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Home / Articoli / La foresta insanguinata e il corpo senz'anima. Riflessione su Ambrose Gwinnett Bierce

La foresta insanguinata e il corpo senz'anima. Riflessione su Ambrose Gwinnett Bierce

di Francesco Lamendola - 22/03/2007

 

 

Ambrose Gwinnett Bierce nasce a Meigs County, nell'Ohio, nel 1842 e muore o, comunque, scompare, in Mesico nel 1914. Combatte volontario nella guerra di secessione, guadagnandosi sul campo i gradi di maggiore dell'esercito nordista.  Nel 1866 si trasferisce in California, dove comincia a farsi notare come giornalista e come autore di racconti brevi. Dopo essersi sposato con Molly Day, figlia di un proprietario di miniere, parte nel 1872 per l'Europa e soggiorna in Gran Bretagna fino al 1876. In questo perido pubblica tre volumi di racconti: Il gaudio del diavolo  e Pepite e polvere scodellate dalle casseruole californiane (1872) e Ragnatele staccate da un cranio vuoto (1874), che gli valgono l'appellativo di bitter Bierce, "l'amaro Bierce", per il loro tono pessimistico e irriverente. Tuttavia, nonostante il successo di scandalo, non riesce a sfondare e decide di interrompere il soggiorno in Inghilterra. Rientrato in America, si stabilisce a San Francisco e raggiunge grande fama come giornalista e polemista, divenendo il più temuto  critico letterario della costa occidentale e un fondamentale punto di riferimento per il mondo della politica californiana. Passano diversi anni prima che si cimenti nella stesura dei libri che lo hanno reso famoso come scrittore: Racconti di civili e borghesi nel 1891 (pubblicato poi in Gran Bretagna con il titolo Nel mezzo della vita); Scarafaggi nell'ambra (poesie) nel 1892; Possono accadere cose simili? nel 1893; Racconti fantastici nel 1899; Il vocabolario del cinico nel 1906 (ripubblicato con il titolo Dizionario del diavolo nel 1911). Settantenne, nel 1914 si reca in Messico per partecipare alla rivoluzione di Pancho Villa, e se ne perdono le tracce: sparisce come un personaggio dei suoi racconti del terrore.

La sua fama è ancor oggi legata ai racconti "neri", pervasi da una vena di disperato cinismo, solo in parte dei quali compare l'elemento soprannaturale, ma che sono comunque considerati, nel loro genere, tra i migliori della letteratura anglo-americana dopo Edgar Allan Poe, dalla cui lezione egli comunque si distacca. Mentre Poe, infatti, aveva concentrato l'attenzione sui meccanismi psicologici dei suoi personaggi, Bierce si concentra sul clima di orrore in se stesso, sul fatalismo e sulla mancanza di libero arbitrio che muovono i suoi personaggi verso la catastrofe finale, non compensata da alcun insegnamento morale, da alcuna lezione di vita. Da questo punto di vista, Bierce è stato il primo - e il più grande - degli scrittori americani che hanno trattato la letteratura del terrore senza seguire le orme di Poe, e precorre i racconti di un altro grande solitario della generazione successiva: H. P. Lovecraft, l'ossessionato di Providence. Tra i racconti più noti e  significativi di Bierce ricordiamo: La veglia al morto; Il serpente; La cosa maledetta; La famosa eredità di Gilson; In un cimitero; Gli occhi della pantera; Il rampicante sulla casa; La valle degli spiriti; Di sentinella; Il colpo di grazia; La strada illuminata dalla luna; La finestra sbarrata; Oltre il muro; La casa dello spettro; Il regno dell'irreale; Un'avventura a Brownville; Un cittadino di Carcosa; Ritorno al passato; L'Isola dei Pini; Battaglia.

Scrive Carlo Izzo: "[I racconti di Bierce] si distinguono per un carattere pressoché costantemente truce, che riporta a Charles Brockden Brown e a E. A. Poe, e pe rla maestria con la quale l'autore riesce a tenere nascosta nella manica, sin quasi alle ultime parole, la sorpresa finale. Apparizioni di spettri, figli che uccidono i padri, delitti perfetti, moribondi divorati a mezzo da maiali che scorrazzano nel terreno dove è avvenuta una battaglia: tutti gli orrori e le situazioni più angosciose vengono accumulati in queste narrazioni, per lo più di guerra, ma non meno raccapriccianti anche quando si tratti di episodi di vita borghese." (1)

 

"LA MORTE DI HALPIN FRAYSER".

