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L'autobus di Stalin-Worst cases di Antonio Pennacchi

di Melonarpo - 16/02/2007

   
  
 

L'autobus di Stalin-Worst cases 
Autore: Antonio Pennacchi
Regia: Pippo Chillico e Clemente Pernarella
Interpreti: Clemente Pernarella
Video proiezioni: Mirko Rispoli



(L’altro)ieri sono andato a teatro a vedere l’adattamento de “L’autobus di Stalin” di Antonio Pennacchi, e mi sono sentito come uno che capisce una barzelletta dopo che tutti gli altri hanno smesso di ridere da mezz’ora.
Premesso che io non vado mai al teatro, e che ci vado solo quando ho l’opportunità di usufruire di sale piccole e raccolte dove il contatto tra palco e fuori-palco riesce ad essere sufficientemente intenso, e che quindi non sono un esperto, la rappresentazione mi è veramente piaciuta, e alla fine ero veramente soddisfatto dei soldi spesi per il biglietto (su cui tra l’altro ho usufruito di uno sconto Anonima Scrittori che merita ringraziamenti a parte).
La cosa strana è che il libro, invece, non mi aveva convinto per niente: come avevo avuto modo di confessare allo stesso autore, che ho la fortuna di conoscere personalmente,  rispetto alle vette della sua produzione (secondo me: Palude, un’opera immensamente poetica, Viaggio nelle Città del Duce, alcuni racconti di Shaw150, la prima parte de Il Fasciocomunista), il saggio sull’Autobus mi aveva lasciato veramente freddino. Accanto ad una cinica ma obiettiva ricostruzione storico-politica c’erano infatti quegli scivoloni sull’etica, materia complessa e mai lineare, che risultavano troppo inquinati dal gusto del paradosso. E con l’Etica, si sa, c’è poco da scherzare.
Osservando invece Clemente Pernarella, totalmente rapito dalla sua bravura e dalla rappresentazione scenica, mi è improvvisamente apparsa la luce: l’Autobus non è un’apologia dello stalinismo, ma piuttosto è una critica decisa a quei regimi capitalistici che millantano una superiorità morale rispetto all’esperienza sovietica. Inanellando parallelismi e convergenze, alla fine lo spettatore non viene spinto a sposare la causa di baffone, ma piuttosto a rimettere radicalmente in discussione il sistema in cui è nato e tuttora prospera l’anticomunismo viscerale, da Mussolini a Berlusconi passando per le varie sfumature tambroniane e democristiane.
E’ una critica morale riuscita, in questa maniera; una critica che non prende a riferimento l’URSS ma piuttosto punta lo sguardo sulla lunga strada ancora da compiere per una completa liberazione del genere umano.
Molto merito di questa nuova visione l’ha avuta sicuramente l’interpretazione di Pernarella: la sua recitazione pacata e riflessiva smorza molto dei toni da pamphlet del saggio stampato, l’espressione orale trasmuta la natura stessa di quella scritta. Da comizio, il luogo retorico dove una persona cerca di convincere delle sue opinioni molte altre, l’opera si trasforma in monologo, il luogo cioè dove uno interroga se stesso e chiama molti altri a condividere le proprie riflessioni, riuscendo a dare un senso sociale (maieutico avrebbe detto Socrate) all’espressione artistica, e all’incontro con il pubblico. Quel gesto comunicatorio, quindi, assume un senso diverso, estrinseca tutta la sua natura artistica scrollandosi al contempo di dosso le chiacchiere da bar, diventa momento d’incontro, invece che di scontro.
In definitiva, quel pomeriggio a teatro, mi ha dimostrato che ne L’autobus di Stalin ci sono molte più luci che ombre, dimostrandomi sbagliata la mia prima analisi, e facendomi sperimentare una sensazione di reale gratificazione estetica ed intellettuale.
Di questo non posso che pubblicamente riconoscere merito all’autore, all’attore, e anche a chi mi ha accompagnato a Roma in macchina quel giorno.