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W il baccalà. Storie di ordinaria identità

di Nando Dicè - 17/03/2007


(Elaborazione grafica di Romano Guatta Caldini)


Nando Dicè, 36 anni , napoletano, architetto, appassionato di scacchi, soldato politico, militante meridionalista identitario,
per tutto quello che a Napoli meritava essere presente, Napoli mi ha visto presente. “Arruolato”, giovanissimo nel mondo della militanza antiliberista, devo alla ricerca del pensiero anticonformista, gran parte della “base” culturale.





Antefatto.

A Napoli è una “tradizione”, il “pane” dei poveri, l’onnipresenza pietanza, cucinata in ogni modo e maniera. Ed era lì, onnipresente, mentre si parlava sia dei “massimi sistemi” sia della Juve in serie B. Era lì a quel tavolo, proprio al centro.

Come erano belli quei discorsi sulle tradizioni dei popoli, sulle loro storie, e si, sempre più nei particolari; perché la mucca è un’animale sacro?, da dove nasce il Gange nelle tradizioni indù? Perché i soliti alcuni non mangiano il maiale? Come si chiama quel tipo di cucina religiosa dove se uno è di un’altra religione non può toccarti le pentole...? Cibo e tradizioni, ma una domanda rompe il tono “intellettuale”, una domanda.

E per noi? Cos’è questo cibo per noi? Per esempio questo vino che storia ha? E questo piatto di baccalà che significa per noi? Da dove viene…..? Già, da dove viene il baccalà a Napoli.?

Che significa? Perché lo stok-fisch (lo stocca fisso) non si pesca nel mediterraneo!?

No, non è un pesce dei nostri mari! No, è un pesce dei mari del nord. Del profondo nord.



La cronaca storica.

La storia del nostro baccalà non nasce nel mare, ma su un isola, un’isola che nacque dal nulla. Era ad ogni diritto che regola il mare, un’isola nostra, non dei mari del nord, ma del mare nostro, di noi napulitani, ma l’Inghilterra la volle, noi resistemmo, combattemmo, perdemmo ma non morimmo e l’Inghilterra per punirci, sentite che novità, ci fece l’embargo economico, un bel embargo in nome della loro libertà ad avere i nostri Zolfi. Si proprio come quelli che fece durante il fascismo, proprio come quelli fatti Cuba, Afganistan, Libia, Siria, Santo Domingo, Iraq ed Iran, “tali e quali”. Noi resistemmo, e grazie al baccalà, che era li sul quel tavolo, non morimmo subito, avemmo ancora il tempo, di fare almeno tre cose:

la Napoli Portici, alla faccia delle industrie di tutto il continente, che la storia dei vincitori dirà essere migliori delle nostre;

vedere quell’isola che dal nulla era venuta, come una beffa, nel nulla andare via;

sapere che il nome dell’ultimo assassino, forse inconsapevole, della nostra libertà si chiamava Giuseppe Maria, nato più o meno in Italia, e che se non avessero inventato il nazionalismo, forse di Marsala si sarebbe solo ubriacato su una nave corsara.
Questo lo sapemmo, visto che non c’erano ancora i cecchini dell’ “anonima omicidi” addetti al Killeraggio Economico + ekelon , internet , la borsa di Tokio e via cantando.

Maledetto progresso dei mezzi, sempre sproporzionato rispetto al progresso degli uomini.


Il fatto.

Vero, l’embargo c’era, ma la globalizazione ancora non c’era stata, anzi era troppo appena nata, quindi, non tutto il mondo viveva secondo uniche regole economiche, non tutto il mondo la pensava alla stessa maniera, non tutte le polpette schiacciate “sapevan e cartone” , ancora mezzo mondo non era stato svegliato dalle sirene, antiaeree o da Napal e Maradona non era ancora megli'o 'e Pelè.

Lo scontro era fra un sistema economico, dove più o meno, l’economia era al servizio dei popoli ed un altro sistema economico, dove più o meno, i popoli erano al servizio dell’economia.

Dal punto di vista economico si partiva ad armi pari.

La forza fece la differenza, la forza delle armi e degli equilibri geopolitici internazionali in aggiunta che i Borbone non si erano rincoglioniti del tutto con la droga massonica, non tutti i tele-palantir erano nelle nostre case e non tutti scioperavano di fame, per la fame nel mondo.

Resistemmo perché avemmo la forza, la forza di produrre a modo nostro, di vendere a modo nostro, di essere a modo nostro. Avemmo la forza di sostenere il nostro modello economico e con un’arma potentissima e segreta vincemmo, V2 la seta, qualità made in Sant Leucio, da non confondere con il made in Forcella del 1945, tutta un’altra storia..

