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Lo scrittore che visse due volte

di Stenio Solinas - 13/02/2007

 

Céline à Meudon. Images intimes 1951-1961

Lultimo

domicilio

conosciuto è

questa casa

di Meudon

che si affaccia

sull’antica

route de Gardes del tempo di

Napoleone e abbraccia in lontananza

l’intera vista di Parigi. Nel

1969 un incendio la devastò, ma

tranne qualche ritocco venne ritirata

su «com’era, dov’era», gemella

degli altri tre padiglioni che la

affiancano eretti dal commediografo

Eugène Labiche a metà

Ottocento sui terreni del duca di

Bassano: due piani, un seminterrato

con cantina, un giardino in pendenza.

Sul cancello d’ingresso non

c’è più la doppia insegna che indicava

l’attività di medico del suo

proprietario, quella di insegnante

di danza della moglie, «danza

classica e di carattere», ma identico

è lo stato di disordine e di

abbandono che allora come oggi la

accompagna. Dalle finestre del

soggiorno un pappagallo ti fissa

con aria indifferente,

la veranda

dietro la cucina è

un deposito di

poltrone sfondate,

sedie, letti, materassi,

il verde che

la circonda è spelacchiato

sul

davanti, incolto e

rigoglioso sul lato

nascosto della

casa. Piove, una

pioggia rada, ma

insistente, il cielo

è grigio, l’aria

fredda, c’è una

luce opaca da

pomeriggio d’inverno.

L’unico

segno di vita, oltre

il pappagallo che

però se ne resta

immobile, è l’abbaiare

di un cane

all’interno, ma

non di quei danesi

che un tempo erano

l’orgoglio del

padrone di casa e il

terrore dei vicini, ma

più probabilmente un cagnetto da

compagnia, di quelli da persone

sole, anziane, con poca mobilità.

Com’è del resto l’unico abitante di

questo falansterio ormai troppo

grande per una persona sola, madame

Lucette Almanzor di anni 94,

vedova del dottor Louis-Ferdinand

Destouches, in arte Céline.

Mezzo secolo fa, quando la coppia

venne ad abitarci, Meudon era lontana

periferia, medio-borghese nella

parte alta, proletaria in quella

bassa che andava a confrontarsi

con Billancourt e gli stabilimenti

della Renault, il cuore della classe

operaia cui bisognava risparmiare

le sofferenze tacendo, se era il caso,

la verità: «Non si può far piangere

Billancourt» si giustificava Jean-

Paul Sartre a proposito degli orrori,

tenuti nascosti, del comunismo...

Oggi ci si arriva in venti minuti con

il metro veloce che va a Versailles

o con il trenino regionale che parte

e arriva dalla stazione di Montparnasse...

Il colpo d’occhio su Parigi

che allora incantò Céline c’è ancora,

anche se la città si è dilatata e

la sua fisionomia alterata.

In quel luglio 1951 che segna il

ritorno in patria, lo scrittore ha cinquantasette

anni, ma sembra ne abbia settanta e, artisticamente

parlando, è un morto che cammina:

trionfa l’esistenzialismo, è sulla pista di lancio

Françoise Sagan e lui è lo scrittore più odiato

di Francia, amnistiato da un tribunale militare

grazie a un sotterfugio giuridico... Dalla Danimarca,

dove ha fino allora vissuto, torna con

Lucette, un cane e due gatti. Abita prima presso

i suoceri, a Mentone, ma la riviera, il caldo, i

parenti non fanno per lui e tempo venti giorni

accetta l’offerta di un ricco industriale suo

ammiratore, Paul Marteau, che si offre di ospitarlo

nella sua bella casa di Neuilly-sur-Seine.

Anche qui, la coabitazione è difficile, i gatti

rovinano la tappezzeria e rigano i mobili, Céline

detesta il lusso, è astemio, non ama le

riunioni conviviali... Dopo quindici giorni, saggiamente,

i coniugi Marteau levano le tende e

vanno in vacanza lasciando all’ospite la casa,

una macchina e un autista per cercarne un’altra.

Il primo ottobre il circo Céline si installa

nel padiglione di Meudon.

Céline à Meudon. Images intimes 1951-1961

(Ramsay, 157 pagine, 29,90 euri) è il resoconto

fotografico, quasi un film documentario, di

quell’ultimo decennio, il ritorno alla ribalta e

alla gloria letteraria di uno scrittore maledetto,

l’estrema rappresentazione di un emarginato

dalla vita, dalla società, una via di mezzo fra un

eremita e un clochard, un profeta di sventura e

un alienato, un

medico dei poveri

e un poveraccio...