 

 Il più notevole di tutti, però, dal punto di vista dell'orrore, è a giudizio di molti La morte di Halphin Frayser, di cui ci occuperemo in maniera particolare. Esso è preceduto (come Un cittadino di Carcosa) da una inquietante citazione di un misterioso Hali, per il quale si è pensato al poeta e critico musulmano dell'India, che scrisse le sue opere in ligua urdu, Hali Altâf Husain (1837-1914), contemporaneo del Bierce. Ma, a parte il fatto che entrambe le citazioni di "Hali" sono, in Bierce, velate da una patina d'indefinibile antichità, ci sembra evidente che lo scrittore americano ha voluto creare un personaggio letterario cui attribuire un'antica saggezza dimenticata; e come tale lo recepì anche lo scrittore Robert W. Chambers che, nel suo Re in giallo (King in Yellow), nomina la città fantasma di Carcosa e il misterioso "lago di Hali".

La citazione che precede La morte di Halpin Frayser suona così: "Poi che la morte induce il più grande dei mutamenti. E se accade talvolta che il rimosso spirito in alcune circostanze ritorni e sia visto da chi ancora abita la carne (apparendo nella forma del corpo da cui era rivestito), altresì avviene che il nudo corpo, privo di spirito, cammini. Ed è attestato da quanti, dopo aver incontrato taluno d'essi, son vissuti per parlarne, che tali risorte sanguisughe non nutrono più alcun naturale affetto, né ricordo: ma solamente odio. Vieppiù, è noto come taluno spirito, che in vita fu benevolo, in morte diventi oltremodo malvagio."

 

IL SOGGETTO.

 

    In una cupa notte di mezza estate Halpin Frayser, che giace addormentato sul terreno nel fitto di un bosco, si sveglia di colpo pronunziando un nome di donna: Catherine Larue. La cosa strana è che quel nome non gli dice nulla, poiché appartiene a una perfetta sconosciuta. Subito dopo si riaddormenta, e il suo sonno si popola si sogni paurosi.

     Gli sembra di percorrere una strada interminabile fra gli alberi e, giunto a un bivio, di imboccare senza esitazione il sentiero sbagliato. Mano a mano che procede, ode bisbigli e sussurri in una lingua sconosciuta, finchè, al tramonto, si accorge che tutto il bosco è orribilmente insanguinato. Sangue sulle foglie, sui tronchi, sulla sabbia: sangue dappertutto.

     Halpin Frayser è invaso da un’angoscia crescente ed insopportabile, tuttavia, prima di arrendersi, compie un supremo sforzo di volontà e decide di fare appello agli spiriti benigni che forse, accanto a quelli maligni, popolano quel luogo. Con un ramoscello intinto in una pozzanghera di sangue, come colto da una ispirazione egli verga con ritmo febbrile le pagine d’un taccuino. Mentre sta scrivendo, l’eco di una risata paurosa erompe dal buio, si avvicina come una presenza malvagia, finchè una figura appare dinnanzi all’uomo, che smette di colpo di scrivere: quella di sua madre. Ma negli occhi di lei non splende la luce di alcun sentimento: è soltanto un corpo senz’anima. Con un balzo, la donna gli è addosso e le sue dita stringono con forza sovrumana il collo del figlio. Dopo una lotta disperata, Halpin Frayser sogna d’essere morto.

 

    Egli era nato trentadue anni prima a Nashville, nel Tennesse, da una famiglia della migliore aristocrazia sudista. Fin da piccolo aveva rivelato un’indole romantica e sognatrice, ereditata dal nonno materno Myron Bayne, un poeta abbastanza famoso dell’epoca coloniale, e dalla madre stessa, una bella donna assai lontana dallo spirito pratico del marito. Fra lei e il figlio, che la chiamava da sempre Kathy, si era stabilito un profondo legame affettivo, che era andato crescendo con gli anni e che li faceva scambiare sovente per due innamorati.

    Ormai adulto, Halpin dovette un giorno partire per certi affari in California; a San Francisco fu “sanghaiato”, cioè arruolato con la violenza su una nave diretta in Oriente. Questa, poi, aveva fatto naufragio, e solo dopo sei anni egli era stato salvato su di un’isola del Pacifico e riportato a San Francisco. In attesa di ricevere notizie da casa, aveva vissuto per qualche tempo a St. Helena, e nel corso di una battuta di caccia si era smarrito nel bosco, di notte, e si era addormentato.

