Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Berlino (recensione)

Berlino (recensione)

di Claudio Ughetto - 05/03/2007


 

Alessandra Montrucchio, Berlino, Feltrinelli 2007, pagg. 210, euro 12,50.

 

Ho cominciato a leggere questo coinvolgente libro della scrittrice Torinese perché a Berlino ci sono stato nel 2004, e leggendolo mi sono riconosciuto nel suo bisogno di ritornarci.

Lei ci andò per la prima volta nel 1987, adolescente. Io da adulto, eppure anch'io continuo ad interrogarmi sul perché voglio tornare in una città che cambia continuamente, trasformandosi di mese in mese. E mi do la stessa sua risposta: “perché cambia. (...) perché quella città è cambiamento”, dopo essere “rimasta immutata per meno di trent'anni, dal 1961 al 1989”. Con lei mi chiedo cosa è cambiato e cosa è rimasto com'era”. Leggendo il libro sono rimasto colpito da come una città può entrare nella storia di una persona ancora giovane, come me segnata dalla caduta del Muro, l'evento che ha dato il via al cambiamento, insieme a speranze in parte deluse e a un'idea di Europa ancora incerta.

Insieme ai suoi genitori, Alessandra Montrucchio è arrivata per la prima volta a Berlino (Berlino Ovest) nel 1987. Il Muro sarebbe caduto di lì a due anni. Per lei il ricordo di quel viaggio è in bianco e nero: “la Germania Democratica mi appariva come una fotografia degli anni cinquanta, di quelle col bordo bianco ondulato”, scrive. “Non solo grigia, non solo superata, ma anche, in qualche modo, ingenua”.

Meno ingenuo, eppure in bianco e nero, è il ricordo della Berlino che hanno molti di noi che non hanno ancora raggiunto i cinquant'anni. E non è necessario andare così lontano nel tempo, all'epoca di quelle cartoline. Sebbene la città non vi rientri direttamente, ne ritroviamo l'atmosfera decadente sulla copertina di “Heroes” di David Bowie, il capolavoro del “periodo berlinese”, ora ristretta in formato CD, ma essendo del 1977, qualcuno può sfoggiare il rigido e melanconico ritratto del Duca Bianco, nel grande formato che racchiudeva il vinile. La stessa copertina che occupa i sogni di Christiane F., la sfortunata protagonista di un film a suo modo epocale, benché sopravvalutato. In bianco e nero per buona parte  è “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, proprio del 1987. In quel film compare Nick Cave, ex artista maledetto, tuttora creativo e geniale, che in quegli anni,  al Kreuzberg, faceva i concerti “appeso a un microfono”. 

 

Questa Berlino decadente e artisticamente fervente continua ad occupare il nostro immaginario. Ci affascina, purché, rispetto ad allora, non ci sia il muro a lacerarla. Ci affascina come possibilità mancata, occasione poetico-esperienziale, resa estatica da alcuni long-playng e cortometraggi: uno spazio che va da 40 minuti a poco più di 2 ore. Invece Berlino è abituata al “mutamento (...) aperta alle mode, alle correnti alternative, alle novità...”. Progressivamente, di viaggio in viaggio, da quel 1987 agli anni 90 dello scorso secolo, fino al 2005, con abbondanti anticipazioni, scarti temporali e qualche digressione, l'autrice si imbatte in una Berlino sempre diversa. E sebbene ora la città sia unificata, è la parte occidentale quella che continua a prediligere, perché la ritiene somigliante all'amata Torino, e soprattutto perché è rimasta come un'isola piena di parchi. Anch'io prediligo la parte ovest, e mi riconosco in alcune insofferenze dell'autrice. Per Alexanderplatz, ad esempio. Nonostante i recenti interventi urbanistici, questa piazza rimane un luogo insensato, di un gigantismo metafisico privo di bellezza. Solo un regime destinato a cadere per analfabetismo estetico può aver messo al suo centro quella torre, e non mi sembra un caso che l'autrice se l'immagini crollata sulla piazza, spezzata e sommersa dalla neve. Eppure, per quanto posticcia, essa non stona affatto con i centri di ristorazione americani, costeggianti la via che per 29 anni ospitò le parate militari. Come se non ci fosse complementarietà tra l'ex bruttezza sovietica e quella attuale.

Postdamer Platz fu, dopo la Grande guerra, la zona più vitale di Berlino. Poi i bombardamenti, la distruzione. Lì si è ucciso Hitler. Dopo la seconda guerra mondiale, durante il regime, è diventata la zona del muro, dei reticolati e dei checkpoint. Per il resto, solo rovine. Ora è un cantiere aperto: non più il territorio fangoso che Alessandra Montrucchio vide anni fa, ma un simulacro di city in divenire: palazzi avveniristici, gru e cantieri semicelati dai palazzi; cinema multisala, centri commerciali e personaggi disneyani che ti invitano ad entrare per uno spuntino. Zona di colonizzazione per impresari e multinazionali, banche e affaristi. Realtà zero, vita poca.

