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Storici, il paradigma censurato. Risposta a Ginzburg sulla libertà di ricerca

di Franco Cardini - 28/02/2007

Il libro di Ariel Toaff ha suscitato un tale muro di critiche da spingerlo all'«abiura»: risposta a Ginzburg sulla libertà di ricerca

 

Non sempre servono nuovi documenti per rileggere una vicenda del passato. Talvolta, l’interpretazione si fonda su indizi. Ma non per questo è a priori errata o falsa. Perché tale criterio non è stato accettato per il saggio «Pasque di sangue»?

Di Franco Cardini

Il frettoloso ritiro dalla circolazione del libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue (Il Mulino) e la sua penosa "abiura" sono stati gli atti culminanti di una vicenda che a mio avviso va molto al di là delle questioni relative alla ricerca scientifica. Confesso di essere stato turbato dalla lettura di recensioni severe scritte da studiosi tanto illustri quanto competenti, quali Anna Foa, Giacomo Todeschini, Adriano Prosperi, Carlo Ginzburg e Amedeo de Vincentiis. Avevo letto il libro molto frettolosamente, ricavandone l'impressione positiva espressa su queste pagine il 7 febbraio e rimproveratami dal Ginzburg.
D'altronde, nemmeno i recensori hanno espresso a proposito del libro critiche considerabili come demolitorie e definitive. Gli hanno rimproverato di non aver trovato alcun nuovo documento né alcuna prova sicura di quanto dice. D'accordo: ma da quando in qua la ricerca storica si fa esclusivamente sui documenti nuovi o comunque inediti? Esistono lavori importantissimi che altro non hanno fatto se non rileggere e reinterpretare fonti ben note. Gli hanno contestato la mancanza di prove certe di quanto dice: infatti, egli si è servito del "paradigma indiziario" che, per definizione, viene utilizzato in assenza o in situazione di carenza di prove sicure.
Ecco perché non mi pare giustificata la posizione di Carlo Ginzburg ("Corriere della Sera", 23 febbraio). Certo, gli assassini rituali sono come il sabba: dei miti. Ma vi sono davvero prove assolute e definitive che essi non si siano mai trasformati, nemmeno una volta, in aberranti riti? Non ne conosco: e se il discorso analogico potesse aver un valore, pensando per esempio al satanismo e all'esoterismo se ne avrebbero semmai prove contrarie, anche recenti (mi riferisco a episodi come quelli dell'Ordine del Tempio Solare del 1994-97). Non vedo quindi perché Ginzburg possa sostenere che non sia vera la mia asserzione che «un libro ritirato dal commercio, a pochi giorni dalla sua uscita, è un l ibro distrutto». Certo, molti lo hanno acquistato e letto prima del ritiro, molti continueranno a leggerlo magari facendolo circolare sotto forma di fotocopie. Ma non accadeva forse lo stesso, mutatis mutandis beninteso, per i libri fatti ardere dagli inquisitori o dai nazisti, ovviamente in contesti diversi dall'attuale? E siamo certi che la sconfessione di tale libro «a quanto pare solo parziale, da parte dell'autore, non può impedire agli studiosi di continuare a discuterlo»? Qui si tocca un problema deontologico delicatissimo. Se si è davvero convinti che il Toaff abbia ritirato il libro perché persuaso che si trattava di un lavoro sbagliato, forse correttezza vorrebbe che si cessasse per il momento di discuterlo nella forma in cui lo conosciamo e si attendesse una sua riedizione riveduta e corretta. Ma tale edizione vedrà mai la luce?
Il punto è che la questione non è affatto puramente scientifica: anzi, è scientifica solo superficialmente. Siamo di fronte a un argomento che, secondo alcuni, finisce col toccare una sfera di questioni intrecciate con la grande tragedia della Shoah: e quando si toccano certe questioni i tempi non sono ancora purtroppo maturi perché se ne possa trattare con spregiudicata serenità. Prendiamo atto che le cose stanno così e agiamo di conseguenza: siamo di fronte a qualcosa che - come rileva molto giustamente Anna Foa concludendo la sua recensione su "La Repubblica" dell'8 febbraio - «esige rispetto e toni smorzati».
È vero. Ma proprio per questo mi sembra che gli argomenti usati dal Ginzburg non provino affatto che questo libro è un «cumulo di illogicità e di strafalcioni», che corrisponda a un tema affrontato con «superficiale irresponsabilità», che sia un «libro pessimo».
Non c'è opera storica, non c'è autore, che sia in grado di regger la prova dinanzi al fuoco di fila di una ben concertata artiglieria manovrata dai colleghi. Proprio perché tutti i nostri lavori, anche i migliori, sono sempre soggetti all'errore e quindi passibili di contestazione. Appunto per questo, anche nelle polemiche più aspre, fra studiosi l'onestà intellettuale e la comprensione sono ingredienti fondamentali (per quanto corrispondano a una merce sempre più rara, purtroppo). Altrimenti tutto diventa cannibalismo, guerra per bande. Ginzburg sa bene che il lavoro di chiunque fra noi è soggetto a critiche anche forti: e che chi decide di essere malevolo e ingeneroso, per qualunque ragione lo faccia, ha sempre il coltello dalla parte del manico. Non esistono tesi né incontestabili né definitive. Anche le sue sono state attaccate. Gli errori che egli imputa al Toaff sono veramente più gravi di quelli che gli addebitava e soprattutto della «chronologie …contestable» che gli rimproverava Martine Ostorero nel suo Folâtrer avec les démons (Lausanne 1995, p.17) a proposito del suo Storia notturna? Si riconosce nel ritratto che del suo lavoro scientifico viene proposto da Oscar di Simplicio nientemeno che nell'Encyclopedia of Witchcraft. The western tradition, edita da Richard M. Golden (Santa Barbara 2006, pp. 443-44), soprattutto a proposito dell'uso del suo "paradigma indiziario" che a dire del suo critico sarebbe, a sua volta, troppo disancorato dalle fonti?
Ma una cosa sono le critiche, anche se non sempre eque e serene; e un'altra la lapidazione. Questa di Ariel Toaff e del suo linciaggio intellettuale è una brutta storia (tanto più alla luce della condanna del libro che è venuta dalla Commissione cultura del Parlamento israeliano). Ma proprio per questo non ci si può mettere una pietra sopra: e il fatto che circolino già deplorevoli siti informatici nel quale io e altri che in qualche modo abbiamo preso le sue difese siamo accusati di essere «antisionisti e filomusulmani» (sic) dimostra che la nostra battaglia intellettuale, per modesta che sia, corrisponde però a una battaglia civile giusta e necessaria, perché combattuta nel nome della libertà di espressione e di pensiero.