 

      Il mattino seguente una strana nube fu vista sopra il monte St. Helena. Due uomini, che stavano salendo attraverso il bosco sgocciolante d’umidità, si trovarono avvolti nella nebbia. Erano Jaralson, vice-sceriffo di Napa, e un investigatore suo amico, Holker. Andavano a caccia di un assassino latitante, un certo Branscom o Pardee o qualcosa di simile, che aveva tagliato la gola alla moglie e si era poi dato alla macchia. Jaralson lo aveva scoperto che si nascondeva in un vecchio cimitero, e adesso, con l’aiuto dell’amico, voleva arrestarlo.

       Ma, giunti nel cimitero, trovarono invece il cadavere di uno sconosciuto, gli occhi sbarrati a dismisura, il collo segnato dalla stretta di mani implacabili. Un taccuino lì accanto lo identificava come Halpin Frayser, e su di esso erano vergati dei versi che a Jaralson ricordarono lo stile del vecchio poeta Myron Bayne. Esaminando il terreno, i due uomini scoprirono che il corpo giaceva sopra la tomba di una donna di nome Catherine Larue. Allora, Holker si ricordò di aver già udito quel nome: era il vero nome del ricercato, e la moglie – una vedova arrivata in California per trovare dei parenti, si chiamava Frayser.

        In quel momento si udì una risata non umana, simile al grido della iena, uscire dal bosco ed echeggiare fra le piante, ghiacciando il sangue nelle vene ai due uomini. Essa si spense poi di colpo, senza gioia, e fu seguita da un silenzio che pareva fuori del tempo. (2)

 

LO STILE E I CONTENUTI.

 

     Nella Literary History of theUnited States  di Robert E. Spiller viene giustamente messa in risalto la relazione esistente fra il naturalismo dello stile di Bierce (3) e la dimensione fantastica dei suoi racconti “neri”: un naturalismo secco e disincantato, alla Stephen Crane, che ottiene l’effetto di rendere credibili fin nei dettagli le storie del terrrore.

     “Peculiarly haunting is ‘The Death of Halpin Frayser’ with its interpolation of Bierce’s own recurrent dream, its Kafkaesque nightmare of the poet lost in the wood, its Freudian realization of the dominance of the sexual element in all relations of life.” (4)

 

    Infatti, il fascino strano e inquietante del racconto, a nostro giudizio il più riuscito artisticamente fra quanti scritti dal Bierce, consiste proprio in questa commistione di elementi onirici autobiografici e di reminiscenze poetiche (dal Gordon Pym di E. A. Poe a certi racconti di Washington Irving), mirabilmente fusi e armonizzati, E, più ancora, nell’anticipazione – che ha del prodigioso -  di spunti psicologici che solo alcuni decenni dopo la cultura occidentale (qui siamo alla fine dell’Ottocento) avrebbe acquisito stabilmente. Il tema della incomprensibilità del reale, dominato da forze oscure, maligne e imperscrutabili, è uno di essi; la sua simbolizzazione nella scena del poeta che vaga di notte in un bosco insanguinato è un vero e proprio pezzo di bravura, reso ancor più efficace dall’assenza di qualunque sbavatura stilistica neoromantica.

    Il tema delle relazioni sessuali inconsce è un’altra intuizione largamente anticipatrice sulla cultura del tempo (e specialmente nella puritana società americana fin de siécle (5). A proposito del rapporto esistente fra Halpin e sua madre, Bierce osserva: “In quelle due nature romantiche si manifestava fortemente un fenomeno di cui allora non si teneva alcun conto, e cioè dell’elemento sessuale dominante in tutti i rapporti umani.”(6)

       Un altro tema ricorrente, e più singolare per i conoscitori di Bierce, è quello della presenza misteriosa degli spiriti nella vita dei mortali: spiriti buoni (soltanto immaginati) e malvagi, capaci d’incarnarsi  nei corpi e talvolta – e qui sta il colpo d’ala  del genio – di non incarnarsi in un corpo, il quale vaga così privo di anima. E quel corpo malvagio, spietato, appartiene proprio alla madre del protagonista, ch’egli aveva adorata in vita! Ma – avverte Bierce nell’introduzione al racconto – “si sa che certi spiriti benigni in vita, sono divenuti maligni dopo la morte.” (7)

