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Quando una spiegazione è scientifica?

di Pasquale Rotunno - 15/02/2007




L’atteggiamento relativistico sembra dominare le scelte etiche del nostro tempo. Sono ancora tanti a ritenere che non esistono fatti morali, perché non vi è alcuna autentica conoscenza morale. Per costoro, sostenitori di un radicale soggettivismo etico, le norme morali esistenti sono il risultato di meccanismi sociali che hanno spinto a condividere determinati sentimenti o atteggiamenti di accettazione o condanna nei confronti di certi comportamenti. Nei primi decenni del Novecento, scientisti e neopositivisti giungevano ad affermare la “mancanza di senso” dell’etica; e indicavano la scienza come unico esempio di conoscenza. Il celebre filosofo inglese Bertrand Russell riteneva impossibile risolvere le dispute sui valori; dal momento che i dati dell’etica sono “sentimenti ed emozioni, non percezioni”, che non esistono fatti etici, che i giudizi etici non possiedono alcuna proprietà analoga alla verità, ma sono semplici espressioni di desideri. La credenza nell’esistenza di valori oggettivi deriverebbe dalla proiezione dei nostri sentimenti sulle cose esterne. Esiste, infatti, una basilare tendenza della mente, già teorizzata da Hume, a proiettare i sentimenti sulle cose che ne sono all’origine. Proiettiamo sulle cose i nostri stati d’animo e confondiamo la desiderabilità di una cosa con il suo essere dotata di un valore oggettivo. Lo scetticismo morale non equivale tuttavia all’immoralismo. Se non esistono fatti morali non è perciò detto che dobbiamo abbandonare la morale come istituzione. Soltanto, la morale non va “scoperta” ma va “fatta”; ovvero dobbiamo decidere quali principi di condotta accettare come guida delle nostre scelte.
Ciò non significa che sia impossibile spiegare razionalmente le scelte di valore: l’etica è senza verità, ma non senza ragioni. Il filosofo della scienza Enzo Di Nuoscio (nella foto), docente all’Università del Molise, illumina bene la questione nel suo nuovo libro, “Il mestiere dello scienziato sociale. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze sociali” (Liguori, pp. 206, euro 13). In una fase in cui i problemi etici sembrano dettare persino l’agenda politica, l’analisi che Di Nuoscio, d’accordo con il sociologo francese Raymond Boudon, svolge circa lo statuto delle teorie morali risulta di notevole importanza.
Boudon parla di “razionalità assiologica” per identificare ragioni non-utilitaristiche per aderire a credenze vere o giuste: l’azione è sempre dettata da ragioni soggettivamente ritenute adeguate alla situazione. Dire che la scelta etica è razionale non significa affermare che essa è razionalmente dimostrabile. I valori non possono essere “logicamente” dedotti dai fatti, come aveva mostrato Hume. Le decisioni etiche sono scelte di coscienza e non prodotti della scienza; la scienza ci può aiutare nelle nostre scelte morali evidenziandone le conseguenze, ma è sempre la nostra coscienza a dover “decidere” di accettare tali effetti. Nel caso della libertà, esemplifica Di Nuoscio, “l’epistemologia può farci comprendere i presupposti gnoseologici (dispersione e fallibilità della conoscenza) e le scienze sociali le conseguenze (politiche, economiche, giuridiche) della sua scelta, ma tutto ciò si limita ad offrirci preziosi materiali per le nostre valutazioni”. Se la “legge di Hume” nega la possibilità di un’etica dimostrata, “le opzioni assiologiche presentano necessariamente un contenuto razionale, sono cioè l’esito di scelte dettate da buone ragioni”. I valori non sono logicamente fondabili, ma non per questo sono irrazionali. Solo chi non distingue tra dimostrazione “more geometrico” e argomentazione, e fa coincidere l’intera razionalità con la razionalità dimostrativa, può ritenere che le opzioni morali siano mera intuizione o atti del tutto irrazionali. Rifiutare l’assolutismo etico non significa cadere in un nichilismo che nega il senso stesso dei valori. Le scelte morali sono quindi spiegabili con la metodologia individualistica; ricostruendo le ragioni da cui sono ispirate. In tal modo, è possibile interpretare in chiave anti-irrazionalistica le fondamentali nozioni weberiane di “disincantamento del mondo” e di “politeismo dei valori”. Il fatto che nel mondo moderno sia definitivamente tramontata l’antica alleanza tra “conoscenza del mondo” e “senso della vita” e cioè che i valori morali non traggono più la loro forza dalla conoscenza oggettiva della realtà, non condanna i singoli a vivere in una “caleidoscopica infinità priva di senso”. Al contrario, interpella ciascuno a “dare ragione” delle proprie scelte.
