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Precarietà dell’eterno presente e dialettica comunitaria

di Costanzo Preve/Luigi Tedeschi - 08/03/2007

   
Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi


1) Il ventunesimo secolo si identifica con l’era della globalizzazione. Il liberismo, sia sotto l’aspetto culturale che economico, è divenuto oggi un sistema politico-economico universale. L’economia globale nelle sue fasi di sviluppo necessita perennemente di nuovi mercati e deve pertanto progressivamente abbattere ogni confine culturale e statuale, creare nuova concorrenza. Il liberismo è dunque strutturalmente portato all’espansione, non genera stabilità e necessita quindi di precarietà. Il XXI° secolo è dunque il secolo dell’ homo precarius, quale successivo stadio antropologico evolutivo dell’ homo oeconomicus dei secoli passati. E’ l’economicismo progressivo a determinare le strutture della società in cui si inserisce questo homo precarius, quale individuo psicologicamente e antropologicamente omologato e compatibile con le dinamiche dell’economia globale. Tuttavia, osserviamo, che tale evoluzione della società è perfettamente compatibile con il modello welfarista dell’occidente novecentesco. Così come nello stato sociale l’individuo delega la sua soggettività alla società, che, in cambio di assistenza, assume una funzione demiurgica nel forgiare un tipo umano idoneo al sistema produttivo, nel mondo globalizzato l’individualità è assorbita nel vortice alienante del consumo, e la precarietà rappresenta il prezzo necessario per accedere alla soddisfazione dei bisogni indotti. Come appare chiaro, in tale contesto, è la struttura economico sociale a determinare forma e contenuto della personalità umana. La precarietà quindi non ha origine da un fondamentale vuoto di soggettività?

Il ventunesimo secolo è appena cominciato (2007). Ma poiché la nottola di Minerva, l’uccello sacro alla conoscenza umana, si alza solo al crepuscolo, bisogna aspettare il 2099 per conoscere la natura di questo secolo appena iniziato. Questo riguarda però soltanto i nostri discendenti, dal momento che tutti noi saremo già da tempo nel mondo dei più. Ho letto recentemente un curioso libro francese che raccoglieva le previsioni sul decorso storico del novecento scritte nel decennio 1896-1906. Ebbene, non solo non erano previsti avvenimenti tipo guerre mondiali, fascismo, comunismo, guerra fredda USA-URSS, eccetera, avvenimenti effettivamente prevedibili soltanto da Nostradamus, ma non erano neppure previsti avvenimenti tipo decolonizzazione, integrazione delle classi subalterne nella società dei consumi, caduta del patriarcalismo familiare, eccetera, che pure avrebbero dovuto in linea di massima essere maggiormente “prevedibili”.
Per questa ragione non sono affatto sicuro che questo secolo appena nato sarà il “secolo della globalizzazione”. Questa connotazione è quella che cercano di imporci i “cosmocrati” al potere attraverso il loro clero mediatico asfissiante. Dovendo azzardare un’impossibile previsione, direi che forse questo secolo sarà il secolo dello scontro fra un insieme di forze di tipo appunto “cosmocratico” che cercherà di approfondire sempre di più la globalizzazione, ed un insieme di forze (nazionali, popolari, classiste ed individuali) che vi si opporranno. Questo secolo, come peraltro tutti i secoli precedenti, sarà un secolo di scontri e di lotte. I “pacifisti” ritualizzati che sognano lo “stato tranquillo finale della società” si sbagliano, ma sappiamo bene che il loro destino è quello di sbagliarsi sistematicamente, non solo, ma anche quello di fare da “preti soporiferi e tranquillizzatori” nei confronti di tutti coloro che intendono legittimamente “resistere”, e resistere in tutti i modi possibili.
Fatta questa doverosa premessa cautelativa, assumiamo pure come ipotesi di partenza la tua definizione di ventunesimo secolo come era della globalizzazione, non dimenticando mai che questa è la proposta terminologica e concettuale dei dominanti, ed i dominati non devono mai accettare la lingua dei dominanti. Distinguiamo, allora, due dimensioni essenziali della globalizzazione, la prima geografica, la seconda antropologica.