       Nel caso specifico di Catherine Frayser, senza troppo scomodare Freud e il complesso di Edipo, si potrebbe pensare che il “ritorno” del suo corpo privo di anima, simile a un mostro meccanico o a uno zombi del Voodoo, sia mosso da un desiderio di vendetta, da una volontà di “punire” il figlio che, partendo dalla casa dei genitori per motivi di lavoro (anche se non poteva prevedere che la sua assenza sarebbe durata ben sei anni) ha “abbandonato” la madre o, per dir meglio, l’ha “tradita” – anche se non con un’altra donna. E’ significativa, infatti, la scena in cui Halpin, nella loro casa di Nashville, annuncia alla madre che dovrà allontanarsi per alcune settimane, diretto a San Francisco: proprio in quel momento ella, che finge di non mostrarsi turbata (mentre si può immaginare che lo sia oltre misura), gli rivela di aver fatto un sogno di malaugurio e subito dopo, con aria distratta, chiede se in California vi siano delle sorgenti per le cure termali. Le sue dita, afferma mentre se le guarda, si sono irrigidite (proprio le dita che stringeranno a morte il collo del figlio, nella foresta insanguinata): è abbastanza chiaro che spera di essere da lui invitata ad accompagnarlo nel viaggio, ma ciò non avviene e Halpin parte da solo. Partenza che Catherine, giustamente, interpreta come una volontà, da parte di lui, di rendersi autonomo (pare, infatti, che non avesse mai lasciato prima la casa paterna); e l’autonomia psicologica è la premessa, per un giovane uomo, per l’autonomia affettiva e quindi per la ricerca di una compagna. Attenzione, Bierce non vuol suggerire che Catherine abbia fatto un ragionamento consapevole; il fascino del racconto è proprio nel non detto, in ciò che viene intuito, nel possibile; in una parola: nei meccanismi misteriosi dell’inconscio.

     Davanti al corpo senz’anima che lo aggredisce, vana è quindi la resistenza di Halpin: “quale mortale può battersi vittoriosamente – chiede Bierce con una riflessione estemporanea che spezza il ritmo del racconto, amplificando il clima di suspence (è la tecnica dei grandi affabulatori: di Ariosto, per esempio)- contro la creatura nata dal proprio sogno?” (8)

     Viene inoltre adombrata un’altra tematica, che sarà cara alla “letteratura dell’inquietudine” da Pirandello  (Sei personaggi in cerca d’autore) a Unamuno (Niebla), su su fino a Borgés: quella del personaggio che diventa autonomo e che incomincia a vivere di una sua vita propria, imprevedibile e spesso maligna, sfuggendo completamente al controllo del suo autore (in questo caso, al suo sognatore).

       La viaggiatrice francese Alexandra David-Neel, a questo proposito, ha riferito come certi lama tibetani siano capaci di materializzare, con la sola concentrazione del pensiero, oggetti e persone; e che lei stessa ne fece l’esperienza, evocando una figura di monaco, la quale poi soleva comparire anche non desiderata, e anzi tendeva a farsi via via più minacciosa. Sulla stessa linea si collocano alcuni esperimenti che sono stati fatti, in ambito rigorosamente scientifico (ad esempio, dall’équipe di Andrja Puharich), di sintonizzazione del pensiero collettivo di un gruppo di soggetti su una entità immaginaria, la quale poi, attraverso sedute medianiche ma anche in altre maniere, sembra manifestare segni di una esistenza reale e indipendente.

       Appena accennata, da ultimo, la problematica del conflitto tra realtà e immaginazione. Per dirla con il filosofo cinese Chuang-Tzu, una delle massime figure del taoismo: “Sognavo di essere una farfalla, disteso su un prato fiorito; poi mi svegliai. Ma ero io che avevo sognato di essere una farfalla, o era la farfalla che aveva sognato di essere Chuang-Tzu?” Nel racconto di Bierce, dove il protagonista, Halpin Frayser, sogna di vagare lungo una interminabile foresta illuminata da una rossa luce  paurosa e innaturale, qual è il confine tra sogno e realtà? Sta ancora sognando, quando ode la risata diabolica  e vede apparire il corpo di sua madre? Sta sognando anche quando lotta con quel corpo -una lotta dalle implicazioni sessuali abbastanza trasparenti e che ricorda, al tempo stesso, la lotta con l’Angelo del patriarca Giacobbe? Se è solamente un sogno, come mai Halpin Frayser muore veramente, strangolato? (Si ricordino i due figli minori de Sei personaggi in cerca d’autore: sono morti veramente? La bambina è davvero annegata in una fontana di scena, il bambino si è davvero ucciso con una pistola carica? Eppure, al riaprirsi del sipario, i sei personaggi son diventati quattro: i due piccoli non ci sono più…).