Producemmo sete talmente belle e ricercate, che il loro sistema fece breccia, si aprì. Come quella di Porta Pia, si apri dall’interno. Vendemmo le sete alla Norvegia, la Norvegia le vendeva agli inglesi e alcuni inglesi lavorando per se stessi lavoravano per noi. Più o meno come fece il re d’Italia durante la 2° guerra mondiale, che finanziava l’industria bellica inglese detenendo azioni anche durante la guerra.
O come fece il Camillo Benz (si come la Mercedes) ragionier Cavour. Durante il cosiddetto risorgimento. Contro di noi meridionali sicuramente, ma anche contro i suoi poverissimi con-polentoni. I banchieri si sa, non hanno patria.

Ma a noi la Norvegia cosa dava? La Norvegia era povera, molto povera rispetto a noi, non poteva certo darci la Luna! Non c’era ancora neppure Hollywood. Certo se al posto dei borbone ci fossero stati i socialisti o Berlusconi, a noi Napulitani, non sarebbe comunque arrivato nulla, ma visto che c’erano altri al potere, e che, a quei tempi esistevano dei politici che ancora non era divenuti i “camerieri dei banchieri”, ed alcuni addirittura, credevano ancora nel senso del dovere e dello stato; allo stato arrivò l’oro, alle industrie il legno pregiato e, udite udite, a tutto il popolo il Baccalà. Il pane dei poveri, dirà qualcuno, ma del “pane” non “un milione di posti di lavoro”. Parole come quelle con cui dovevano “campare” chi quel pane non aveva. Leggasi il povero popolo piemontese che a fronte delle nostre sole 5 tasse dirette (da cui la Sicilia a volta era esclusa... ”sempre fortunati quelli del sud”) ne pagavano dalle 25 alle 32 più iva, inflazione e ritenuta d’acconto sui vivi fra dirette ed indirette ma anche sui morti, con l’invenzione della tassa di successione.
Leggasi i poveri popoli Irlandese e Scozzese, schiavizzati per amor di progresso, nelle miniere di carbone al grido deCurtiano "...solo veleno pascà, solo veleno..."


Epilogo.

ll baccalà ci ricorda. Ci ricorda che esisteva un’alternativa al sistema economico liberista.

Il baccalà ci mostra che vincemmo, che vincemmo spezzando l’embargo dei “liberatori” di ogni tempo.

Il baccalà ci dimostra, che si può ben amministrare, senza mettere tasse . Sui Morti, sui vivi, e oggi su quelli che dovranno nascere domani (e quelli perciò non nascono).

Il baccalà dimostra, dimostra che nulla è perduto, se non si crede d'aver perso

Il baccalà è un simbolo perché ci unisce alla nostra storia di popolo fiero, alla nostra memoria di capacità economiche ed imprenditoriali, alla nostra dignità di popolo sovrano, alla nostra buona cucina, alla nostra visione geopolitica, alla nostra identità di popolo. Il baccalà ci unisce ed è ancora lì, sul nostro tavolo a dispetto di ogni hamburgher e di ogni “fast food” è ancora lì, si vede, esiste, toccalo! Ora tocca a noi ricordare tutto quello che hanno cercato di farci dimenticare.


La morale.

Si parla di identità, perché la si sta perdendo. La si ricerca all’ossesso, come colui che avendo dimenticato il ricordo dell’acqua, d’istinto beve anche il veleno e ne muore. O non la si ricerca per niente, come se, non avendo neppure più l’istinto, ci si lasci morire disidratati.

Si perde l’identità perché la si rende una cosa astratta, lontana, un discorso da filosofi, persa di già, che è solo da cercare e mai da vivere. Ma essa è con noi, i nostri padri e i nostri figli, nelle nostre menti, nelle nostre scelte, e nelle scelte di quelli intorno a noi. Essa è quella sulle nostre cucine, nelle nostre lingue, nei nostri modi di pensare. E quel che mangiamo e beviamo. E' lì innanzi a noi, anzi è noi.

La si può scrutare ai colli romani, a Stonehenge o sulle rive del Gange, di sfuggita trovi la sua ombra in qualche libro, la vedi riflessa in una corrente di pensiero o in articolo dotto. Sbiadita è nel sacro. Ma c’è un solo modo per viverla…….

Chi vuole l’ultima fetta di baccalà?


Nando Dicè