La dimensione geografica, o più esattamente geopolitica, vede come suo elemento centrale il progetto imperiale (o più esattamente, ideocratico - imperiale) degli USA, che riassumerei telegraficamente così: mantenimento del profilo culturale esclusivamente anglosassone della metropoli, controllo delle fonti energetiche, assoluta predominanza militare, ideologia del terrorismo come nuovo nemico simbolico assoluto, sottomissione dell’Europa, assunzione del messianesimo sionista come nuova religione unificata dell’Occidente, individuazione nella Russia e particolarmente nella Cina i nuovi nemici strategici.
Per quanto riguarda la dimensione antropologica, di cui ovviamente l’homo precarius è parte integrante, credo che prima di discuterla sia necessario tentarne una genesi storica in tre momenti. In un primo momento, con la costituzione storica della nuova società capitalistica (1748-1848), sono nati insieme l’homo oeconomicus (Adam Smith) e l’homo moralis (Immanuel Kant), in quanto il secondo è stato il complemento simbolico, oltre che programmaticamente impotente, del primo. In un secondo momento, con la scissione dialettica della precedente unificazione simbolica del mondo (che aveva a sua volta sostituito la tripartizione medioevale della societas christiana in oratores, bellatores e laboratores) sono nati i due homo burgensis e homo proletarius, le cui lotte hanno riempito il periodo 1848-1989. In un terzo momento, oggi, la vecchia coppia homo oeconomicus/homo moralis perde ogni residua effettività storica, e si fa avanti una nuova coppia, più adatta allo spirito della globalizzazione, quella di homo consumans e di homo precarius. In estrema sintesi, l’oggetto della nuova antropologia sociale metropolitana (nei paesi più poveri le cose stanno diversamente) è proprio quello dello studio della dialettica complementare fra homo precarius e homo consumans. La strategia di dominio dei cosmocrati che ci governano in base al trinomio Pensiero Unico/Politicamente Corretto/Democrazia come semplice codice d’accesso ideologico e non più come rappresentanza popolare diretta (ribattezzata spregiativamente populismo), è proprio quella di risarcire psicologicamente in quanto homo consumans il soggetto indebolito socialmente in quanto homo precarius.
Certo, sia il modello welfarista che il modello precarista hanno entrambi come minimo comun denominatore un indebolimento ad un addomesticamento della individualità umana libera. Sono d’accordo. Ma, appunto, il problema non è solo quello di individuare il minimo comun denominatore, ma di individuare anche i diversi numeratori della frazione. Di qui, infatti, comincia il vero e proprio ragionamento critico sull’oggi.

2) Potremmo definire la precarietà come una forma di etica capovolta che accomuna tutta la società contemporanea. L’attuale società capitalista non è più strutturata sulla stratificazione delle classi sociali in base alla divisione del lavoro, così come non è caratterizzata dalla accumulazione di beni e capitali, dalla proprietà dei mezzi di produzione da parte della borghesia, dall’emergere di una classe proletaria protagonista del processo produttivo contrapposta alla borghesia. Quindi, i presupposti fondanti della dialettica del reale della filosofia marxiana sono venuti meno. Infatti, la precarietà non è una condizione riguardante il solo lavoratore salariato, eternamente subalterno ai mutamenti dei cicli di espansione e recessione cui è soggetta l’economia liberale, ma anche le classi dominanti, data la volatilità della ricchezza nei mercati finanziari, i continui mutamenti degli assetti azionari nei vari settori produttivi, la subalternità della produzione e delle risorse all’economia finanziaria. La precarietà assorbe tutta la dinamica dei rapporti economico-sociali del mondo globalizzato. Ma allora la precarietà dovrebbe comportare anche rapidi ricambi nelle elites economiche e politiche, il moltiplicarsi delle opportunità di promozione sociale per i ceti subalterni. La precarietà ha invece prodotto staticità anziché mobilità sociale ed accentuata stratificazione sociale per differenziali di reddito e capacità di consumo. E’ questa una insanabile contraddizione, tipica della società liberale, che genera forme di immobilismo che potrebbero rappresentare un segnale di irreversibile declino. Cosa ne pensi?

