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Il libro della settimana: Erasmiani. Gl intellettuali alla prova del totalitarismo

di Carlo Gambescia - 22/03/2007

Il libro della settimana: Erasmiani. Gl intellettuali alla prova del totalitarismo, Laterza 2007, pp. 244, euro 15,00

Se ci si passa la battuta, anche i libri, come le ciambelle, non sempre riescono col buco… Anche se a scriverli sono famosi intellettuali liberali come Ralf Dahrendorf. Sociologo e filosofo, nato nel 1929 in Germania, già direttore della London School of Economics, oggi cittadino britannico e membro della Camera dei Lord. Ha scritto libri molto importanti come Classi e conflitto di classe nella società industriale, un testo sul quale si sono formate intere generazioni di sociologi. Ma quale sarebbe il libro non riuscito? L’ultimo nato: Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo (Editori Laterza 2007, pp. 244, euro 15,00). E per quale ragione? Perché Dahrendorf individua un liberalismo, come dire, ragionevole, ma in realtà, come vedremo, troppo debole sul piano politico. Che alla sfida dei totalitarismi novecenteschi, avrebbe risposto, non con l’impegno politico, ma con l’esilio interno o esterno. In particolare, Dahrendorf esamina, una generazione di “intellettuali pubblici”, nata tra il 1900 e il 1910, dove spiccano i nomi di Karl Popper, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, Hannah Arendt. Studiosi, che così facendo, avrebbero evitato di cadere vittime della tentazione totalitaria, a destra come a sinistra: salvando e preservando l’anima per la ricostruzione. Di qui la qualifica di “erasmiani”. Perché proprio come Erasmo, anche questi intellettuali, amanti della libertà, avrebbero preferito all’impegno attivo, a fianco di Lutero (o attualizzando, dell’antifascismo e dell’anticomunismo militante), il ritiro tra gli amati libri, o al massimo, un blando impegno culturale. Da lontano e in attesa di tempi migliori.
Per ragioni di spazio, abbiamo ricordato solo i più importanti. Dal momento che nel libro, tra gli erasmiani, compaiono anche Theodor W. Adorno, Arthur Koestler, Golo Mann, George Orwell, John Kenneth Galbraith, e altri ancora. Addirittura, in fondo al libro, c’è una tabella con i 25 nomi degli intellettuali (generazione 1900-1910), appartenenti, idealmente, alla “societas erasmiana”.
Due i punti deboli del libro.
In primo luogo, il concetto di “intellettuale erasmiano”, per quanto intrigante, è piuttosto labile. Sociologicamente parlando, gli intellettuali citati, sono troppo diversi tra di loro : non è sufficiente essere professore universitario per godere automaticamente dell’etichetta di erasmiano. Inoltre, alcuni studiosi, come Adorno e Bobbio, per dirla tutta, hanno flirtato con la “tentazione totalitaria”. Anche su Aron qualche chiacchiera c’è stata… Ma c’è dell’altro: non tutti possono essere definiti liberali di sinistra, così come piacerebbe a Dahrendorf. Di qui, guarda caso, le sue critiche all’idea di libertà negativa, prudentemente conservatrice, teorizzata dall’erasmiano Berlin. Risulta poi priva di qualsiasi fondamento politico e politologico, l’idea di raggruppare l’intellettuale erasmiano, in base a categorie morali: quelle di coraggio, giustizia, moderazione e saggezza. Non sempre, a dire il vero, tutte possedute - come si evince persino dalla lettura del libro - dagli intellettuali presi a modello. Il che genera, man mano che si procede nella lettura, sconcerto e confusione.
In secondo luogo, nonostante Dahrendorf, sia tuttora considerato uno dei padri della moderna teoria del conflitto sociale (anche come punto di partenza della socialità umana), nel libro si guarda bene dall’applicarla. Insomma, quel che vale per il resto della società, non varrebbe per l’intellettuale erasmiano. Se le società per progredire, non possono non fondarsi creativamente sui conflitti sociali, non si capisce perché solo il liberale erasmiano, debba sottrarsi, e costitutivamente, al conflitto politico. Per dedicarsi solo allo studio… E qui, per capire bene il vicolo cieco in cui finisce Dahrendorf, è necessario ricordare un aneddoto, che riguarda Julien Freund, un grande realista liberale. Nel 1965 durante la discussione della sua tesi di dottorato, consacrata all’ Essence du politique, uno dei commissari presenti, Jean Hyppolite, studioso di Hegel e Marx, fece notare a Freund, che se la sua tesi sulla natura polemologica del politico, ripresa da Schmitt, e fondata appunto sulla distinzione amico-nemico, si fosse rivelata esatta, a un fervente pacifista come lui, sarebbe rimasta, come sola via di fuga, il giardinaggio. La riposta di Freund fu bruciante: Hyppolite non avrebbe potuto dedicarsi neanche ai suoi fiori, perché il nemico non glielo avrebbe permesso. A sua volta, Hyppolite replicò che allora non gli sarebbe rimasto che il suicidio… Dando così una risposta patetica che evidenziava, ed evidenzia, la natura nichilista e irrazionale del moralismo pacifista, non meno distruttiva, per l’individuo, della guerra. In realtà, il grande valore dell’osservazione di Freund, è nel fatto che illumina una verità “effettuale” che rende patetico il moralismo erasmiano : la benevolenza non sopprime il nemico, dal momento che è il nemico stesso che ci designa come suoi nemici mortali. E, al quel punto, la fuga e il ritiro verso le alte vette della meditazione intellettuale, è perfettamente inutile.
Del resto, se altri intellettuali, a differenza degli erasmiani, non avessero deciso di impegnarsi in prima linea, e concretamente, oggi probabilmente non saremmo qui a discutere di Erasmo. Ad esempio lo stesso Freund, pur rimanendone dopo deluso, si impegnò attivamente nella resistenza francese, rischiando di essere scoperto e fucilato.
Pertanto testimoniare non basta.