Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / I cento giorni di Hezbollah

I cento giorni di Hezbollah

di Lorenzo Trombetta - 17/03/2007

 
Tutti contro il premier Siniora: il blocco di Beirut costa 1 miliardo di dollari al mese
Nastri colorati e striscioni pendono tristi dalle tende e dai pennoni del sit-in dell’opposizione libanese, guidata dal movimento sciita Hezbollah, che da mesi chiede le dimissioni del governo del premier sunnita Fuad Siniora. Altri pannelli-simbolo dell’opposizione si mischiano al fango lasciato a terra dalla pioggia degli ultimi giorni. In cima ai cantieri vicini, a decine gli operai siriani, impiegati a giornata dai caporali libanesi, lavorano alla costruzione di un centro residenziale di lusso, finanziato da una banca kuwaitiana, che presto sorgerà a Piazza dei Martiri, nel cuore di Beirut.

Sono le nove di mattina, ma il rumore dei martelli pneumatici dei cantieri ha già svegliato da tempo i «resistenti» della tendopoli: qualche centinaio di sostenitori del Partito di Dio e di militanti dell’altro movimento sciita, Amal, guidato dal presidente del Parlamento Nabih Berri, qualche decina di seguaci «arancioni» dell’ex generale cristiano-maronita Michel Aoun e un pugno di membri di formazioni minori.

Dei 5 mila «resistenti» dei primi giorni, oggi ne rimangono poco meno di un migliaio, dentro e fuori le tende, sopra le quali campeggia qualche bandierina del Libano. «L’opposizione è espressione della volontà di tutti i cittadini, al di là della loro appartenenza politica e religiosa», afferma Ahmad B., 19 anni, residente nella tendopoli. Ma le divisioni sono comunque ben evidenti: gli aounisti da una parte, gli sciiti di Hezbollah e Amal dall’altra.

Al centro dell’accampamento, circondato da barriere di filo spinato e blindati dell’esercito, si apre «la piazza mediatica», il centro televisivo dove la «sezione mobile» di al-Manar, l'emittente di Hezbollah, trasmette in diretta ogni mattina la propria tribuna politica con ospiti tutti rigorosamente dell'opposizione.«A quest’ora del giorno - spiega Husayn J., 28 anni, membro del servizio d'ordine del campo - il sit-in sembra senza vita, la maggior parte degli attivisti è al lavoro, a scuola o all’università. Solo nel pomeriggio le due piazze fanno sentire la loro voce contro quei fantocci corrotti che stanno lassù». Dopo poco più di 100 giorni di permanenza, l’opposizione resiste con le proprie tende, ma anche il governo Siniora resiste. «La crisi finirà presto, prima del vertice della Lega Araba (previsto in Arabia Saudita il 28 marzo, ndr)», ha assicurato Nabih Berri. «Noi da qui ce ne andremo solo quando Siniora si sarà dimesso», ribatte però uno degli attivisti del sit-in. Le chiavi della crisi libanese, anche questa volta, non sono solo a Beirut ma soprattutto all'estero: la Siria e i suoi clienti locali chiedono di non esser coinvolti nell’inchiesta sull'omicidio Hariri, mentre la maggioranza antisiriana al governo, guidata da Saad Hariri, figlio ed erede politico dell’ex premier assassinato, preme perché sia formato quanto prima il tribunale che dovrà giudicare i responsabili dell’attentato.

Su questo nodo si sono fino ad oggi concentrati gli sforzi delle cancellerie della regione, di Washington e di Parigi, e c’è chi giura che, dopo le recenti aperture di Stati Uniti e Unione Europea alla Siria, un compromesso sarà presto trovato. Lo sperano i commercianti del centro di Beirut, gli unici a non aver resistito fino a oggi: proprietari dei ristoranti e dei caffè delle vie attorno al sit-in. Qui si aprono le porte del Parlamento, ma anche quelle della chiesa ortodossa di San Giorgio e quelle della moschea Assaf. Qui, tra i tavolini dei locali affluivano, fino alla primavera 2006, migliaia di turisti dei paesi del Golfo. E se la guerra con Israele dell’estate scorsa è costata al Libano circa 611 milioni di dollari, il sit-in dell’opposizione ha inflitto perdite per 34 milioni di dollari al giorno, con 70 attività commerciali che hanno già chiuso, temporaneamente o definitivamente, mentre 2 mila lavoratori, su un totale di 3.500, sono oggi disoccupati.

In attesa di una svolta, con la piazza Riad as-Solh che verso sera si riempie di qualche centinaio di manifestanti venuti a sentire i comizi del giorno, i ragazzi del sit-in preparano i loro narghilé, le chitarre e il tè per «resistere», ancora un'altra notte, all’impasse politico.