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Iraq, la strage dei diciotto giovani è parte dell'orribile routine

di Robert Fisk - 02/03/2007

 

È tale oggigiorno il livello di violenza e anarchia dilaganti in Iraq che la dinamica di ogni evento viene fatalmente filtrata – o dagli ufficiali di sicurezza iracheni pro Usa, o dallo stesso esercito americano o dai siti della guerriglia. Delle vittime tra i ribelli vengono accusati gli americani, di quelle tra gli americani vengono accusati i ribelli. Chi assicura che questo non sia valso anche per la strage dei diciotto giovani di Ramadi?

Questa è una storia da trattare con prudenza. Lunedì diciotto adolescenti sono stati uccisi nei pressi di un campo di calcio a est di Baghdad. Domenica era toccato ad alcuni loro coetanei dell’Università di Mustansiriya – la più antica di Baghdad – per mano di un attentatore suicida.

Sta diventando una routine, ogni giorno sempre più orribile. Solo due anni fa, un kamikaze attaccò nella capitale irachena un convoglio americano uccidendo ventisette civili, di cui una buona metà bambini che stavano ricevendo dolcetti dai soldati Usa. Chi dà più valore ormai all’innocenza?

Come al solito, in Iraq niente è come sembra.

Nel bel mezzo dei massacri di ieri a Ramadi è giunto un controverso comunicato da parte dei militari Usa. Non si sapeva di vittime nella città, sebbene – ed ecco la parte più inquietante dell’intera storia – fosse vero, gli americani han detto, che trenta persone erano state lievemente ferite a seguito di una “esplosione controllata” cui i loro soldati avevano dato il via vicino a un campo da calcio. “Non posso immaginare che ci sia stato un altro attacco coinvolgente bambini senza che i nostri lo sapessero”, ha dichiarato un ufficiale americano.

L’ufficiale, in sostanza, ha indirettamente ammesso che c’è stata un’altra esplosione – un "crimine barbarico di al-Qaeda" – vicino a questo campo da calcio. La polizia ha detto che è stata un’autobomba. La televisione irachena (quella fondata dagli americani) ha detto che è stata una bomba di strada. Un leader tribale locale ha detto che dei diciotto sei erano donne – presumibilmente, dunque, non dei fulmini di guerra col pallone tra i piedi.

In Iraq, come tutti ora sappiamo, si predilige la giugulare. Gli anziani, le donne incinte, i neonati, i soldati, i terroristi, gli assassini. Tutti muoiono violentemente, gli innocenti come i colpevoli. Uno dei principali sostenitori finanziari dei ribelli – ci siamo incontrati ad Amman, naturalmente, non a Baghdad – ha posto la questione in termini piuttosto concisi. “Abbiamo deciso che dobbiamo accettare le vittime civili. Se attacchiamo gli americani, innocenti moriranno. Lo sappiamo. Voi di cosa parlate quando uccidete donne e bambini? Di danni collaterali?”

Ma quello che è successo nella roccaforte sunnita rimane, minacciosamente, un mistero. Lo stadio dove 18 giovani, è stato riportato, sono stati uccisi, è vicino a una base Usa. Ma non ci sono truppe americane nel campus di Mustansiriya. Ieri è girata voce che un imam sunnita della stessa Ramadi abbia condannato pubblicamente al-Qaeda – che opera in libera collaborazione con i gruppi della guerriglia sunnita. Ciò potrebbe aver innescato la sete di vendetta da parte dell’organizzazione.

È tale oggigiorno il livello di violenza e anarchia dilaganti in Iraq che la dinamica di ogni evento viene fatalmente filtrata – o dagli ufficiali di sicurezza iracheni pro Usa, o dallo stesso esercito americano o dai siti della guerriglia. Delle vittime tra i ribelli vengono accusati gli americani, di quelle tra gli americani vengono accusati i ribelli. Chi assicura che questo non sia valso anche per Ramadi? Temendo per la loro vita, i giornalisti occidentali non riescono più a investigare su queste atrocità. Agli americani va bene. Così i sospetti cadono sulla guerriglia. L’informazione attendibile in Iraq è come l’acqua nel deserto: preziosa, rara, spesso inquinata.

Ramadi è un territorio improbo per ogni occidentale, truppe Usa incluse. Chi è dunque il responsabile del camion bomba che nei pressi di una moschea della città sabato ha ucciso 52 persone? O dell’ambulanza fuori da una stazione di polizia che lunedì ne ha assassinate quattordici? Gli uomini delle milizie sciite che cercano altro sangue sunnita? I gruppi sunniti che cercano di far accusare gli sciiti? Al-Qaeda? O altre strutture ombra affiliate al governo iracheno sostenuto dagli Usa, magari vicine al ministero degli interni, degli esteri, della “difesa”?

La realtà è che la guerra in Iraq è una nebbia in cui si riescono a distinguere solo figure sfuocate. Potrebbero essere soldati, come potrebbero essere guerriglieri. O potrebbero, come gli iracheni sanno bene, essere parte dei 120.000 – sì, 120.000 – mercenari occidentali ufficialmente operanti in Iraq per conto di diverse organizzazioni più o meno legali. Questi banditi a nolo costituiscono una forza tanto estesa quanto l’intero contingente Usa presente in Iraq. Per chi lavorano costoro? Che regole si danno? La risposta alla prima domanda potrebbe essere “tutti”. Quella alla seconda “nessuna”.

Dietro questi grandi misteri, che significato hanno agli occhi del mondo le vite dei 18 ragazzi assassinati ieri?


Robert Fisk vive a Beirut da trent'anni. Scrive per 'The Independent' e collabora con il sito Counterpunch. Corrispondente dalla capitale libanese per il quotidiano britannico, è uno dei più autorevoli esperti di questioni mediorientali. Ha intervistato tre volte Osama bin Laden.


Fonte: The Independent
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media