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Jean Baudrillard

di Franco Volpi - 19/03/2007



Era uno degli ultimi maitres-a'-penser ancora lucidi e attivi della
generazione intellettuale postsartriana, pronto a intervenire nelle
questioni piu' scottanti dell'attualita'. In presenza di un fenomeno nuovo
da interpretare, quando scoppiava un caso, se sopraggiungeva qualcosa di
straordinario, un fatto o un evento di fronte a cui l'intelligibilita'
assicurata dalle normali categorie dell'analisi sociale vacillava,
Baudrillard era tra i primi a prendere la parola e ad arrischiare una
lettura, un'ipotesi, un'interpretazione.
Germanista di formazione, aveva trascorso qualche anno in Germania
dedicandosi tra l'altro alla traduzione in francese di testi di Hoelderlin,
Peter Weiss e Bertold Brecht. Tornato in Francia, nel 1966 era stato
chiamato da Henri Lefebvre come suo assistente all'universita' di
Paris-Nanterre, avvolta in clima surriscaldato per il montare della protesta
studentesca e l'affermarsi della rivoluzione sessantottina. La sua tesi di
dottorato, Le systeme des objets, e' lavoro sociologico a suo modo geniale e
innovativo, ma eccentrico rispetto ai canoni della disciplina e
insufficiente ad aprirgli la carriera universitaria.
Dopo un periodo passato a insegnare tedesco nelle scuole, Baudrillard fu
nominato docente di sociologia, acquistando carisma e autorevolezza, ed
essendo invitato a tenere lezioni e conferenze nelle principali universita'
europee e americane. Ma dovettero trascorrere ben due decenni prima che nel
1987 la sua these d'etat, con cui divenne professore a pieno titolo, fosse
accettata e presentata da Georges Balandier alla Sorbona. Fu un
riconoscimento tardivo, che non gli forni' il motivo per impegnarsi nella
vita accademica bensi' il pretesto per allontanarsene definitivamente e
dedicarsi alla propria attivita' di libero scrittore e analista, dirigendo
tra l'altro la rivista "Traverse".
I suoi saggi - incisivi e strutturati i primi, poi sempre piu' fulminanti e
istantanei, ma di corto respiro e a volte di una dogmatica vaghezza - hanno
comunque segnato in modo profondo la vita intellettuale contemporanea e la
rappresentazione culturale del nostro tempo. Penso per esempio a L'echange
symbolique et la mort, uscito nel 1976, che analizza il sistema dei segni,
la loro funzione sociale, il loro inesausto e infinito richiamarsi in un
vuoto e inane rispecchiamento di valori simbolici che risucchiano e
consumano le cose. Con la nascita dell'illusione di uno scambio simbolico
infinito, in cui i segni fagocitano e dissolvono le realta' significate,
ormai incapaci di resistere all'urto dell'onda irreale. E in cui il discorso
diventa, anziche' la tematizzazione di un referente oggettivo, un satellite
dell'immaginario.
Passando in rassegna fenomeni che si impongono con "oscena evidenza", come
la moda o lo sfruttamento dei corpi nella pubblicita', Baudrillard si erge a
lungimirante analista di un mondo, quello postmoderno, o "post-istorico"
come preferiva dire (L'illusion de la fin, 1992), che presto sarebbe stato
permeato dal virtuale, e in cui gia' lui vedeva prevalere e dominare
l'irrealta' sulla realta', cioe' la parvenza e i simulacri sulle cose. Solo
la morte - sosteneva allora - potrebbe offrire un arresto alla
espropriazione e alla perdita di senso che ha luogo nella circolazione
dell'irreale senza senso, duplicabile, riproducibile ed espandibile
all'infinito.
Questo spiraglio di senso, che sarebbe stata la morte, veniva
definitivamente chiuso in un altro suo celebre lavoro: Les strategies
fatales, apparso nel 1983. L'accelerazione dei processi sociali di scambio e
di circolazione dell'irreale e' qui dichiarata ormai un processo
inarrestabile, ingovernabile, fatale. Alimentata dai meccanismi del
desiderio, della seduzione e del consumo, in cui i soggetti diventano pedine
impotenti di un gioco sistemico che non solo non riescono piu' a governare,
ma da cui sono inesorabilmente governati, l'irrealta', cioe' la virtualita',
dilaga in modo incontenibile e incontrollabile. Senza la possibilita' di
congetturare ne' un happy end ne' qualcosa come un buco nero sociale in cui
l'ordine attuale imploda.
Tanto piu' sorprendente e' stato percio' il suo instancabile stare a ridosso
del Nuovo che emergeva, offrendo scorci, spunti, intuizioni e analisi, che
solo in apparenza si presentavano come disparate o perfino svogliate, ma che
in realta' testimoniano di un impegno costante, diventato uno stile di vita
e di pensiero.
Ma che fare? Anzi, che dire? Quale prassi e quale teoria sono praticabili di
fronte all'odierno spettacolo della societa' globalizzata e informatizzata?
Di fronte all'evaporare e al dissolversi sempre piu' evidenti del reale nel
virtuale? Negli ultimi tempi - diciamo a partire dal brevissimo ma
folgorante Amerique (1986) per arrivare alla sequela delle Cool Memories
(I-V, 1980-2005) - Baudrillard aveva preferito come strategia di analisi il
diario, il racconto del proprio transitare di esperienza in esperienza, di
osservazione in osservazione. Forse per un vezzo letterario, in cui il
rigore dell'analisi inclina e si piega all'estetica della scrittura. O forse
perche' l'unico modo per attraversare la nostra realta' ormai refrattaria a
ogni tentativo di trasformazione consapevole e guidata, e perfino a ogni
speranza di senso e di intelligibilita', e' il "puro viaggiare". Il semplice
stare a guardare e scrutare, senza pretendere di giudicare e tanto meno di
discriminare il Bene dal Male, come Baudrillard scrisse con coraggio dopo
l'11 settembre (L'esprit du terrorisme, 2002). Il puro osservare, il
semplice posarsi dell'occhio sulle cose, per prendere parte al Nuovo e
fruirne. Senza nostalgie ne' rimpianti per il passato lasciato alle spalle e
definitivamente trascorso, senza speranze per il futuro che incombe.
C'e' qualcosa che possiamo dire di avere imparato da tale controverso
maestro cui e' stato dedicato perfino un "Cahier de l'Herne" (2005), tanto
intuitivo e preveggente quanto vago e volatile? Certo, almeno questo: che
quando le cose sono soltanto quello che sembrano, presto ci sembreranno
essere ancor meno. E che in un mondo del genere non ci rimane che essere
indifferenti senza cinismo e appassionati senza entusiasmo.