Da studioso del pensiero di Marx e della storia secolare del marxismo successivo mi permetterai di contestare amichevolmente l’affermazione per cui “i presupposti fondanti della dialettica del reale della filosofia marxiana sono venuti meno”. Si tratta qui di intenderci per non cadere poi in pittoreschi equivoci. Se infatti il cuore del pensiero di Marx viene definito in base ai tre tradizionali parametri (permanenza della dicotomia classista Borghesi/Proletari per tutto il periodo storico della dominanza del modo di produzione capitalistico, incapacità strutturale della produzione capitalistica di sviluppare le forze produttive tecnologicamente intese, ed infine capacità rivoluzionaria ed eversiva della classe operaia, salariata e proletaria) allora sì, avresti ragione, e potremmo allora sensatamente dire che questo modello teorico non è più in grado di illuminare la conoscenza del mondo di oggi. Va se invece -come personalmente sostengo da tempo- il cuore del pensiero di Marx non sta in questi tre parametri, ma sta in una nozione olistico – dialettica della totalità sociale capitalistica, ed è in grado dunque di “sopportare” crisi di paradigma e rivoluzioni scientifiche interne (nel senso dato a questi termini dall’epistemologo americano Kuhn), allora le cose cambiano. Ma su questo, purtroppo, non è possibile soffermarsi oltre per ragioni di spazio. Ricordo solo i contributi di Claudio Napoleoni, pensatore oggi ingiustamente dimenticato, che non solo distingueva fra vera e propria critica dell’economia politica (Marx) ed economia politica critica  (Ricardo, Sismondi, Keynes, Schumpeter, eccetera), ma sosteneva anche che nel capitalismo lo sfruttamento riguarda la sola classe dei dominati, mentre l’alienazione riguarda tutti, e quindi sia i dominati che i dominanti. Quando si sarà depositato il fastidioso polverone identitario - sportivo della lotta Destra/Sinistra potremo forse riprendere questa discussione in modo più fruttuoso e sensato.
Hai invece perfettamente ragione nel sostenere che le “carte sociologiche” ereditate dal secolo breve (1914-1989) devono essere riscritte e ridisegnate integralmente. Siamo già in ritardo di quindici anni, e sono molto pessimista, tenendo conto del conservatorismo, della inerzia e della “vischiosità” dei ceti accademici. Ritengo invece che tu individui correttamente il punto essenziale della questione rilevando un (apparente) paradosso, per cui il principio della precarietà, ribattezzato virtuosamente (ed ipocritamente) “flessibilità”, viene invocato in nome della fluidificazione democratica della mobilità sociale in favore dei nuovi humiliores, ma in realtà non intacca minimamente la stabilità sostanziale dei gruppi dominanti (se non per le tipiche eccezioni che da sempre confermano la regola). Ma qui, appunto, “casca l’asino” della funzione apologetica dell’ideologia dominante. Cerchiamo allora di fare un minimo di chiarezza.
La struttura sociale e simbolica della società feudale europea era tripartita. Secondo Adalberone di Laon ci stavano sopra i signori feudali (bellatores), poi a fianco (o più esattamente sotto socialmente e sopra simbolicamente) il clero (oratores), ed infine alla base della piramide i lavoratori (laboratores). I due secoli del capitalismo dicotomico borghese–proletario (1789-1989) infransero realmente questa piramide simbolica, modificarono radicalmente le ideologie di legittimazione sociale del potere passando dal verticalismo precedente (Dio/Uomo) ad un nuovo orizzontalismo conflittuale(Destra/Sinistra), e però effettivamente crearono una fluidificazione dei ruoli all’interno della struttura sociale Dominanti/Dominati. Ma le tendenze della attuale configurazione della globalizzazione finanziaria e delle oligarchie economiche “smisurate” portano a mio avviso ad una sorta di rifeudalizzazione funzionale del sistema sociale, in direzione di una nuova tripartizione sia sociale che simbolica. In alto, la nuova nobiltà, non più composta da pittoreschi duchi, conti e baroni, ma dalla “cosmocrazia” dei padroni delle multinazionali che ha come suoi sbirri di servizio una sorta di new global middle class che non è affatto flessibile e precaria, ma che è invece assai stabile, oltre che essere scandalosamente ben pagata. In mezzo, un nuovo clero, composto non certo dai membri dei vecchi cleri monoteisti, minacciati dalla nuova trinità diabolica della laicizzazione, del relativismo morale e del nichilismo ontologico - metafisico, ma dal ben più potente clero del circo mediatico di manipolazione e di intrattenimento. Soltanto in basso, infatti, c’è un nuovo grande terzo stato ampiamente stratificato al suo interno, che per impedirne la ricomposizione attraverso un nuovo ed inedito progetto rivoluzionario, evidentemente al di là dell’obsoleta dicotomia Destra/Sinistra fatta artificialmente sopravvivere solo più al livello culturale di “stili di vita”, deve essere appunto diviso proprio sulla base della nuova dicotomia ricattatoria Stabilità/Precarietà del posto di lavoro. E finché non riusciremo ad infrangere politicamente questo ricatto non vedo molte possibilità “pratiche” di invertire veramente il corso delle cose.

