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Clima: svolta cinese e testacoda americano?

di greenreport - 06/03/2007

Intanto in Europa si deve decidere sulla quota del 20% di energia da fonti rinnovabili entro il 2020
 

 

La giornata di ieri è stata quella dei rapporti. In Cina è stato presentato il consueto rapporto annuale governativo, mentre negli stati Uniti è stata l’agenzia della protezione ambientale governativa a presentare il proprio rapporto.
E in entrambi i casi l’ambiente è stato al centro di numeri e di analisi. Partiamo dalla Cina dove il governo aveva stabilito per il 2006 che il tasso di crescita non dovesse superare l’8%. Il risultato è stato un + 10% nonostante gli sforzi del governo asiatico per evitare investimenti in progetti inutili o troppo a breve termine. La crescita veloce infatti è considerata dal governo cinese «inefficiente» e addirittura una minaccia, mentre invece i buoni propositi parlano ufficialmente di uno «sviluppo più sano», all’insegna del risparmio energetico e della riduzione degli scarichi inquinanti. Almeno i buoni propositi da parte del dragone cinese, sembrano esserci.

Quindi stop ai progetti che non superino le analisi di impatto ambientale e di consumo energetico stabilite dal governo centrale e incentivi alla ristrutturazione e al rinnovamento degli impianti di produzione.
Innovazione di processo quindi, che dovrebbe far gola a molti investitori occidentali che potrebbero puntare proprio sull’efficienza dei propri processi produttivi per esportare tecnologia in Cina.

In America i buoni propositi non ci sono. Nel rapporto preparato dall’amministrazione Bush e inviato con un anno di ritardo all’Onu si prevede che le emissioni inquinanti di gas serra da parte degli Usa, nel 2020 saranno superiori del 20% a quelle del 2000, che tradotto in peso significa che si passerà dai 7,7 miliardi di tonnellate ai 9,2. Nel rapporto si legge anche che gli Usa, che oggi producono un quarto dell’anidride carbonica e degli altri gas serra ritenuti responsabili del riscaldamento globale, subiranno conseguenze gravi se le emissioni globali continueranno a salire: a partire dalla riduzione della coltre nevosa nel nordovest, che potrà aggravare la scarsità di acqua fino a vere e proprie crisi idriche. Non un cenno alla traduzione economica delle “conseguenze gravi”, nonostante siano state proprio le più grandi aziende Usa a chiedere regole e governance mondiale che indirizzino verso un’economia più sostenibile (e duratura). Anche la soluzione mancain questo strano rapporto elaborato dagli uomini di Bush: a chiudere il cerchio c’è un’alzata di spalle e l’incrollabile fiducia nella «capacità di adattamento» del genere umano.

Per l’Europa invece è il tempo di decisioni importanti. Giovedì e venerdì a Bruxelles è in programma il vertice che dovrebbe tracciare la linea su cui si svilupperà la risposta europea alle sfide del cambiamento climatico. Il nodo è ancora un 20%. Ma questa volta rappresenta la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili che dovrebbe essere raggiunta al 2020. Obiettivo vincolante, vorrebbero i tedeschi insieme a Svezia, Danimarca e tra gli altri anche Italia. Obiettivo più generico, si augurano altri, che consenta deroghe per i Paesi che sono più indietro. Fino alla posizione della Francia, che vorrebbe correggere il concetto da “rinnovabili” a “a basse emissioni” includendo così anche la tecnologia nucleare. Intanto in preparazione del summit dei ministri degli esteri, oggi a Bruxelles è invece in programma un incontro tecnico, tra undici esperti in energia e cambiamenti climatici (ci sarà anche il premio Nobel Carlo Rubbia).

Un ultimo rapporto, di casa nostra, è quello presentato da Blossom associati e Assobiotec, che fotografa l’ottima salute del biotech italiano. Con un “piccolo” neo: il 94% dei ricavi complessivi è generato da aziende in qualche modo legate alla salute, che rappresentano il 72% del totale delle imprese biotech. Gli altri macrosettori si accontentano delle briciole: l’8% delle aziende biotech si occupa di biocarburanti, e prodotti da bioplastiche, il 14% è rappresentato dall’agroalimentare, e il 6% dalla bioinformatica (soprattutto materiali alternativi al silicio). Le stesse sproporzioni si ritrovano conseguentemente negli investimenti: con la salute che raccoglie tutto o quasi quello che viene speso per la ricerca e lo sviluppo: ricerca e sviluppo di nuovi prodotti (farmaci e medicine, che oltre ad essere utili rendono bene) e quasi mai di nuovi processi produttivi, quindi. Che sono esattamente quello di cui ha bisogno la Cina e che potrebbero essere esportati, manotenuti, aggiornati e sviluppati continuamente da tecnici occidentali.