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Ritorno al Po. Centochiodi: l'ultimo film scritto e diretto da Ermanno Olmi

di Luigi Vaccari - 19/03/2007

«C’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri. La parola scritta può anche dire solide verità. Ma la sostanza di un gesto, di un atto compiuto, vale più di qualsiasi sostantivo impresso in una pagina»


 

«A volte, basta poco per confonderci e ingannare anche noi stessi. Nell’Antico Testamento, lo stesso popolo eletto, proprio mentre Mosè sul Monte Sinai raccoglieva da Dio i suoi dieci comandamenti, durante l’attesa si è lasciato distrarre e ha cominciato ad adorare il vitello d’oro. È facile farci un dio di comodo
e arrivare persino a massacrare i più deboli proclamando: "Dio è con noi!"»

Esce nelle sale, venerdì 30, Centochiodi: l'ultimo film scritto e diretto da Ermanno Olmi (Bergamo, 1931), «singolare e grande creazione poetica», scrive Claudio Magris nel libro pubblicato (con lo stesso titolo) da Federico Motta editore. Che contiene fra l'altro una dotta, profonda conversazione fra monsignor Gianfranco Ravasi e il regista, nonché una esauriente intervista di Maurizio Porro al protagonista Raz Degan. Musiche originali di Fabio Vacchi, direttore della fotografia Fabio Olmi, il film è una coproduzione cinema 11 e Rai cinema, prodotto da Luigi Musini e Roberto Cicutto, ed è stato realizzato con il contributo del ministero per i Beni e le attività culturali.
In breve. Un giovane, ma già affermato professore di filosofia della religione, in crisi esistenziale, mistica e morale, abbandona la cattedra, all'ateneo di Bologna, per riscoprire la natura e cercare, nella libertà individuale, le risposte ad alcune domande. Lascia anche la città e va a vivere in un vecchio casolare sulle rive del Po, dove nasce un'intesa spirituale con la gente del luogo. Il passaggio alla vita nuova è suggellato dalla scena in cui crocifigge le pagine dei testi religiosi più prestigiosi dell'antica e preziosa biblioteca universitaria, sulle pareti di un'aula della facoltà in cui insegna.
«Ma pur necessari, i libri non parlano da soli» è una riflessione di Raymond Klibansky che hai scelto per introdurre il film. Non temi che la loro crocifissione, un gesto impressionante e provocatorio, possa essere letta come una dissacrazione della cultura non solo cristiana?
«Ma quale cultura? Quella dei libri o quella del vissuto? La cultura dei libri, ossia della parola scritta, ha come principale, quasi esclusivo riferimento, l'accademia che è sempre stata àmbito di pochi privilegiati. La comunità umana è ancora distinta in due categorie: quelli che prevalentemente apprendono conoscenza della vita attraverso i libri e gli altri, quelli che la vita la imparano vivendo. Sino al secolo s corso, per la quasi totalità di analfabeti, l'apprendimento era direttamente collegato al fare per campare: e dalla vita vissuta sedimentava esperienze che hanno originato, attraverso i secoli, la sapienza della cultura popolare. Mi chiedi se l'inchiodatura dei libri che mostro nel film può sembrare dissacrazione della cultura accademica e anche religiosa. Posso rispondere che troppo spesso proprio certa cultura mal intesa e le religioni stesse hanno profanato la sacralità della vita umana».
Quali oltraggi, più inaccettabili di altri, ti vengono in mente?
«Le ignobili offese recate ai bambini, agli innocenti. E non solo la fame».
Nell'ultima lezione, prima della pausa estiva, il trentottenne docente congeda i suoi allievi con queste parole: «Viviamo in un mondo dove ogni azione si converte in profitto, tutto viene fatto in vista di un guadagno; in un'epoca in cui la stessa vita è una mascherata e la felicità di vivere è falsa come l'arte che la esprime». Perduta la genuinità, «è forse la follia la soluzione per la nostra esistenza»?
