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Spezzoni di un immaginario mitico post-ideologico

di Annalisa Terranova - 13/03/2007

 

 

Il comizio come rito politico dell’Italia del dopoguerra è ormai defunto. A celebrarne il funerale non sono solo le piazze sempre più vuote dinanzi a tutti i leader di partito senza distinzione di tessera, ma soprattutto l’imperare di quella che viene chiamata politica-spettacolo. I capi di partito si comportano ormai come se fossero delle star: si occupano del look, dell’audience, della battuta a effetto, di assicurarsi la passerella nel talk show più seguito almeno una volta al mese. Sanno, insomma, che il loro messaggio filtra attraverso lo spot-battibecco e confondono spesso la loro popolarità con un presunto consenso.

La politica non ha più bisogno del comizio, che rappresentava il prodotto del partito organizzato e di apparato, che trascinava i militanti e galvanizzava la cosiddetta “base”. Oggi i media sono il fattore regolatore del messaggio politico: interviste e salotti televisivi bastano e avanzano per condurre le battaglie politiche. I risultati vanno valutati con attenzione: da un lato i messaggi si semplificano al massimo, perché si rivolgono a un uditorio misto, che non comprende solo i simpatizzanti di una certa parte politica ma una fetta di pubblico indifferenziato; dall’altro i politici che “tengono” desta l’attenzione dei telespettatori risultano essere non i più preparati o i più competenti su una certa materia ma quelli più inclini alla rissa, al battibecco, all’insulto o quelli che meglio sanno gestirsi dinanzi alle telecamere. Questa deriva è un portato del berlusconismo che ha impregnato di sé l’ultimo decennio della vita politica italiana e si sente profondamente, ormai, l’esigenza di un superamento del modello di politico-comunicatore massmediatico che è incarnato al meglio solo da chi, e cioè lo stesso Silvio Berlusconi, può permettersi di giocare in questo ruolo risultando autentico. Il ritorno al vecchio comizio, anche a destra, nonostante esista nel dna dei post-missini una tradizione oratoria che si rifà alla scuola almirantiana, non avrebbe senso. Nessuno infatti avverte più la politica come un orizzonte al quale accedere tramite diversi gradi di preparazione e formazione: il vezzeggiamento continuo della società civile ha abbassato al livello della gente comune contenuti e schemi del linguaggio politico. La metafora dell’uomo qualunque vale oggi per designare più gli eletti che gli elettori alieni da fanatismi ideologici.

Non vediamo all’orizzonte alternative degne di nota al comizio da una parte e al berlusconismo dall’altra, tuttavia vale la pena di segnalare l’iniziativa delle “lezioni politiche” di Walter Veltroni, che si sono risolte in un miscuglio di citazioni, bei sentimenti, giustapposizioni di personaggi diversi come Chaplin e Kennedy, Hannah Arendt e Goebbels fino a Platone passando per Pasolini e Gino Paoli, evocazioni della bella politica come passione e sentimento, il tutto accompagnato da filmati esemplificativi in omaggio alla cinemania del sindaco di Roma. Una formula che ha avuto un successo straordinario, forse più per la sua novità che per il nocciolo politico delle lezioni veltroniane. Sta di fatto che ciò conferma che Walter Veltroni è «l’unico ramo della dinastia di Botteghe Oscure dotato di futuro». L’osservazione è contenuta nel volume fresco di stampa di Andrea Romano, Compagni di scuola, nel quale si dipinge Veltroni fin dai tempi della Fgci come un politico eclettico, che ha imparato benissimo l’arte del riciclaggio di un patrimonio politico del quale era da subito poco convinto ponendo le premesse per l’attuale versione del Veltroni “new age” abilissimo «nel danzare intorno all’antipolitica con l’eterno annuncio di una fuoriuscita mai nemmeno accennata». Per l’autore Veltroni è un novello Don Lurio che si presenta sempre come il nuovo che avanza «senza segnare una rotta, trovarsi dei nemici, far capire cosa vuole davvero».

E in effetti anche le sue lezioni politiche hanno come unico tratto identitario rintracciabile quello di assecondare l’età dell’anti-politica, anche se nulla esclude che proprio da questo nuovo modello possa sorgere un altro tipo di linguaggio politico, magari non traducibile immediatamente in consenso elettorale, ma più consono a catalizzare le emozioni delle persone.

Del resto l’accenno, fatto da Veltroni nelle sue lezioni, ai comizi tenuti dai leader nazionalsocialisti e capaci di suscitare passioni collettive in misura maggiore rispetto all’astratta enunciazione delle teorie sulle lotte operaie, merita qualche riflessione aggiuntiva. Non sembra che il sindaco di Roma sia stato infatti particolarmente innovativo nella sua rielaborazione della “bella politica” come insieme di messaggi emotivi da sottoporre al cuore più che alle menti degli uditori. Vi è in questo tentativo, infatti, un richiamo evidente a Georges Sorel e alla sua teoria del mito politico come elemento fondativo di una comunità di destino.

Un’idea strettamente collegata al concetto di “educazione delle masse” che ha percorso tutta la storia del fascismo, riletta da Emilio Gentile come “liturgia” dell’armonico collettivo. «Il mito» affermava Benito Mussolina «è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio». Per il Duce, quindi, il mito serviva a «educare l’animo eternamente bambino delle masse». Nel suo richiamo alla politica non più “utile” ma “bella” (cioè capace di conciliare razionalità e sentimento) Veltroni si avvicina a grandi passi a questa concezione: non dispone di un mito fondativo, ma utilizza spezzoni di un immaginario mitico post-ideologico. L’intento pedagogico è dichiarato, l’ambizione di operare una sintesi tra conferenza, immagine e comizio pure. Ma quanto c’è di fascista, in fondo, in questa ennesima trasformazione del veltronismo?