     Viceversa: se quello di Halpin Frayser non è stato un sogno, ma realtà: donde è venuta quella figura agghiacciante che non è più veramente sua madre, e che mostra una specie di indifferenza supremamente mostruosa, proprio mentre lo sta uccidendo con le sue mani? Chi l’ha evocata? La morte di Halpin, dal punto di vista di lei, sembra quasi la vendetta di un autore che “cancella” un personaggio non riuscito o non più amato: la stessa madre che ha messo al mondo il proprio figlio (metafora della creazione di un personaggio letterario), si riprende la sua vita e lo fa precipitare nel nulla.

     E lasciamo perdere, in questa sede, un interrogativo che ci porterebbe troppo lontano, ma che già Pirandello aveva adombrato: siamo proprio sicuri che il personaggio viene creato dal nulla? Non esisteva forse già da prima, in qualche luogo, in qualche dimensione altra, fino a quando il cosiddetto autore si è limitato a evocarlo? Don Chisciotte, che continua ad esistere secoli e secoli dopo la scomparsa di Cervantes, non è forse divenuto più reale del suo autore, e non potrebbe darsi che esistesse già prima e che avesse scelto quell’autore, per potersi manifestare? Allo stesso modo si dice che i figli, forse, scelgono i propri genitori prima della nascita: è una teoria, e vi accenniamo senza assumercene la responsabilità.

      Tornando al nodo dei rapporti tra Catherine e Halpin, nel racconto vediamo adombrata la dialettica odio-amore che caratterizza il rapporto madre-figlio e, al tempo stesso, è descritta la materializzazione del sogno orrorifico, intuizione che tanta fortuna avrà nella storia del racconto “nero”; si pensi al celeberrimo The dreams in the Witch House di  H. P. Lovecraft, del 1933. Halpin Frayser, infatti, sogna di venir strangolato dalla madre, e il giorno dopo il suo corpo viene trovato sopra la tomba della madre, con evidenti tracce di strangolamento sul collo.

      C’è poi la reminiscenza. Solo e disperato nella foresta rossa di sangue, Halpin si mette a scrivere versi nello stile del nonno Myron, lui che non ha mai saputo scrivere una poesia in tutta la sua vita. I versi, tra l’altro, sono di una bellezza crepuscolare che lascia intravedere in Bierce un poeta di qualche talento, se avesse dedicato più attenzione a questo aspetto della sua prolifica, e in parte prolissa, attività letteraria:

 

       Vittima di un misterioso incantesimo, rimasi

       Nelle tenebre illuminate di un bosco magico.

       Lì il cipresso e il mirto intrecciavano i loro rami

       Significanti, in funesta fraternità.

 

       Il meditabondo salice sussurrava parole al tasso;

       Sotto, la belladonna e la ruta,

       Ai sempreverdi s'intrecciavano in bizzarre

       Forme funeree, e crescevano orride ortiche.

    

       Non il canto di uccelli o il ronzìo di api,

       Non foglia leggera stormiva per la salubre brezza:

       L’aria era stagnante, e il Silenzio era

       Una cosa viva che respirava tra gli alberi.

 

       Spiriti sussurranti cospiravano nella tenebra,

      Appena udibili, il misterioso segreto della tomba.

      Di sangue erano intrisi tutti gli alberi; le foglie

      Brillavano nella luce spettrale con un fiore rosso.

 

      Gridai forte!… L'incantesimo, ancora non spezzato,

       Rimaneva sul mio spirito e sulla mia volontà.

       Privo d'anima, di cuore e di speranza, disperato,

      lottavo contro mostruosi presagi avversi!

 

       Infine l'invisibile… (9)

 

     Da ultimo, consideriamo l’elemento “giallo”, quasi immancabile nella letteratura americana del tempo. Grazie a un gioco a incastro che ha continuamente avvicinato e allontanato il lettore dalla comprensione del quadro d’insieme (con la tecnica del flash-back, già magistralmente adoperata da Bierce nel famoso racconto A Occurrence at Owl Creek Bridge, l’autore nella parte finale del racconto dipana la trama, permettendo al lettore di ricostruire i contorni verosimili della vicenda.

     Sulle orme di Jaralson e Holker veniamo a scoprire – per deduzioni successive – che Catherine Frayser, rimasta vedova qualche anno dopo la partenza del figlio e la sua misteriosa scomparsa, era venuta in California per mettersi alla sua ricerca, poiché San Francisco era l’ultimo luogo noto da lui raggiunto. Lì doveva aver conosciuto un ispettore di nome Larue (non Branscom o Pardee, come a Jaralson era sembrato di ricordare: e quella falsa pista ritarda sapientemente il coup de teatre finale) e lo aveva sposato. Ma non era stato un matrimonio felice, se a un certo punto si era concluso nel più tragico dei modi: Larue aveva assassinato la sua bella moglie, che era stata sepolta nel vecchio cimitero perduto tra i boschi della Valle di Napa, alle pendici del monte St. Helena.

