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Maschere: la faccia nascosta di Adamo ed Eva

di redazionale - 13/02/2007

Nella «tunica di pelle» dei padri dell’umanità – nuova carne per Origene, segno di precarietà per Gregorio di Nissa, marchio della tentazione per Eliezer –c’è già il nostro essere sempre «personae», giochi di io e anti-io. Così nel Carnevale ritorna quell’incipit della vita terrestre


Se tutti indossano un secondo volto ecco che il mondo normale viene sostituito da un mondo di «larve». A una festa dove si agitano fantasmi certo ci si può divertire, ed è giusto che questo «mondo alla rovescia» sia anche un allegro scombussolamento di un ordine; ma non sfugga il lato tragico di tale mascherata

In principio c’è la maschera? Adamo, uomo mascherato forse no, ma certo anche il primogenitore del genere umano dopo la caduta ha dovuto sottostare a una sorta di travestimento: il terzo capitolo della Genesi, al versetto 21, dice infatti che dopo il peccato commesso dai nostri antenati originari, Dio – nei panni del sarto – li provvide di una «tunica di pelle». Quell’abito un po’ equivoco in realtà sarebbe il nostro marchio terrestre: secondo Origene il simbolo di una nuova carne, ma secondo altri immagine che evoca fatica, dolore e caducità. Ne scrive, dopo Origene, anche Gregorio di Nissa, che non ha dubbi nel riflettere in quell’immagine biblica l’idea della nostra precarietà, la materialità-mortalità conseguente al peccato. Un rabbino di nome Eliezer sostenne che Dio coprì Adamo ed Eva con la stessa pelle del serpente che li aveva tentati. La mascherata che precede l’espulsione dall’Eden intreccia insomma elementi mortificanti con l’immagine del grande tentatore, e ci dice anche la problematicità di questo occultamento della nostra natura originaria. Siamo maschere, personae, come quelle del teatro greco. Ma prosopon, maschera, volto, è anche un argomento a favore dell’identità: attorno a quel termine ruota una delle grandi dispute sull’essenza stessa dell’icona, che riflette nell’immagine del volto la «persona» di Cristo. Ma nella maschera io e anti-io giocano un’ardua partita senza che apparentemente nessuno l’abbia vinta.
Le mascherate del Carnevale, sature di ebbrezza festosa, che cosa trattengono di quell’incipit della storia umana? Hanno qualcosa da spartire con le «tuniche di pelle»? Il Carnevale chiude il tempo della festa e apre la strada a una serie di riti e atteggiamenti di mortificazione. Eppure, all’origine dell’atto di mascherarsi c’è un elemento religioso che si fonde con il rito funerario, così che nella maschera la dimensione della festa sembra quasi essere negata, o quantomeno esteriore al suo significato profondo. Ma questo è già un indizi o che la maschera occulta qualcosa di serio: la nostra condizione imperfetta. Anche qui si tratta di un rito di passaggio, e nel caso specifico la maschera diventa il simbolo di un passaggio di testimone fra Carnevale e Quaresima. Non a caso, in certe nostre tradizioni popolari, si brucia la maschera-fantoccio del Carnevale. Dopo che l’uomo ha peccato per desiderio di possedere una conoscenza pari a quella divina, Dio mette i cherubini e la fiamma della spada folgorante a difesa dell’Albero della Vita. Non avere accesso a quest’albero sottolinea la nostra condizione di erranti, di stranieri rispetto al mondo perfetto nel quale vedemmo la luce, ci proietta (Heidegger diceva che siamo «gettati») in questo mondo, che è una terra di simulacri, di uomini che continuamente si sentono «altri». Identità, maschera e peccato (o influenze maligne, in certe culture pagane e tribali) sono dunque legati a filo doppio.