«Ho ripreso un pensiero di Karl Jaspers che, dopo 50 anni, mi pare del tutto corrispondente al nostro presente. E nelle situazioni di maggior ambiguità per decadenza etica e civile - come si avverte in questo nostro tempo di grandi cambiamenti strutturali e morali - occorre uno slancio propositivo di grande coraggio, che può apparire persino folle tanto è la portata innovativa. Certo: come già accaduto con grandi figure storiche. Come è stato con il Cristo uomo. Meglio ancora, l'Uomo Cristo».
Immediatamente dopo, parlando con un'allieva indiana, il professore le dice: «C'è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri». La parola scritta mente? Per parlare della vita e capire il mondo bisogna tornare nel mondo?
«La parola scritta può anche dire solide verità. Ma la sostanza di un gesto, di un atto compiuto, vale più di qualsiasi sostantivo impresso in una pagina. Prova a domandarlo a qualsiasi innamorato. Ins isto: la parola può evocare la vita, ma solo la vita è viva».
Ma il mondo non si è irreparabilmente infettato? «… se c'è un'epidemia la situazione sfugge di mano…», hai recentemente osservato. Il mondo, dopo aver offeso e violato anche la natura, non sta precipitando verso l'autodistruzione?
«Sì, mentre è in atto una pestilenza, come nello sconvolgimento di una burrasca, non c'è più il controllo della rotta da seguire. La metafora può essere riferita a burrasche di comportamenti umani dove la rotta della ragione ha perduto il suo orientamento tanto da giungere a confondere bene, male, vita, morte».
Cito dal film: «Bisogna che ognuno torni a nascere… chi rinasce nell'amore crede in ogni cosa che il suo occhio vede». È ancora possibile una rinascita nell'amore? In che modo i puri di cuore e i semplici possono opporsi al conformismo omologato, agli orrori che schiacciano il Pianeta?
«Appunto: rinascendo. Ogni mattino, quando ci presentiamo dinnanzi al nuovo giorno, è una buona occasione per rinascere. Pensa per una intera esistenza quante ne abbiamo a nostra disposizione».
Ma, spesso, le lasciamo cadere. E, irrimediabilmente, le perdiamo. Per sbadataggine? Per superficialità? O perché ci pieghiamo alla rassegnazione?
«Ho letto su un giornale la risposta che una ragazzina araba dà a un giornalista che la interpella sulla tragedia del vivere in uno stato di guerra in cui vive. Dice: "…Odiare è facile, amare è difficile. Bisogna essere forti". È questo il punto che ci riguarda: bisogna, dovremmo provare a essere forti. È una sfida che ci viene proposta a ogni nuovo giorno della nostra vita».
«…Sera dopo sera, venne l'autunno, e poi l'inverno, ma di quel tipo che chiamavano Gesù Cristo non si seppe più nulla…». Dov'è finito «Dio, il massacratore dell'umanità», che, «il giorno del giudizio dovrà, Lui, rendere conto» di tante sofferenze, come urlano le parole del docente?
«A questa domanda si può rispondere in un solo modo e - scusami - con un'altra domanda che ognuno deve rivolgere a se stesso: quale dio abbiamo adorato?».
Te la sei rivolta, scrivendo questa storia?
«A volte, basta poco per confonderci e ingannare anche noi stessi. Nell'Antico Testamento, lo stesso popolo eletto, proprio mentre Mosè sul Monte Sinai raccoglieva da Dio i suoi dieci comandamenti, durante l'attesa si è lasciato distrarre e ha cominciato ad adorare il vitello d'oro. È facile farci un dio di comodo e arrivare persino a massacrare i più deboli proclamando: "Dio è con noi!"».
Se guardi all'esterno, quale adorazione hai l'impressione che prevalga?
«Quella delle lotterie. Ogni giorno, la conclusione della nostra quotidiana esistenza si chiude con una (quasi) generale preghiera: "…Signore Iddio… (o signora Fortuna o Sorte benevola)… fammi vincere un mucchio di soldi alla lotteria!". Ce n'è per tutti».
Che cosa replicheresti a chi scorgesse nel tuo professore un nuovo messia?
«Che il professorino del film possa essere un nuovo messia? Quello che io conosco col nome di Cristo mi basta. Tuttavia, ciascuno di noi può vivere in modo da farcelo ricordare: anche solo per qualche minuto atto di sincera solidarietà. E di genuina semplicità; come gli umili abitatori delle rive del fiume. Che va lontano».
Riassumendo e concludendo, che cosa ambisce a essere «Centochiodi»?
«Un congedo».