      Ironia del destino, suo figlio Halpin, la cui scomparsa le aveva spezzato il cuore, forse proprio in quei giorni era già tornato dal suo esilio forzato in una lontanissima isola del Pacifico, dove, novello Robinson, aveva vissuto in solitudine per alcuni anni. Forse era lì vicino, a San Francisco, di dove aveva scritto a Nashville per avere notizie di casa, e non sapeva nulla di quanto era successo: che suo padre  era morto, che sua madre aveva lasciato per sempre il Tennesse, che si era risposata e che era morta in circostanze estremamente drammatiche.

      Evidentemente tormentato dai rimorsi, Larue, che si era dato alla latitanza, continuava ad aggirarsi nei dintorni della tomba di sua moglie, e lì era stato visto da Jaralson, che aveva minacciato con la pistola e costretto ad allontanarsi. Era questo il motivo per cui il vice-sceriffo di Napa aveva chiamato presso di sé l’amico Holker: in due, speravano di riuscire a catturare il ricercato.

      Senza mezzi e senza amici, troppo orgoglioso per chiedere denaro a prestito, impossibilitato a partire subito per Nashville, come certo sarebbe stato impaziente di fare, Halpin aveva deciso di ingannare l’attesa della sospirata lettera dei suoi genitori spingendosi nei boschi, per una battuta di caccia. Aveva, però, smarrito la strada e, dopo aver girovagato senza essere riuscito a ritrovarla, all’imbrunire aveva deciso di fermarsi a pernottare, e si era addormentato, esausto e tormentato dall’ansia di avere notizie dei suoi. Il caso (ma si può credere veramente al caso, in una situazione del genere?) aveva voluto che il giovane si coricasse inconsapevolmente, nel buio, presso una macchia di vegetazione che nascondeva proprio la tomba di sua madre. Durante la notte il fantasma di Kathy – meglio,  il suo corpo senz’anima – ne aveva “sentito” la presenza ed era apparso per ucciderlo; cioè, come si è detto, per “punirlo” e “cancellarlo”.

 

BIERCE E LA CRITICA.

 

    Famosissimo ai suoi tempi come giornalista, eccentrico fino alla leggenda (morirà misteriosamente durante la guerra civile messicana, come un personaggio dei suoi racconti), “bitter” Bierce, l’amaro Bierce, è stato alquanto ridimensionato dalla critica letteraria del secondo dopoguerra, sia negli Stati Uniti che fuori. Secondo Carlo Izzo, “l’uomo – critico spietato degli altri, quanto scarsamente autocritico – faceva più stima di sé e della sua opera di quanto non abbiano mostrato di fare i posteri. (10)

      Uno dei giudizi più duri è però quello di Jacques-Fernand Cahen, per il quale Bierce “aveva l’arte di suscitare e di mantenere un’atmosfera d’orrore. Ma i suoi racconti sono solamente orribili, nel senso che non contengono idea alcuna. (11)

      Abbiamo visto come ciò possa valere per altri racconti, ma non per La morte di Halpin Frayser, che anzi è ricco di anticipazioni notevoli, specialmente a livello psicologico. Samuel Lovemare, poeta e critico americano che fu anche amico dello scrittore, così sintetizza la qualità migliore dello stile di Bierce: “l’evocazione dell’orrore diviene per la prima volta non tanto la prescrizione o la perversione di Poe e di Maupassant, ma una atmosfera precisa e misteriosamente definita…  In The death of Halpin Frayser fiori, verde, rami e foglie di alberi sono posti magnificamente quale risalto contrastante alla malignità ultraterrena.” (12)

       Tuttavia, questo racconto non è solamente un classico della letteratura gotica. E’ anche un magnifico pezzo narrativo, dallo stile efficace e sicuro; una miniera di osservazioni psicologiche (sulla morte, sui rapporti affettivi, perfino sui bambini); un giallo dalla costruzione sapiente e ben dosata; ma, più di tutto, un racconto in cui spira un soffio di autentica poesia, sospesa in una atmosfera nitida e rarefatta, della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

 

NOTE

1)       C. Izzo, voce Bierce in Le Muse. Enciclopdia di tutte le arti, Novara, De Agostini ed., vol. II, p. 261.

