nella sua prefazione al saggio di I.B. Horner, The Basic Position of Sila (1950), G.P. Malalasekera sottolinea che “il buddhismo non ha mai considerato sila come un fine in sé, ma solo come un mezzo in vista di un fine”.[21] Del resto la stessa Horner, nel suo saggio, sostiene che la condotta morale è “non più che l’inizio, l’ABC del processo di sviluppo che culmina in quello più elevato”.[22] Su questo Wijesekera scrive:

 

                   Difatti il primo buddhismo avverte l’aspirante di controllare la moralità, ma di non lasciare che essa prevalga su di lui, ed è chiaramente prescritto che anche la condotta virtuosa dev’essere ad un certo punto superata.[23]

 

  Una breve descrizione dell’etica buddhista è fornita da C.A.F. Rhys Davids, che osserva:

 

                   Il buddhista (¼) era un edonista e quindi, che lo ammettesse o meno, la sua moralità era condizionata, ovvero, detto in termini di etica britannica, utilitaristica e non intuizionista.[24]

 

  Anche Dayal non ha dubbi sul fatto che “il puro edonismo sembra perciò essere la dottrina prevalente dell’etica buddhista”;[25] mentre Kalupahana nota che “l’enfasi sulla felicità quale fine della condotta etica sembra dare alla dottrina buddhista un carattere utilitaristico”.[26] Descrivendo gli insegnamenti etici del buddhismo J.B. Pratt conclude: “Questo sistema può essere classificato come una forma di edonismo altruistico”.[27] E più oltre: “Il principio in base al quale devono essere distinte le forme di felicità buone da quelle cattive è esplicitamente stabilito. E’ il principio utilitaristico”.[28] E ancora:

 

                   L’etica del Buddha può allora ben essere definita stoica, ma il principio che sorregge e giustifica il suo stoicismo, al quale egli fa appello quando si rende necessaria l’argomentazione, è il suo fondamentale edonismo utilitaristico (o altruistico).[29]

 

  K. Anuruddha, parlando della “natura pratica della moralità buddhista e del fine utilitaristico che essa persegue”[30] giunge alle seguenti conclusioni:

 

                   Per distinguere ciò che è buono e ciò che è cattivo il buddhismo evidenzia due criteri, quali 1) cetana, l’intenzione che spinge qualcuno ad agire e 2) vipaka [sic], le conseguenze determinate dall’azione. Dei due, il buddhismo sembra aver messo più enfasi sul secondo e perciò l’etica buddhista può esser considerata di natura utilitaristica.[31]

 

  Saddhatissa descrive il “fine ideale ultimo del buddhismo” come “una condizione sopramondana al di là del bene e del male”,[32] mentre Tachibana caratterizza l’arahat come “non immorale”, ma “sopramorale”.[33] R.C. Bush suggerisce che:

 

                   Siamo perciò portati nella direzione secondo cui la condizione dell’arahat, il fine verso il quale tende il sentiero di mezzo buddhista, non ha a che vedere in principal modo con la vita morale, poiché essa è oltrepassata (¼). I frutti della condizione di arahat non sono certamente da ricercarsi in un qualche nuovo servizio reso all’umanità, una intensificazione dell’amore per il nostro prossimo, delle buone azioni compiute da una persona rinnovata.[34]

 

  Coloro che sostengono l’interpretazione utilitaristica dell’etica buddhista qui delineata fanno solitamente riferimento alla parabola della zattera,[35] interpretata in modo da voler significare che le considerazoni di carattere etico devono essere alla fine trascese. Così, già nel 1950, Horner può scrivere:

 

                   La moralità dev’essere lasciata alle spalle (¼) come una zattera una volta che l’attraversata sia stata felicemente portata a termine. In altre parole, l’arahat è al di sopra del bene e del male e ha trasceso entrambi.[36]

 

  La possibile conseguenza di questo punto di vista è riassunta da Hindery:

 

                   Se la norma che regola le relazioni sociali di qualcuno è in definitiva volta allo sradicamento dell’ignoranza e all’ottenimento dell’illuminazione ‘personale’, allora alcuni potrebbero sostenere che la moralità del theravada non è del tutto moralità, ma una forma di egoismo filosofico, soggettivamente amorale.[37]

 

  In un breve tentativo di classificazione teoretica Misra confronta l’intuizionismo con l’utilitarismo ideale e identifica il buddhismo con il primo:

 

                   Sarebbe utile far qui una breve confronto fra due sistemi di pensiero etico diametralmente opposti, ossia l’intuizionismo e l’utilitarismo ideale, e poi vedere la posizione buddhista al riguardo. Il primo è identificato nel sistema etico kantiano (¼). Buddha apparterrebbe ovviamente alla scuola di pensiero etico intuizionista.[38]

 

  Sfortunatamente Misra non sviluppa ulteriormente questa affermazione e il suo atteggiamento generale circa un ruolo solo strumentale dell’etica sembra contrastare con essa. Infatti il seguente commento, fatto solo poche pagine dopo, suggerisce una posizione completamente opposta, cioè che l’etica buddhista sia utilitaristica:

