Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Derek Walcott e Sergio Atzeni: un accostamento arbitrario

Derek Walcott e Sergio Atzeni: un accostamento arbitrario

di Claudio Ughetto - 19/02/2007

   

Mi sono spesso interrogato sul senso della letteratura nella postmodernità.
Pur rimanendo convinto che la letteratura abbia espresso uno dei suoi momenti migliori, come tensione creativa e indagine sull'uomo, nei primi 30 anni del '900, penso che attualmente essa non possa sottrarsi alla sfida col medium per eccellenza (la televisione), e questa sfida, in realtà semplice ricerca di collocazione espressiva, comporti una totale revisione del linguaggio e una ricombinazione delle forme.
Possiamo dissentire dalle scelte di Baricco, ritenere che la letteratura debba preservare tutte le caratteristiche elencate da Italo Calvino e non optare solamente per la “leggerezza”, tuttavia continuo a ritenere cruciale una domanda che egli si pone: se i media sono un treno e la letteratura una bicicletta, come possiamo mettere la bici davanti al treno? È una domanda che deve essersi posto anche Stephen King mentre scriveva il suo ultimo romanzo La storia di Lisey, se diamo retta all'interessante recensione dedicatagli da Wu-Ming su carmillaonline.
Non si fanno solo i conti con la velocità, ma anche con la molteplicità. Scatenare più immagini nella stessa pagina, addirittura nella stessa frase; fregarsene della linearità narrativa, eppure continuare a narrare (rimando a quanto scrive Kundera ne L'immortalità: il romanzo non come una corsa verso la conclusione, ma come piacevole gustare di pagine); far sì che le vicende personali abbiano attinenza con il mito e le dimensioni sovrapersonali.

Derek Walcott è un poeta, eppure riesce in questa impresa. Omeros richiama l'epica ma si legge come un romanzo, la versificazione in esametri non vincolanti dà spazio ad un linguaggio d'impasto inventivo, capace di suggestionare noi uomini disincantati; ogni scena è una tela coloratissima, piena di immagini che si sovrappongono e si susseguono, una in relazione con l'altra e nel contempo autonome. Le vicende personali diventano epiche, mentre la sovrastruttura è rappresentata dal susseguirsi delle vicende umane (la colonizzazione, la tratta degli schiavi...) sempre inquadrate in alone mitico-realista, in una visione della Storia come di un incubo da cui è impossibile liberarsi, se non attraverso l'artificio.

*** 

Ciò che più mi suggestiona di Sergio Atzeni, nella prosa di Bellas Mariposas ma soprattutto nella narrazione epica di Passavamo sulla terra leggeri, è anche rilevato da Renzo Paris nel suo saggio  su PULP n° 59: 

L'approfondimento [di Atzeni] del ritmo musicale lo porterà a scandire i suoi racconti come fossero poemi epici.

La scelta di usare la lingua ritmicamente, recuperando così una vitalità sinergica, avvicina Atzeni ai poeti che cantano la (post)modernità partendo dal locale, senza per questo arroccarsi nel provincialismo. D'istinto mi viene l'accostamento con Derek Walcott. Se è vero che il poeta caraibico, comunque “narratore”, scrive in esametri liberi mentre Atzeni è un prosatore, le similitudini non sono poche: entrambi sono degli “isolani” colti che hanno fatto esperienza nella cosiddetta “civiltà”, fuori dall'isola; entrambi raccontano la terra d'origine usando una lingua ufficiale (italiano e inglese) arricchita con quella natia e col patois; entrambi parlano da “colonizzati”, eppure rimangono segugi e nemici del proprio tempo (per dirla con Canetti); entrambi prediligono la coralità.
È forse un caso che sia Paris, sia Andrea Molesini nella postfazione a Omeros usino la parola “murales” a proposito del loro narrare?