3) Lo sviluppo della precarietà è una causa determinante delle mutazioni culturali della società contemporanea. Infatti la precarietà è un fenomeno economico che diviene a sua volta politico, data l’azione destabilizzante svolta dal mercato globale nei confronti delle istituzioni statali, la cui scomparsa rappresenterebbe una fase necessaria all’avvento della società globalizzata. La precarietà economica comporta inoltre massicce migrazioni di popoli ed accentuato cosmopolitismo, quale preludio alla società multietnica e multiculturale. La precarietà è dunque una condizione permanente dell’uomo contemporaneo vissuta in funzione di aspettative futuribili sia individuali che collettive: essa sussiste in virtù del miraggio del paradiso del benessere consumistico occidentale per quanto riguarda il terzo mondo e di una prospettiva evolutiva di benessere immateriale e virtuale dei bisogni indotti per le società avanzate. La precarietà è quindi progresso nella misura in cui ad essa fa riscontro un orizzonte virtuale futuribile. Ma le aspettative di un futuro possono sussistere come proiezione di una condizione reale presente. Quindi, ci si chiede come un uomo alienato in una perenne instabilità precaria limitata all’esistente possa concepire una dimensione evolutiva del suo divenire senza una coscienza di sé stesso e del proprio reale presente.

Mi permetterai di partire proprio dal tuo dubbio conclusivo, per cui ti chiedi come un “uomo alienato in una perenne instabilità precaria limitata all’esistente possa concepire una dimensione evolutiva del suo divenire senza una coscienza di sé stesso e del suo reale presente”. Credo che stia proprio qui il cuore del problema.
Iniziamo dalla tua scelta linguistica di iniziare con la paroletta “alienazione”. Vedo in questa scelta una volontà di resistenza al presente, trasfigurata in un venerabile concetto della filosofia idealistica tedesca. Questa paroletta, ed il concetto che essa porta con sé, ha furoreggiato per circa mezzo secolo (grosso modo, 1930-1980), per essere poi sostituita da parolette infinitamente meno utili ed interessanti, come “differenza”, diritti umani, eccetera. Oggi questa paroletta sopravvive stentatamente nelle facoltà di “filosofia normalizzata” (FN) come oggetto di esame (i suoi significati distinti in Rousseau, Hegel, Feuerbach, Marx, eccetera), viene respinta come sopravvivenza metafisica antidiluviana (Habermas, Rorty, eccetera), e viene persino criticata in modo suicida da “marxisti” che inconsapevolmente lavorano per il re di Prussia (scuola di Althusser). E invece no, bisogna resistere. Chi continua ad usare questo termine non può fare a meno di evocare la possibilità (ontologica, psicologica e soprattutto antropologica) di un mondo alternativo a questo. Bene così.
La “perenne instabilità precaria” di cui parli non è una patologia curabile con consigli alla Umberto Galimberti, filosofo che prima accetta come scontato ed inevitabile l’attuale sistema economico del capitalismo globalizzato e poi incongruamente si lamenta per le conseguenze antropologiche inevitabili, che ne discendono, ma è la forma fisiologica di una sorta di società moderna “liquida” (Bauman) in cui gli individui diventano “io minimo” (Christopher Lasch). Il concetto di “sostanza solida” (substratum) cominciò ad essere criticato in termini filosofici da parte di John Locke alla fine del seicento, e questo non è un caso, perché la cosiddetta “sostanza” (substratum) era solo la metafora concettuale di un solido substrato comunitario sottostante, che la produzione (e soprattutto la circolazione) capitalistica doveva prima “sciogliere” e poi distruggere, in direzione di una fluidificazione circolatoria generalizzata in cui il “mondo” potesse essere trasformato in una rete di scambi. La modernità “liquida” di cui parla Bauman è solo il punto terminale di un processo storico iniziato in occidente più di tre secoli fa, e che solo ora sta veramente investendo aree geografiche e culturali in cui non si era ancora compiutamente affermato (mondo islamico, India, Cina, eccetera).
