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Megalopoli, culle di violenza? Parla l’antropologo Marc Augé

di Leonardo Servadio - 10/03/2007

Il rischio di una nuova aristocrazia della ricchezza che si erge sulle masse dei consumatori L’uso della forza e il suo fascino per i diseredati urbani. Dai non-luoghi alle banlieues: parla l’antropologo Marc Augé

Si va formando una coscienza nuova del rapporto tra umanità e ambiente: se tale coscienza giungerà a maturazione in tempo per migliorare l'universo fisico in cui viviamo, è da vedersi: Marc Augé, uno dei maggiori antropologi al mondo, osserva con disincanto i grandi problemi che hanno assillato le ultime generazioni. Ieri era a Milano per un seminario alla Facoltà di sociologia dell'Università Cattolica.
Professor Augé, tra i caratteri primordiali dell'essere umano c'è la sua capacità di conformare il proprio ambiente di vita, non di subirlo passivamente. Ora con le megalopoli sembra che siamo entrati in una contraddizione: l'ambiente costruito diventa ostile?
«Credo che all'origine della storia vi fosse anzitutto la necessità di comprendere l'ambiente, il che ha portato all'elaborazione di sistemi simbolici, e in secondo luogo si è manifestata la necessità di organizzarlo al fine di migliorare le condizioni di vita. Oggi ci accorgiamo che stiamo lottando contro noi stessi, più che contro un ambiente esterno a noi. È quel che si presenta come il problema dell'esaurimento delle risorse e dell'inquinamento, di dar da mangiare a miliardi di persone e di convivere con una urbanizzazione generalizzata. La storia futura sarà il frutto della dinamica che si stabilirà tra questa presa di coscienza e la ricerca delle soluzioni. Molto dipenderà dall'evoluzione della ricerca scientifica, ma essa corre così in fretta che è difficile dire quali effetti sortirà tra una trentina di anni».
Se tutto diventa città, non è questo un passo in avanti? Città è civiltà… E la globalizzazione non trae una cognizione del nostro essere un tutto…
«Il problema è che la globalizzazione è ben diversa da una coscienza universale: ha l'apparenza dell'avvicinamento tra culture, in realtà è un fatto di potere economico. Quindi la relazione particolare/universale non coincide affatto con la relazione locale/globale. Nel mondo globale vi sono aspetti che sembrano aver qualcosa a che fare con una coscienza più ampia: che tutti si abbia lo stesso destino, per esempio. C'è libera circolazione di beni, denaro, persone, notizie, informazioni - ma solo teoricamente. Sappiamo che invece tutto è molto relativo: gli stati più forti si difendono a svantaggio di quelli più deboli. Questo è vero per il commercio delle merci, ma anche per lo sviluppo del sapere: basti pensare che il bilancio per la ricerca dell'università di Harvard è pari a quello di tutte le università europee messe assieme, che a sua volta è incomparabile con quel che si investe in ricerca nei paesi in via di sviluppo. Con queste premesse, a guardare nel futuro si immagina più facilmente un mondo dove l'aristocrazia della ricchezza afferma con ancora maggior forza il suo predominio sulle masse di consumatori nei nostri paesi occidentali, e dei sottoconsumatori negli altri paesi. Insomma, non è affatto sicuro che la globalizzazione, malgrado i proclami che la vogliono portatrice di eguaglianza e democrazia, raggiunga veramente tali risultati. Certamente porta anche diseguaglianza economica».
Lei ha anche paventato il rischio della violenza insita in questa disparità…
«Non c'è una relazione immediata tra disparità economica e rischio di violenza, ma una relazione mediata c'è. Spesso i più poveri sono tali anche sul piano intellettuale e diventano più facilmente preda delle manipolazioni di alcune élite, come nel caso del terrorismo internazionale. All'interno dei paesi occidentali l'uso smodato dei mass media come luogo di espressione politica diventa potenziale mezzo di eccitazione alla violenza. Perché la continua presenza e il continuo scontro dei leader politici in tv porta i teleutenti in uno stato di fascinazione ma allo stesso tempo di invidia e ostilità verso i potenti che dominano sugli schermi. Ci si trova in una situazione simile a quella dei popoli primitivi africani che verso il colonizzatore sentivano proprio quella fascinazione e quella invidia: un sentimento ambivalente in cui si cela molta violenza potenziale».
C'è relazione tra ambiente urbano e violenza, come nel caso delle periferie francesi?
«Il caso delle banlieues è noto: la violenza fu scatenata dagli immigrati di seconda generazione che volevano essere trattati come i loro coetanei francesi, ma restarono vittime della disoccupazione cresciuta dal 1980. È un problema politico che nessun governo ha saputo affrontare. Ci sarebbe voluto uno sforzo maggiore di integrazione…».
Il suo nome è legato al concetto di "non luogo". Oggi viviamo nella società della trasformazione e della velocità: il "non luogo" non le è consustanziale?
«Certo. Non ritengo totalmente negativo il concetto di "non luogo". Il luogo è dove avvengono le relazioni umane, ma queste possono diventare ingessate e ridurre gli spazi di libertà delle persone. I "non luoghi" sono là dove si passa: vediamo oggi che le città si identificano spesso con tali "non luoghi": aeroporti, stazioni che molte volte fan tutt'uno con ipermercati e parchi di divertimento. Perché tutti i grandi agglomerati sono protesi verso l'esterno, alla ricerca di una identità planetaria. Direi che questo è l'aspetto positivo della ristrutturazione del nostro spazio di vita. Il punto problematico è che le relazioni sono sempre più mediate: da Internet (anch'essa un "non luogo") ai viaggi. Nel mondo globale vi sono relazioni possibili differenti da quelle che si conoscevano prima: è un cambiamento di scala. Ma c'è una profonda ambiguità, molto alimentata dai mass media: gli strumenti di comunicazione globali sono "mezzi". Nella sovraesposizione mediatica attuale assumono il valore di "fini". Come distinguere? Come mantenere in tale contesto una sobrietà di giudizio? Con l'educazione, con la cultura. Ma chi vi ha accesso? Più si va avanti, più sembra che la cultura dipenda dal potere economico».