Tutto cominciò con il free capital flow, il libero, liberissimo flusso di capitali. Era la grande accelerazione globalizzatrice che dettava l'agenda del mondo. Era il momento in cui gli Stati Uniti d'America (Bush era ancora da venire, era appena arrivato Bill Clinton, speranza della nuova sinistra mondiale, e c'era già il giovane Tony Blair) si accorgevano d'un tratto di avere a disposizione il pianeta intero e di poter - essi stessi, praticamente da soli - offrire al mondo intero i propri servigi finanziari.
Cominciava il dominio di Wall Street. Ed esso significava che i capitali statunitensi avrebbero cominciato a correre per le libere praterie dei cinque continenti, a briglia sciolta, anzi senza briglia, e significava che mille miliardi di dollari all'anno sarebbero emigrati verso Wall Street, la piazza migliore per la loro vertiginosa valorizzazione. E il punto di partenza per una nuova, vertiginosa cavalcata, a stelle e strisce questa volta.
C'entra tutto questo con gli incendi di Parigi, con la rivolta delle banlieue, con il brivido che adesso percorre l'Europa? C'entra, anche se si fa fatica a coglierne i nessi, e molti commentatori annaspano alla ricerca di una spiegazione, senza trovarla.
C'entra, nel senso preciso che dietro i capitali che si muovono senza sosta, veloci come il fulmine, sarebbe inevitabilmente venuto il movimento degli uomini. Più lento, di certo, perché gli uomini hanno massa, sono reali e non virtuali, debbono prendere un aereo, un treno, un camion, una barca per spostarsi da un punto all'altro del pianeta, da un continente all'altro. Impiegano tempo, devono attraversare frontiere. Il loro non è un movimento libero, al contrario. Nulla è meno libero di chi deve andare a cercare lavoro, cibo, acqua. E per fare questo è costretto a lasciare la propria terra, la casa, la famiglia, la lingua, il tempio dove pregava.
Ecco, è accaduto. Sono arrivati, arrivano, arriveranno, a milioni, non più a decine per volta com'è accaduto fino ad ora.
Abbiamo aperto il vaso di Pandora, noi ricchi e imprevidenti, noi miopi. E succede Parigi. Perché non siamo capaci di capire nemmeno cosa abbiamo provocato, quali sconvolgimenti abbiamo innescato. Le nostre società affluenti, come siamo soliti dire, non sono pronte a riceverli, non hanno elaborato politiche per questo, non hanno strategie. E quelle poche sono state portate avanti come rattoppi, rimedi parziali, senza una visione d'insieme, senza un'idea del futuro. Per giunta nell'illusione che si trattasse di fenomeni marginali. E invece stanno diventando centrali. Non solo in Francia e non solo in Europa.
Eppure avremmo dovuto sapere che essi, quelli che arrivano da fuori, ci servono, ci sono utili. E quindi che accoglierli è in primo luogo nel nostro interesse. Avremmo dovuto sapere anche che sono diversi da noi e che non avrebbero accettato così, semplicemente, di essere “integrati”, “assimilati”. E che, quindi, avremmo dovuto imparare, noi, ad accettare la loro diversità, per lo meno altrettanto quanto noi chiediamo a loro di conformarsi alla nostra diversità. Anzi quanto glielo imponiamo.
Questo si poteva fare quando erano pochi e spauriti. Non si può più fare adesso che stanno diventando tanti e cominciano a essere arrabbiati. E cominciano ad accorgersi che non sono soli, perché questo tipo di “sviluppo” in cui le nostre società ancora continuano a credere, e a illudersi, sta creando sacche di povertà “autoctona” sempre più vaste. Le periferie dei figli d'immigrati francesi assomigliano tanto, troppo, a quelle dei nuovi poveri italiani e belgi, e olandesi, e spagnoli. Senza dimenticare che quelli che arrivano e arriveranno, così come i figli di quelli che sono arrivati - come in Francia o in Inghilterra - da tempo, sono altra cosa rispetto ai primi che giunsero in altre epoche. Vedono attorno a sé, lo vedono alla televisione in primo luogo, un mondo che sanno per esperienza essere reale, ma non per loro. Anzi sanno che non potranno raggiungerlo mai, che non può fare parte nemmeno dei loro sogni, delle loro speranze. Anche in questo simili a coloro che, nati nei paesi ricchi, figli di classi che un tempo erano benestanti, i ceti medi, vedono svanire le loro aspettative di scalata sociale e si trovano ricacciati nei ghetti dei poveri.
C'è bisogno di un serio esame di coscienza. In tempi rapidi. L'Occidente (tutto intero, Stati Uniti compresi) deve riesaminare la sua idea della globalizzazione. Se vuole muovere i suoi capitali, deve saper accogliere gli “altri”. Se non sa promuovere sviluppo equilibrato, si accinga almeno a gestire con sagacia gli squilibri che provoca. Altrimenti dovrà fronteggiare le conseguenze della sua miopia. Parigi è un grande segnale di avvertimento.
da Avvenimenti
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