2)       Facciamo riferimento alla traduzione italiana dei racconti “neri” di Bierce, initolata Una cosa infernale, Del Bosco ed., 1972.

3)       Un naturalismo spinto fino alla brutalità, secondo la definizione di D. Punter, Storia della letteratura del terrore, Roma, Ed. Riuniti, 2006, p. 240.

4)       Literary History of the United States, The MacMillan Company, New York-London, third edition, 1963 (fifth printing, 1966), p. 1.070.

5)       Ecco il giudizio di una celebre americana, la danzatrice   Isadora Duncan (1878-1927): “si potrebbe dire che tutta l’educazione americana tende a ridurre i sensi a zero. La vera America non è cercatrice d’oro, adoratrice del denaro come vuol la leggenda, ma idealista e mistica. Non voglio dire con questo che gli Americani non abbiano dei sensi. Al contrario…” (da La mia vita, Savelli ed., Milano, 1980, p. 77).

            6)   A. Bierce, cit., p. 141.

      7)   Idem, p. 135.

            8)   Idem, p. 144.

9)       A. Bierce, Tutti i racconti dell'orrore, Roma, Newton Compton, 1994, p.67.

10)   C. Izzo, La letteratura nord-americana, Sansoni- Accademia ed., Milano, 1967, p. 468.

11)  J. F. Cahen, La letteratura americana, Garzanti, Milano, 1964, p. 59.

12)  Cit. in  H. P. Lovecraft, Opere complete, Sugarco, Milano, 1983, p. 45.

 

 

 

ALCUNI GIUDIZI CRITICI

 

 

LUIGI SOMMA: BIERCE "ESULE DA SE STESSO".

 

Gli esuli da se stessi: Lafcadio Hearn e Ambrose Bierce.

"Validi contribuenti al descrittivismo entrato in voga nelle regioni del Sud furono anche due artisti in perpetua lotta contro sé stessi e sempre pronti a seguire il bizzarro impulso del momento. Si tratta di Lafcadio Hearn e di Ambrose Bierce, la cui vita, pur nelle caratteristiche tanto dissimili, sembra partire alla ricerca di una medesima catarsi estrema che il primo raggiunge nell'adozione della cittadinanza giapponese, con il conseguente abbracciamento della religione buddista, e il secondo accetta in una fine misteriosa, nelle sanguigne ebrezze della rivoluzione messicana di Pancho Villa.

"Lafcadio Hearn (1850-1904), di origine greca, non può strictu sensu chiamarsi scrittore americano, e ci sono alcuni che gli assegnano un posto d'onore nella letteratura inglese. In realtà egli è un artista cosmopolita e, come osserva giustamente il Foerster, deve agli Stati Uniti il periodo formativo della propria educazione culturale. I due momenti della sua arte, uno occidentale al cento per cento e il secondo orientale al mille per mille (trascorso nella maturità sino alla morte nel lontano Giappone) si equilibrano a vicenda e sono interdipendenti tra loro, contribuendo entrambi a chiarire la figura del maestro.

"Per quello che interessa la nostra esposizione possiamo dire ch'egli sentì il fascino di alcune regioni del Sud, meglio conformi alla sua indole sensuale e melanconica, non priva, a tratti, di un aristocratico orgoglio, poco conforme all'impressionismo tradizionale di Boston o di New York. Sente come pochi il fascino di New Orleans, privilegiata oasi di costumanze gentili e di tenere incongruenze.

"Certe sue frasi hanno in sé stesse un così vago profumo di essenza esotica che val la pena di farlo gustare al lettore intelligente.

"For in this season is the glamour of New Orleans strongest upon those whom she attracts to her from less hospitable climates, and fascinates by her nights of magical moonlight, and her days of dreamy languors and perfumes. There are few who can visit her for the first time whithout delight; and few who can ever forget her whithout regret; and none who can forget her strange charm when they have once felt its influence."

"Ci voleva proprio un Americano di adozione per descrivere l'incanto di certe atmosfere con tale languorosa vivacità. E fosse solo per questo, gli yankees dovranno esser grati a Lafcadio Hearn, il quale se ebbe a stancarsi dell'America, fu per colpa esclusiva di un fascino inaspettato quanto più potente, sentito appena sbarcato in Giappone, ove trovò moglie e dimenticò volutamente di essere occidentale. Ma la produzione letteraria di New Orleans rimarrà il meglio della sua sensibilità artistica anche se, con Kwaidan, acquistò fama di alto interprete delle simboliche leggende del Giappone.