Dialogando con l'autrice, Mario, un italiano trasferitosi a Berlino, definisce la città “una capitale strana. Intanto non è la capitale finanziaria o economica”, e in effetti “non ha grandi industrie, non ha grandi istituti finanziari, non ha neanche voli diretti per l'America”. Tuttavia, a mio avviso, è proprio questa mancanza a renderla vulnerabile, facile a una colonizzazione economico/culturale che ha ben poco a che vedere col suo fecondo multiculturalismo, né col suo cosmopolitismo da città ospitale. Come per altre metropoli europee, ma in modo più marcato a causa della distruzione post-bellica e la lacerazione trentennale, con l'unificazione si è pensato che rivalutare la città, promuoverla, significa concedere all'ideologia del mercato il dominio sulla cultura. Quella che è stata una capitale culturale, la città rappresentativa delle avanguardie, il cui fervore colpì il giovane Elias Canetti, è diventata erogatrice di effimeri intrattenimenti. Non ho nulla contro l'effimero, ce n'è di qualità sopraffina, ma nel 2004, entrato nel Sony Center, provai un senso di disagio vedendo la gente ammassata a contemplare un maxischermo che sparava spot a raffica. 

Percorrendo l'Unter den Linden, il “viale dei tigli” che collega Alexanderplatz alla Porta di Brandeburgo, Alessandra Montrucchio si sorprende a pensare che quello è un viale “storico”. “Io venivo da Berlino Ovest”, scrive, “dove la cosa più vecchia aveva una quarantina d'anni”. In effetti della Berlino tra le due guerre è rimasto ben poco: tra le poche cose, “quel moncone di chiesa in centro”, la Kaiser-Wilhelm-Gedaechtniskirche che i berlinesi si rifiutarono di abbattere nonostante fosse ridotta in macerie dai bombardamenti. Pur vera, la riflessione dell'autrice ben evidenzia come per lei la storia della città finisca per coincidere con la propria storia, quindi l'esperienza e il “vissuto” prendono il sopravvento su una più ampia ricerca storica. Questo libro non è il “Barcellona” di Robert Hughes, né il “San Pietroburgo” di Salomon Volkov: non vuole esserlo e non ne ha le ambizioni - benché talvolta il suo sguardo si allarghi emotivamente sui tragici eventi che hanno segnato la città. Su suo consiglio, per rimanere senza fiato davanti a qualcosa di antichissimo, bisogna andare a Museuminsel e ammirare l'Altare di Pergamo, ricreato in modo da restituire l'effetto di allora, con la scalinata che ci porta fino ai bassorilievi che raccontano “una lotta fra dei e giganti senza quartiere, così vicina ai nostri occhi di visitatori, così reale, che sembra schizzare fuori dalla pietra”, davanti alla quale perdiamo la cognizione del tempo e si ha la “consapevolezza di essere soltanto un fragile giunco tra l'immensamente piccolo e l'immensamente grande”. Come l'autrice, nel 2004 mi sono commosso anch'io, in una Berlino in cui “i monumenti li facevano persino coi carrelli del supermercato”. 

Allora perché tornarci ogni volta? Perché questa città continua ad affascinare artisti e intellettuali, al punto che scrittori statunitensi come Jeffrey Eugenides e Jonathan Safran Froer vi si sono trasferiti da qualche anno?  Secondo Durs Grunbein, citato dalla Montrucchio, Berlino sarà pure una città in cambiamento, ma non vi “accade niente da decenni”, e d'altronde potremmo aggiungere che accade ben poco anche nelle altre metropoli europee, tutte ormai prive dell'importanza che ebbero agli inizi del secolo scorso. Non accade nulla a Parigi, con Montmartre ridotta a rappresentazione cartolinesca della creatività; non accade nulla a Praga, con un centro storico intonso ma nessuna continuità tra l'epoca di Carlo IV e l'attualità, con Kafka venduto come un'icona a turisti che di lui non hanno mai letto un libro e Kundera che scrive in francese a Parigi. Forse solo Barcellona conserva una sua vitalità, se trascuriamo l'intento di santificare Gaudì, con le code di turisti stupefatti ai piedi della Sagrada Familia, la chiesa che i catalani non volevano e che i giapponesi stanno terminando in barba a un progetto bruciato nel 1936.

Forse torniamo a Berlino perché è la città meno tedesca della Germania. Ci compiaciamo che sia abitata per la maggior parte da giovani, e in quest'Europa sedotta dalla retorica del lavoro è confortante sapere che i berlinesi non ne sono intossicati. “Non ne ho visti molti spaccarsi la schiena fino alla otto di sera”, scrive l'autrice. Molti Berlinesi continuano a vivere col sussidio: ci piaccia o meno, questo significa che lì una persona non è solo valutata in base a quanto produce e consuma. Inoltre, dice Mario ad Alessandra, si trovano degli appartamenti di “novanta metri quadri, su due livelli, parquet... (...) Centodiecimila euro”. Al di là delle suggestioni che sa ancora emanare, di un'iconografia tragica e di un immaginario caro ai giovani che fummo, Berlino sembra essere diventata ciò che Parigi fu per Cioran: “la sola città al mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna, senza complicazioni, senza drammi. Parigi era la città ideale per essere un fallito”. Decenni dopo, Durs Grunbein gli fa eco scrivendo che Berlino “è una città che assorbe qualunque cosa, anche il fallimento”.

Ecco perché abbiamo bisogno di tornare in questa città.