Spesso nell’iconografia cristiana moderna il teschio diventa maschera dell’uomo: monito per ciò che diventeremo. Gerolamo o Maddalena meditano a lume di candela avendo accanto quel simbolo. E il teschio ai piedi della croce sul Golgota non allude anzitutto alla morte, bensì ad Adamo, di cui Cristo viene a rigenerare la vita. È dunque, anch’esso, una maschera che rimanda alla nostra essenza ferita, indossandolo esprimiamo per così dire quella condizione «di passaggio» cui siamo costretti dopo l’estromissione dall’Eden, e nell’ambiguità del volto coperto dalla maschera troviamo il significato più profondo del nostro pellegrinaggio su questa terra. Se vogliamo giocare con le parole: il teschio è la maschera interiore dell’uomo, il rovescio, che esprime la massima condizione esteriore dell’uomo, quella del morire. È il calco visibile della nostra più profonda interiorità. La storia delle tradizioni popolari cristiane, infatti, è ricca di immagini di scheletri che indossano maschere e sembrano comportarsi come viventi. La danza macabra, certe apocalissi medievali, i trionfi della morte sono teatri dove il doppio in realtà si svela come maschera «reale» di ciò che siamo e saremo. Naturalmente, anche in queste tradizioni popolari si riflettono preesistenze pagane, che sono poi state mutate di senso dal cristianesimo. Era infatti in uso fin dai tempi più lontani il rituale di «mascherare» il cadavere, nel senso che si applicavano sul volto del morto materiali (nei rituali micenei, per esempio, una foglia d’oro), che ne occultavano il volto e lo mostravano come indifferente alla caducità di cui quel corpo era la prova lampante; la «maschera» era, insomma, viatico a speranze di eternità. Affermandosi nella cultura romana lo ius imaginum, prese piede l’usanza di trarre dei calchi dai cadaveri dei propri congiunti per farne poi busti e sculture, che ben presto divennero un modo di rappresentazione del potere (valeva per gli imperatori e per gli uomini e le donne che avevano giocato un ruolo pubblico importante). Queste «maschere», inusuali in quanto non giustapposte a un volto ma estratte da questo, presero il nome di imagines maiorum; su questa strada si sviluppò anche l’idea di una ritrattistica che nell’immagine possedeva realmente qualcosa del rappresentato (nell’Egitto cristiano, copto, le maschere pittoriche del Fayum). Non è il caso di addentrarsi troppo nei legami che si possono riscontrare, a livello concettuale, tra questa ritrattistica e la teologia delle immagini che culmina nell’icona orientale, si può notare però che la maschera (anche nelle culture tribali) diventa un ponte col trascendente, un modo per indossare quella particolare qualità del divino che in essa si rappresenta e, nel caso di certe ritualità tribali, addirittura vive.

E' celebre, nondimeno, la teoria dei «due corpi del re», che venne chiarita sul piano storico da Ernst Kantorowicz. Esiste il corpo mortale del sovrano, quello dell’individuo che ne incarna in un dato momento storico l’essenza regale, ed esiste il corpo politico e sacrale del re, che non deve mai venir meno, poiché è il fattore coagulante e trascendente della sovranità. Questa distinzione, che prese piede lungo il Medioevo nelle usanze funebri dei re francesi e inglesi, si rese possibile grazie alla sostituzione durante il rito funebre del cadavere (soggetto a rapida corruzione) con una maschera-manichino che riproduceva più o meno fedelmente l’effigie del re. È anche questa una naturale evoluzione – come notava lo storico Waldemar Deonna – dell’antico rituale funerario che aveva aperto la strada alle imagines maiorum.
Nascondere il proprio volto – sintetizzava Deonna – «significa tagliarsi fuori dal mondo normale dei viventi». Recandosi per le strade o nelle piazze a festeggiare il Carnevale si tenga conto di questa constatazione quasi lapalissiana: se tutti indossano una maschera, ecco che il mondo normale viene sostituito da un mondo di «larve» (questo era l’abituale significato che i veneziani davano alla maschera, ma è anche il vocabolo che il teologo e filosofo russo Florenskij utilizza per esprimere la vuotezza del volto inerte, l’eidolon). A una festa dove si agitano larve e fantasmi certo ci si può divertire, ed è giusto che questo «mondo alla rovescia» sia anche vissuto come momento di allegro scombussolamento di un ordine; ma non sfugga il lato tragico di tale mascherata. Forse vale la pena di ricordare un’annotazione di Giovanni Damasceno: «Colui che aveva coperto con tuniche di pelle i progenitori del genere umano è posto nudo sulla croce, perché noi veniamo spogliati della nostra mortalità ed egli possa rivestirci dello splendore dell’incorruzione». Sulla croce cadono tutte le imposture del mondo e, ben più del Dioniso nicciano, quell’uomo denudato dal sacrificio porta alla luce il segreto destino del mondo.