Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Moggi, Lapo e la congiura delle calze a rete

Moggi, Lapo e la congiura delle calze a rete

di Andrea De Benedetti - 27/02/2007

 
La voce circolava già da tempo: vuoi vedere che a incastrare Lapo con le calze a rete e le nari intasate di polvere bianca è stato Moggi? Sin dall'inizio, per i raffinati sofisti del pettegolezzo, il fatto era dato per certo. Tutto quadrava: il doppio sgarro di Lapo alla Triade («vorrei vedere più sorrisi» e poi «Bettega e Giraudo mi ricordano Caino e Abele»); il silenzio sornione e omertoso degli interessati; il paparazzo pronto a documentare l'ingresso in clinica di «Mr. Smile» con sospetta tempestività prima che qualcuno riuscisse a disinnescare la bomba mediatica. Suggestive coincidenze su cui è stata costruita la sceneggiatura perfetta dell'ennesimo thriller dietrologico all'italiana, genere senz'altro più avvincente - e spesso anche più convincente - della piatta cronaca, se non fosse che nella circostanza, in mancanza di prove, l'intreccio è stato arricchito di dettagli non proprio credibili, come la storia per cui la transessuale Patrizia sarebbe stata intima amica di Lucianone fin dai tempi del Napoli.
Fino a ieri, comunque, la teoria del complotto era ancora una faccenda semiclandestina, che viaggiava sui binari ad alta velocità ma senza sbocchi mediatici della chiacchiera da bar. Poi, all'improvviso, dopo un percorso tortuoso e anonimo, ecco che la voce arriva nell'orecchio giusto - guarda caso quello di Lapo - e quando esce dalla sua bocca è già diventata notizia. «Io e Moggi avevamo appena litigato, quel fotografo subito in ospedale mi è sembrato un po' strano. La gente è invidiosa di chi ha successo».
Ora, sorvolando sulla scelta di esporre la teoria della congiura davanti a un giornalista del New York Times anziché di fronte a un magistrato, nonché sull'enorme ritardo con cui è arrivata la denuncia, viene da chiedersi in che cosa si misuri il «successo» di cui parla Lapo Elkann e soprattutto che cosa avesse da invidiargli Luciano Moggi. Le donne? I soldi? L'intelligenza? Mah.

Cresciuto come tutti i rampolli delle grandi famiglie dell'industria e della politica senza la minima percezione del valore delle cose e delle persone, Lapo è seriamente convinto che il successo, così come i soldi, sia qualcosa che si acquisisce per diritto divino, che arriva senza sforzo e si autoalimenta all'infinito. Per lui il successo sta nel fatto stesso di chiamarsi Lapo Elkann, nel vedere che il suo nome è citato in trecentomila pagine di Google, nello specchiarsi in un mondo che ha deciso di farlo diventare famoso solo perché ha quel nome lì.

Non è un amministratore brillante, non ha grandi doti intellettuali e le uniche cose che ha inventato sono la felpa con la scritta «Fiat» e gli occhiali da mille euro. Tanto gli basta per sentirsi una persona di enorme talento e per immaginare che il mondo intero ne sia geloso.
Il problema è che quel mondo, che lui crede di conoscere solo perché vive a New York, ha un tatuaggio sul braccio e fuma sessanta sigarette al giorno, lui l'ha sempre visto solo dallo spioncino della sua esistenza privilegiata e la volta che ha sporto la testa fuori dalla porta per vedere com'era fatto, si è ritrovato privo di conoscenza in un letto d'ospedale.
Nascere ricchi, insomma, rende la vita più facile ma non aiuta a diventare adulti. Ti fa sembrare che tutto il mondo ti giri intorno quando invece è il mondo a non aspettare altro che di poter prendere in giro te.
Non sei una persona e non sei nemmeno più un personaggio, solo una caricatura. Come Moggi. Solo che, dovendo scegliere chi invidiare, la maggior parte di noi preferirebbe essere Lucianone.