A partire dalla contrapposizione tra “individualismo” e “collettivismo” e tra “spiegazione” e “comprensione”, Di Nuoscio indaga quindi con finezza interpretativa i problemi classici della metodologia delle scienze storiche e sociali. Esamina un arco di questioni che va dalla distinzione tra fatti e valori, relazioni di causa e regolarità ricorrenti, alla disputa tra sostenitori dell’ordine spontaneo e costruttivisti sociali. Si tratta di problemi che accompagnano da sempre la ricerca sociale e la cui soluzione condiziona fortemente la formulazione delle ipotesi di spiegazione scientifica. Ad esempio, se si accetta la tesi filosofica che esistono solo individui (individualismo ontologico) saranno le azioni umane e le loro conseguenze a rappresentare l’oggetto di studio delle scienze sociali. Se invece, come fanno collettivisti e strutturalisti, si pensa vi siano strutture di vario genere che hanno un’esistenza non riconducibile ai singoli, saranno proprio queste entità a diventare oggetto di indagine. Non sono temi che interessano solo gli epistemologi. Politici, giornalisti e quanti operano a livello sociale possono ricavare dal libro utili criteri d’analisi per comprendere la realtà multiforme in cui viviamo. E per evitare di confondere (come pure è accaduto a molti scienziati sociali) la funzione “esplicativa” che è la ragion d’essere di ogni scienza e di non poche professioni, con un impegno volto prevalentemente a influenzare l’opinione pubblica.
Sulla scia di una lunga tradizione, che va dal fisiologo Claude Bernard a Salvemini, Einstein, Popper, Di Nuoscio argomenta in maniera persuasiva la tesi della unicità del metodo della conoscenza razionale. Quando leggiamo un libro di storia tendiamo a non domandarci quali siano gli strumenti “scientifici” adoperati dallo storico per raccontarci un determinato evento. Ci sembra anche un po’ improprio definire “scientifico” un lavoro di critica letteraria. Pensiamo che il “metodo scientifico” abbia a che fare con le scienze naturali e con personaggi alla Einstein. Sarebbero i fisici, gli astronomi, i chimici, i matematici, i soli tenuti a dar conto dei metodi che impiegano per le loro ricerche; a dover “giustificare” le loro scoperte e a sottoporle a prove di verifica. Le discipline storiche e sociali avrebbero altri metodi d’indagine, non centrati sulla spiegazione delle cause; ma fondati sull’intuizione, l’empatia, i valori e altro ancora. In realtà, il metodo della conoscenza razionale è unico. L’evoluzione della conoscenza umana procede per “congetture e confutazioni”, come insegna l’epistemologo Karl Popper. Il modo di procedere della scienza razionale si riassume in tre parole: “problemi-teorie-critiche”. La ricerca di nuove conoscenze non comincia dall’osservazione ma dai problemi; cioè da quella “incongruenza tra pensieri e fatti” che si ha quando siamo sorpresi da un’aspettativa erronea. Tentiamo allora di risolvere quell’incongruenza con una nuova teoria, che mettiamo alla prova, in un processo continuo e senza fine.
Lo scienziato non osserva “alla cieca”, le sue osservazioni sono sempre “tentativi di risposta” alle domande racchiuse nei problemi che incontra. E ciò vale in tutti i campi del sapere. Se la conoscenza avanza per “congetture e confutazioni”, la ricerca sarà sempre “qualitativa”. “Formulare un’ipotesi di spiegazione e sottoporla alla prova è, infatti, un procedimento metodologico che non è suscettibile di quantificazione”; l’alternativa tra metodi quantitativi e metodi qualitativi nella ricerca scientifica si rivela quindi falsa. I concetti epistemologici delle scienze sociali (fallibilità, dispersione delle conoscenze, conseguenze inintenzionali) mostrano, ad esempio, perché ogni forma di pianificazione sociale che voglia rimodellare l’intera società, in nome di un disegno razionale, sia destinato al fallimento. In questa prospettiva, i regimi totalitari del ventesimo secolo appaiono tentativi di ingegneria sociale che sacrificano l’individuo in nome di una pretesa conoscenza assoluta delle dinamiche sociali e dell’evoluzione storica.
Prima ancora dei grandi esponenti della “Scuola austriaca”, Mises, Hayek e poi Popper, già il filosofo inglese Herbert Spencer, nell’Ottocento, evidenzia come il tentativo di imporre una “cooperazione obbligatoria” su vasta scala porti di necessità ad una “società militare”, retta con mezzi coercitivi. Una società nella quale “l’individuo è posseduto dallo Stato”. Gli effetti perversi generati dal razionalismo costruttivista, avverte Di Nuoscio, non implicano una scelta antiriformistica o conservatrice. Constatare l’impossibilità epistemologica della pianificazione sociale è una argomentazione “contro l’ingegneria sociale utopica, ma non contro l’ingegneria sociale gradualistica”. Il politico razionale dovrà rifuggire, come nota Spencer, da “speranze chimeriche” e “accontentarsi di speranze più moderate”, ma dovrà “perseverare e non diminuire i suoi sforzi”. In tal modo, aggiunge Spencer, il politico non utopista “sebbene sia convinto che relativamente si può fare ben poco”, capirà che “anche quel poco è degno di essere fatto, e all’energia del filantropo saprà unire la calma del filosofo”.