Messe insieme, le

immagini, spesso

inedite, che lo

compongono

arricchiscono di

nuova luce quelle

più note dello stesso

periodo quando

i fotografi delle

agenzie, dei quotidiani

e delle riviste

specializzate

hanno preso a salire

sulla collina di

Meudon-Bellevue

per immortalare

«lo scrittore che

visse due volte».

Perché se in quest’ultime c’è il folklore del personaggio

e della messa in scena, la sottolineatura

di un’eccentricità giocata all’esterno, in

queste c’è invece la quotidianità, il giorno dopo

giorno di un’esistenza quasi scarnificata dove

tutto è in funzione ormai della scrittura, l’unico

modo per isolarsi dal mondo, dimenticare ciò

che si è divenuti, rivendicare ciò che si è stati.

Circondata di filo spinato, piena di grossi cani

randagi che abbaiano se qualcuno si avvicina al

cancello, la casa ha al seminterrato lo studio di

Céline nella sua doppia veste di medico e di

scrittore, e il letto dove dorme. Al primo piano

Lucette ha ricavato la sua camera e organizzato

una piccola sala di danza, che poi trasferirà al

secondo. La coppia non è di quelle silenziose, e

Lucette non è di quelle mogli devote che subiscono

senza reagire: lui la chiama urlando, e

impreca se lei non risponde, lei gli replica per

le rime, il pappagallo Toto si intromette e a sua

volta ripete le ingiurie del suo padrone... Per i

vicini non è una musica paradisiaca, aggravata

dal fatto che quando i cani si mettono ad

abbaiare Céline non li zittisce, ma anzi li aizza,

come se alle porte ci fosse il nemico... Non sorprende

che per ritorsione il proprietario del

padiglione alla sinistra del suo acquisti un

disco con su registrati latrati e ululati canini e

un giorno lo faccia andare a tutto volume verso

la casa dello scrittore...

Le foto raccontano una decadenza fisica che

anno dopo anno prende le caratteristiche di una

catastrofe, un corpo che sempre più si incurva,

un volto che sempre più si incava, dei panni

che sempre più coprono, ma non vestono, laceri,

sporchi stracci senza una forma... Alle sei

del mattino Céline è già in piedi e scrive sino

alle nove, quando Lucette si alza e gli porta un

tè con un croissant. Poi c’è la lettura dei giornali,

con un’attenzione particolare per gli

annunci mortuari, «Il Corriere delle Parche»

come li ha ribattezzati, il disbrigo della corrispondenza,

qualche commissione in paese. A

mezzogiorno lui mangia, mentre lei fa lezioni

di danza, dalle due alle quattro torna medico

per i pochi pazienti che osano avvicinarsi al

cancello: cura gratis, ha un tocco speciale per i

bambini... Il resto del pomeriggio è dedicato

ancora alla scrittura, si cena frugalmente alle

sette, si va a letto alle nove. La domenica a

volte si riceve qualche amico, lo scrittore Marcel

Aymé, l’attrice Arletty...

Nei dieci anni di Meudon, Céline scrive Féerie

pour une autre fois e Normance, con pochissimo

successo, e la «trilogia tedesca» che gli

ridarà la fama, cinque libri per qualche

migliaio di pagine. La sua scrivania è un tavolo

da cucina ingombro di fogli, raccoglitori fissati

con delle mollette, penne, matite, su cui il pappagallo

del Gabon - che non ha una gabbia, e a

cui ha insegnato a cantare - si muove indisturbato.

Di spalle, appese al muro, ci sono delle

tavole a colori con dell’anatomia del corpo

umano... Con gli anni il passo si fa incerto, l’equilibrio

precario, e più di una volta salendo o

scendendo nel seminterrato lo scrittore cade, il

pappagallo grida, Lucette corre e si dà da fare

per rimetterlo in piedi. L’ipertensione arteriosa

lo colpisce sempre più di frequente, le emicranie

lo spossano, il braccio destro gli si paralizza

di continuo. Il 30 giugno del 1961 Céline

mette fine al suo ultimo romanzo, Rigodon, e

scrive all’amico Roger Nimier e al suo editore

Gallimard per dare loro l’annuncio. Il primo

luglio la giornata si annuncia soffocante per il

caldo, la respirazione si fa difficile, lui non trova

pace, nel pomeriggio la moglie vorrebbe

chiamare il medico: «Niente medico, niente

punture, niente ospedale» è la risposta. Alle sei

del pomeriggio un’emorragia cerebrale se lo

porta via. La foto sul letto di morte rimanda a

una maschera medievale