Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Contro gli scrittori civili

Contro gli scrittori civili

di Christian Raimo - 09/03/2007

 

Ad un certo punto, giusto a venti pagine dalla fine del suo libro Il ponte, Vitaliano Trevisan enuncia senza volerlo qual è il peccato originario di questo romanzo. Dice: “Se Pasolini si fosse scagliato anche contro la madre, probabilmente non sarebbe stato fatto oggetto del processo di beatificazione al quale è sottoposto ormai da anni, cosa che in fondo sortisce l’effetto di disinnescarlo e renderlo inoffensivo”.
Ma partiamo da una premessa: la consapevolezza che tra il deserto sentimentale degli anni ’80 e il disagio rigoroso degli anni ’90 qualcosa si sia incrinato, se non perduto, nel rapporto tra letteratura e società, è una costante degli scrittori italiani contemporanei, viventi. Ogni tanto si apre un dibattito su quanto poco ha rilievo la letteratura in Italia, ogni tanto qualcuno scopre quanto l’intellettuale invece di essere una figura di riferimento è considerato poco più di un guitto e di conseguenza si comporta. È normale quindi l’aspettativa che si crea per gli autori-autori, per coloro che credono nella sacralità, nella necessarietà del gesto della scrittura, fra cui appunto va annoverato Vitaliano Trevisan. Pochi libri in biografia, scritti prima di tutto per rendere conto a se stesso delle proprie ossessioni: lontano dai meccanismi delle urgenze editoriali – e per questo autore coccolato dal duo Cesari e Repetti di Stile Libero fin da quando lavoravano a Theoria – e della finta mondanità delle presentazioni, dei festival, delle polemiche sui giornali. E allora uno compra il suo libro e si aspetta un oggetto impermeabile alle facili riduzioni da recensioni. Uno legge il suo libro e spera di ritrovarsi esterrefatto dalla potenza “percussiva” come recita la quarta di copertina della sua scrittura. Uno vorrebbe – sinceramente – restare spiazzato, addolorato, invaso, come si è solo di fronte alla scrittura senza mediazioni, senza facili pietà nei confronti del lettore. E Trevisan ce la mette tutta, ha tutte le buone intenzioni, o meglio – gli va assolutamente riconosciuto – ha tutta la forza morale, l’intransigenza che dovrebbe nutrire ogni parola che uno deposita sulla pagina. Però il suo libro non coinvolge. Per vari motivi, credo, ma per uno prima di tutti: perché è un libro novecentesco. Perché è un libro che disprezza la contemporaneità e per farlo ritrova la sua “forza del passato” in autori che hanno saputo incarnare trent’anni fa la coscienza civile di una nazione. Pasolini e Bernhard: stracitati, omaggiati, per tutto il libro. Attraverso una declinazione della loro lezione, si prova a tracciare – tessendolo intorno a una storia famigliare che è talmente sottile da sembrare un abbozzo – un apologo sulla rovina antropologica, ambientale, biologica del nostro tempo. Quello che ne viene fuori è purtroppo, nella maggior parte delle pagine, un’invettiva civile. Trevisan mette in scena un personaggio (un alter-ego, scrittore anch’egli) che vivendo ormai da anni all’estero, nel momento in cui deve tornare in Italia, fa i conti col suo passato. E, visto che si trova, parla male, malissimo dell’Italia: se la prende con i macchinoni che sfrecciano in autostrada oltre i limiti, contro gli italiani che non hanno il senso delle regole, contro la volgarità di Jesolo e dei tedeschi che continuano a andarci, contro le strade dissestate e la mancanza di manutenzione, contro i “bambini italiani, ma forse dovrei dire occidentali, che non sanno mai stare al posto loro, e fanno e più o meno dicono tutto quello che gli pare”, contro il fatto che “in Italia si lamentano tutti in modo insopportabile”, contro i giornali italiani che fanno schifo, (“Al massimo li ho usati per incartarci qualcosa, per accendere un fuoco, o per pulirmi il culo”), contro il rivoltante italiano di terza pagina, contro il trasformismo dei politici e degli intellettuali italiani, contro Roma “capitale delle esistenze intellettuali fallite”, contro il popolo piccolo borghese, contro la sciatteria della classe politica, contro il Sessantotto, contro “i gialli italiani del cazzo o se si preferisce i noir italiani altrettanto del cazzo”, contro gli scrittori che si credono produttori e invece sono prodotti, contro le metafore di merda che usano, eccetera eccetera eccetera. E tutto questo, ci viene ripetuto due tre volte, Pasolini l’aveva già previsto, già scritto.
Alla fine, malgrado le evidenti intenzioni, si dimostra futile, inoffensiva – come Trevisan stesso paventa – questa direzione di scrittura che con le armi di uno stile vigilatissimo, curato nella scansione ritmica della frase come poche cose che si leggono in Italia (e forse qui un maestro sotterraneo oltre Bernhard, è l’iper-novecentesco Berto), non fa altro che arretrare lo sguardo fino al Pasolini del 1975, per moraleggiare che da lì in poi è tutto sfacelo. Si fa l’anima bella, non si rischia, ci si autoriduce la propria possibilità creativa (ci sono pagine belle sono appunto quelle in cui il risentimento si fa visione), si sfiora il qualunquismo intellettuale, e non basta – come a un certo punto fa anche Trevisan – prendere le distanze: “Pensieri banali, me ne rendo perfettamente conto. Ma trattando simili argomenti, non si può essere banali”. Viene da dire: per favore basta fare gli scrittori civili, basta dire Pasolini l’aveva già detto, e per questo millennio ormai cominciato rileggersi – per controbilanciare mi raccomando, niente schieramenti intellettuali, niente polemiche impegno contro disimpegno – la prima lezione americana di Calvino. E magari far la propria parte nel mondo senza essere per forza così appesantititi dal proprio piglio morale.