L’uomo come lo abbiamo fino ad oggi conosciuto si è sempre autorappresentato psicologicamente e culturalmente attraverso le tre dimensioni del Passato, del Presente e del Futuro. C’è qui forse il solo minimo comun denominatore che unisce gli antichi egizi, gli antichi sumeri e gli antichi greci, da un lato, e le società feudali, liberali e socialiste, dall’altro. Queste tre dimensioni informavano sia lo spazio storico delle civiltà che lo spazio autobiografico delle singole persone, e facevano anche da tessuto connettivo alle solidarietà inergenerazionali, solidarietà basate indiscutibilmente anche e soprattutto sulla famiglia eterosessuale generatrice di figli. Tutto questo deve saltare, per poter cominciare a formarsi il tipo di società che i “cosmocrati” vogliono. Per questo, bisogna cominciare a colpire non tanto e non solo le classi, i gruppi e gli aggregati, ma proprio la pretesa dell’individuo di “opporsi” al presunto “corso del mondo”.
L’individuo deve essere continuamente fatto oggetto di “strategie di antocolpevolizzazione” se per caso comincia a rendersi conto di pensarla in modo veramente “diverso”. Oggi. la retorica del politicamente corretto difende ogni tipo di “diversi”, al di fuori di una sola tipologia di questi ultimi, e cioè di coloro che la pensano veramente in modo “diverso” dal gregge pacoresco di conformisti belanti manipolato dal sistema mediatico. Si ha così il cosiddetto “effetto mosca”, che potrebbe essere riassunto così: “Mangia merda. Mille miliardi di mosche non possono sbagliarsi”.
E invece ci sono cibi migliori della merda, e mille miliardi di mosche possono anche sbagliarsi. Il modo socialmente migliore di cercare di impedire il pericoloso insorgere di “dubbi iperbolici” di questo tipo sta appunto nel recidere alla radice il nesso Memoria Critica dei Passato/Consapevolezza esistenziale della Natura Sociale del Presente/Prospettive di emancipazione del Futuro. Per recidere alla radice questo nesso costitutivo fondante della stessa identità filosofica occidentale è necessario creare una sorta di Metafisica dell’eterno Presente . La “precarietà”, che ha anche trovato i suoi cantori ed apologeti (la specie animale dei coglioni è la più numerosa nel meraviglioso mondo della natura), non è allora soltanto una caratteristica dell’attuale mercato del lavoro, ma è anche e soprattutto la metafora “corporea” del tipo di mondo che i cosmocrati ci stanno cucinando.

4) La precarietà è una condizione tipica di una società capitalistica votata al consumo ininterrotto di beni di consumo come di se stessa. L’homo precarius è spogliato della propria identità comunitaria e la sua vita è caratterizzata dalla mancanza di senso, dato che la sua esistenza è limitata al consumo del presente, in una prospettiva individualistica fine a se stessa. L’ideologia liberale esalta l’individuo come soggetto esclusivo della società, a discapito della dimensione comunitaria, di una condizione cioè in cui l’uomo riconosce sé stesso in base alla funzione da lui svolta nell’ambito sociale, ma la precarietà nel lavoro, nella vita affettiva, nella politica, preclude di fatto ogni facoltà decisionale. Infatti, i diritti fondamentali dell’uomo non possono essere esercitati in una società capitalista in cui la libertà di opinione, di associazione, lo stesso scasso alla proprietà privata, vengono vanificati da una precarietà economica che condiziona perennemente i bisogni primari dell’individuo. Lo stesso individualismo liberale si rivela quindi incompatibile con la precarietà. E inoltre: nel precariato non si manifesta apertamente quel vuoto di senso esistenziale che l’ideologia liberale volle esorcizzare con la concezione secondo cui l’uomo è fine a sé stesso e le istituzioni politiche non possono anteporsi a gli scopi individuali? La società globalizzata nella sua precarietà immanente non distrugge progressivamente oltre che la comunità anche l’individualismo?
La tua domanda mi spinge ad approfondire la riflessione su almeno due punti cruciali, e cioè quella che tu chiami l’incompatibilità di fondo fra lo stesso individualismo liberale “classico” e la precarietà, da un lato, ed il tema delle contraddizioni del comunitarismo, dall’altro. Esaminiamoli separatamente.