"Nella sua opera giovanile vanno ricordati Letter from the Raven, Fantastic and other Fancies, e Creoles Sketches, pubblicati tutti in raccolte postume su originali sparsi in articoli di riviste.

"Ambrose Bierce (1844-1914?) è il tipo perfetto dell'avventuriero di classe bramoso dell'avventura sensazionale che strappi grida d'ammirazione. Sempre tormentato da un'irrequietezza paranoica e sopraffatto da incubi paurosi, fece la guerra come Nordista e seppe, per coraggio o smargiassate, acquistarsi il grado di maggiore dopo una breve e folgorante carriera. Corso nel 1866 a San Francisco, una delle poche città immuni dalla lotta fratricida, si acquistò fama di attaccabriga e di abile improvvisatore di racconti orridi a colpi di scena.

"Descrisse la guerra con un sadismo rivoltante, spesso astutamente coperto da un pizzico di tenerume umanitario, pochissimo convincente. Privo di fantasia, ma assai abile manipolatore di facili ricette a 'sensazione', intuì la generosa predisposizione del suo popolo a simpatizzare con i vinti che avevano combattuto eroicamente e s'indugiò nel porre in luce la sfortunata audacia di guerrilleros sudisti che volentieri s'immolano per un non ben chiarito amor di patria, spesso sospettosamente ispirato a un più sincero impeto di ribellione.

"Fatuo, elegante, Don Giovanni e masnadieroo, il Bierce sentì un disprezzo sempre più aspro verso la borghesia moderata e capitalista, che si accingeva, a guerra finita, a prendere nelle proprie mani le sorti della rinsaldata unione, e fece il suo ultimo colpo di testa. Avendo saputo che nel Messico era scoppiata una sanguinosa rivoluzione capeggiata da Pancho Villa (alcuni affermano che riuscì a diventargli confidente e amico, ma non è provato) varcò la frontiera e non fece mai ritorno. Ucciso? Disperso?

"Più coraggioso di Lafcadio Hearn, con tutta probabilità il Bierce avrà lasciato da parte problemi spirituali e crisi di coscienza e avrà menato le mani un po' troppo sodo. Una sentenza eseguita da un plotone d'esecuzione nelle campagne messicane avrà lasciato una tomba perduta nell'oblio, così come, forse, egli aveva in vita temuto di finire."

 

                 Luigi Somma, Storia della Letteratura Americana, Roma, Ed. Corso, 1946, pp. 154-157.

 

PILO/FUSCO: "RAPITO DA UN COLLEZIONISTA DI AMBROGI".

 

"[In Tales of Soldiers and Civilians e in Can Such Things Be?] si sviluppa in pieno la vena narrativa di Bierce, che fa del macabro la sua componente fondamentale. Le storie di guerra, ispirate a ricordi delle sue campagne militari, traggono spunto da eventi e circostanze d'incredibile crudeltà e orrore: quelle di 'civili' hanno tematiche differenziate che vanno dal Fantastico puro, al Terror Tale, al Soprannaturale, fino a sconfinare talvolta nella Fantascienza. Tutte sono accomunate da un'abilità narrativa prodigiosa, e da una non meno notevole efficacia descrittiva, segnata da uno stile che fa dell'essenzialità il suo punto di forza.

"Il lavoro giornalistico, peraltro, sottraeva spazio al narratore.  Nel 1896, quando le battaglie politiche (specie quelle condotte contro lo strapoteredei fabbricanti di ferrovie) gli avevano ormai fatto raggiungere i vertici della fama, Hearst volle che si trasferisse a New York, come commentatore della politica nazionale. Passarono anni segnati da diverse battaglie, spesso in contrasto con lo stesso Hearst, di cui non sempre condivideva le opinioni, e con cui entrò spesso in conflitto.

"Nel 1908, ormai sessantaseienne, Bierce interruppe il sodalizio  col suo editore, sodalizio che aveva fatto la fortuna di entrambi, e si ritirò per pubblicare la propria opera omnia.

"Gli ci vollero quattro anni, dal 1909 al 1912, per radunare, rivedere e dare alle stampe tutti i suoi scritti.  The collected Works of Ambrose Bierce - dodici volumi, un milione di parole - sono un monumento all'illeggibilità. Critico severo nei confronti degli altri, Bierce non seppe esserlo altrettanto verso se stesso. Nell'opera, accanto agli scritti per i quali è ricordato, riunì caoticamente i testi più disparati, anche quelli effimeri, logorati dal tempo, legati a sentimenti perduti e polemiche dimenticate.