 

                   L’uomo perfetto non è toccato non solo dal male o dal vizio, ma anche dal bene o dalla virtù. La perfezione non conosce dualismo, è una disposizione della mente per la quale bene e male divengono egualmente indesiderabili (¼). Nei testi buddhisti questa trascendenza del dhamma nello stadio finale trova espressione per mezzo della parabola della zattera.[39]

 

  Infine, G. Dharmasiri sostiene che il buddhismo sia una forma di utilitarismo ideale della sottoclasse dell’utilitarismo della norma, e specifica questa sua posizione aggiungendo che il buddhismo abbraccia la deontologia e la teleologia al solo scopo di, alla fine, trascendere entrambe. “Ciò che tutto questo mostra – egli conclude – è che gli ultimi stadi dell’etica buddhista non possono essere classificati attraverso le categorie analitiche disponibili”.[40]

  Abbiamo offerto qui una breve panoramica di quegli studiosi contemporanei che interpretano l’etica buddhista in chiave strumentale e utilitaristica. Esiste però una seconda possibile interpretazione secondo cui, sebbene nella condizione precedente l’illuminazione i valori etici siano strumentali alla conoscenza, nello stato successivo ad essa sono ristabiliti nella loro dimensione più autentica. In questa prospettiva, quindi, l’esperienza dell’illuminazione segna non la fine ma l’inizio dell’effettiva eticità, poiché produce la rimozione delle afflizioni causate dall’ignoranza che fatalmente pregiudicano il vero comportamento morale. Quest’ultimo diviene allora prerogativa dell’arahat, il quale è libero di esercitarlo a propria discrezione. “Perciò – scrive R.H. Jones – il percorso fondamentale prescritto dal buddhismo theravada non è morale per il solo fatto di condurre al nibbana, ma nel modo di vita illuminato si può scegliere l’attività morale”.[41] Anche questa prospettiva ha una sua lunga tradizione e una posizione simile fu espressa più di novant’anni fa da Dahlke:

 

                   Questa, in breve, è l’originaria scaturigine di tutto il buddhismo. Gautama, che più tardi diviene il Buddha, non inizia il suo cammino come un salvatore del mondo (¼). Nulla è più lontano dalla sua mente che il benessere degli altri. Egli ricerca la propria salvezza e questa soltanto. E’ un impulso puramente egoistico, ma cos’è più naturale per chi si ritrova improvvisamente in una casa avvolta dalle fiamme se non, innanzitutto, cercare di salvare se stesso? Tuttavia, dopo aver ottenuto tale salvezza, dopo aver trovato il proprio sentiero per uscire dall’oceano del dolore verso la spiaggia della liberazione, dopo aver realizzato la beatifica comprensione “io sono salvo”, la sua mente si volge indietro ai suoi compagni sofferenti, ed è solo allora, in questo movimento retrospettivo, che vediamo emergere l’amore nella forma di quella compassione che comprende.[42]

 

  Una variante di questa prospettiva è espressa da A.L. Stephenson in riferimento al karma e al nibbana:

 

                   In primo luogo, sosteniamo che i concetti di karma e nirvana sono antitetici. In nessun modo essi si assomigliano nella forma o nel contenuto. Il nirvana è amorale o sopramorale. Il nirvana è sperimentato sopra o sotto la moralità nel senso di pensiero, parola e azione.[43]

 

  Le due prime interpretazioni dell’etica buddhista appena illustrate possono essere raggruppate insieme, poiché mostrano la comune caratteristica di rendere l’etica dipendente da e sussidiaria alla conoscenza. Una terza possibile interpretazione è quella che considera sia l’etica che la conoscenza in qualche modo presenti insieme nella meta finale del sentiero buddhista. W. Rahula, in What the Buddha Taught (1959), esprime in maniera molto efficace questa prospettiva:

 

                   Perché un uomo sia perfetto, ci sono, secondo il buddhismo, due qualità da sviluppare allo stesso modo: la compassione (karuna) da una parte e la saggezza (panna) dall’altra. Qui la compassione comprende l’amore, la carità, la bontà, la tolleranza, tutte le nobili qualità del cuore; è il lato emotivo, mentre la saggezza sta a significare il lato intellettuale, le qualità dello spirito. Se uno sviluppa solo la parte emotiva, non curandosi di quella intellettuale, diventerà uno sciocco di buon cuore: mentre se svilupperà solo la parte intellettuale non curandosi della emotiva rischia di trasformarsi in un arido intellettuale, senza alcun sentimento nei riguardi degli altri. La perfezione esige che queste due qualità siano sviluppate nella stessa misura. Questo è lo scopo dello stile buddhista di vita, in cui saggezza e compassione sono inseparabilmente unite insieme.[44]

 

  La tesi che nel buddhismo la perfezione morale ed intellettuale siano componenti essenziali del summum bonum ha trovato ai nostri giorni un vigoroso ed originale sostenitore in D. Keown, in quale vede in ciò forti consonanze con l’etica aristotelica. Scrive Keown:

 

   &n