L’individualismo liberale classico non solo non perseguiva un’immagine sociale ed antropologica di homo precarius, ma al contrario mirava ad una sorta di “stabilità” etica e politica, che non a caso fu spesso (ed in larga parte erroneamente) definita in termini di “conservatorismo”. Da un lato, era innegabile che la nuova produzione capitalistica stava sconvolgendo le vecchie strutture tradizionali (nei termini di Marx, “tutto ciò che è solido salta in aria”). Dall’altro lato, però, la figura del borghese non si riduceva a quella di semplice agente attivo della produzione capitalistica, ma si definiva proprio in termini di stabilità affettiva, culturale, intergenerazionale (liceo classico, educazione scientifica, galateo linguistico ed etico, eccetera). Sia l’utilitarismo colto ed educato di Stuart Mill che il cosiddetto “spirito oggettivo” di Hegel miravano infatti a questa stabilità culturalmente salda. Il borghese di quei tempi, infatti, sapeva bene che il nichilismo merceologico del mercato avrebbe distrutto le stesse basi della convivenza sociale, se non fosse stato “tenuto a freno” da una compensazione culturale di tipo appunto “stabile”.
E tuttavia, come ci hanno variamente insegnato Hegel e Marx (e nel novecento Lukacs ed i francofortesi), esiste la dialettica, che è inesorabile e fa sì che le forme storiche si rovescino nel loro contrario. La figura originaria del portatore dell’individualismo liberale, e cioè il borghese classico, teneva ancora insieme la precaria instabilità delle vicende del mercato (arricchimenti, fallimenti, eccetera) con la sublimazione “stabile” di un modello culturale tradizionale. Ma la necessità di lasciarsi alle spalle la forma capitalistica dicotomica, costituita dall’opposizione di Borghesia e Proletariato, forma che indeboliva fortemente la riproduzione capitalistica complessiva (lotta di classe, rivoluzioni comuniste, compromesso sociale socialdemocratico, eccetera), ha infine portato (e tu mostri di capirlo molto bene) ad una sorta di suicidio rituale dello stesso individualismo liberale classico, nella sua deriva dai Buddenbrook a Berlusconi.
E passiamo ora al tema del comunitarismo, oppure come tu lo chiami, a quello della “dimensione comunitaria”, che nella società moderna non deve essere concepita come opposta, ma come complementare a quella individuale, per cui la loro contrapposizione porta inevitabilmente alla dissoluzione di entrambe. Da alcuni anni mi occupo di comunitarismo con simpatia, al punto di difendere e sostenere apertamente questo concetto. Tuttavia il comunitarismo è pur sempre un “ismo”, e tutti gli “ismi” sono simili a reti a maglie larghe che spesso non prendono pesci, perché le maglie sono troppo larghe ed i pesci “concreti” ci passano attraverso. L’“ismo” comunitario ha dunque un doppio ruolo, quello di poter ambire ad essere un’alternativa politica e culturale alla deriva individualistica, narcisistica e relativistica del vecchio profilo liberale classico, da un lato, e quello di poter ambire ad essere una correzione democratica e liberista alle patologie storiche e politiche del comunismo, dall’altro lato.
Si tratta, per ora, solo di una prospettiva largamente praticabile, ma non ancora di un movimento politico concretamente esistente che possa dirsi in grado di superare realmente l’obsoleta dicotomia Sinistra/Destra. Anzi, oggi vediamo che esistono usi strumentali e perversi del comunitarismo, per cui le varie comunità etniche e religiose vengono messe le une contro le altre proprio per spezzare la resistenza dei popoli attaccati dall’impero ideocratico USA. L’Irak dopo il 2003 ne è il massimo esempio storico, ma occorre ricordare anche la Jugoslavia 1991-1999. Questo uso criminale del comunitarismo mi è ovviamente noto fin nei più piccoli particolari, ma non è per me una ragione sufficiente per gettare via il bambino insieme all’acqua sporca. Un ristabilimento comunitario, ovviamente all’altezza dei nuovi problemi sorti con la minaccia agli ecosistemi da parte di una produzione inquinante incontrollata, con la dissoluzione privatistica della vita quotidiana, ed infine con le nuove forme di manipolazione mediatica, eccetera, dovrà e potrà essere prima concepito, e poi praticato, tenendo conto della ricca esperienza storica degli ultimi secoli, senza nutrire assurde illusioni sul “recupero” di una fantomatica tradizione primigenia immutabile.
Per finire, ribadisco il mio accordo con quella vera e propria diagnosi che avanzi alla fine della tua domanda: “la società globalizzata nella sua precarietà immanente distrugge progressivamente non solo la comunità, ma anche l’individualismo”. Purtroppo, la maggioranza dei commentatori vede solo l’uno o l’altro di questi aspetti, ma non li vede in connessione. Dialettica, signori, dialettica!