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Immagini e poesia dal mondo fisico.

di James Koller/Giuseppe Moretti - 22/03/2007

 

 

 

Intervista a  James Koller

 

a cura di Giuseppe Moretti

 

(James Koller è stato protagonista come poeta, direttore di Coyote’s Journal e attivista controculturale nell’altra America degli anni ’60. Da allora ha continuato a scrivere, a tenere readings e conferenze, sia nel suo paese che in Europa. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue. Attualmente vive a Georgetown Island, nel Maine, è attivo nel movimento bioregionale e derige Coyote Books, una piccola casa editrice.)

 

 

 

Quale fu l’impulso che all’inizio ti ha spinto a scrivere poesia? Artistico, culturale, esistenziale?

 

Ho iniziato quando avevo dieci anni. Le prime poesie assomigliavano molto alle canzoni folk che ascoltavo a quel tempo. Erano canzoni che parlavano di cose che mi interessavano emozionalmente e che mi davano un’idea di cosa aspettarsi dalla vita. Sì, le cose che scrivo toccano di volta in volta tutti questi temi: artistico, culturale ed esistenziale.

 

Scrivo su quello che succede nel mondo intorno a me, mi sento un po’ come un messaggero. Ho scritto un saggio nel 1971 (“Message In My Poems”) che spiega come funziona: raccolgo i segni dal mondo fisico, li esamino e scelgo quelli che sembrano combaciare, quelli che sento vogliono dire qualcosa, quelli che hanno un messaggio, ma non lo scopro finché non lo scrivo. Una volta che ho compreso il messaggio allora posso provare a renderlo più chiaro, riscrivendolo più volte.

 

Ultimamente le mie poesie sono spesso molto corte, qualche volta pure opache – ma questo non significa che non ci sia un significato o un messaggio, sono solo meno esplicite o scelgo di lasciarle così come sono: le prendo come arrivano, non provo a rendere chiaro ciò che per vie misteriose mi è giunto.

 

E qual è il messaggio della tua poesia?

 

Vivo la mia vita nel presente quanto più possibile, nel mondo fisico, nel mondo governato dai processi naturali. La mia poesia e quello che dico proviene da ciò che focalizzano i miei sensi. Quello che scrivo proviene da immagini ed esperienze reali, che conservo fino a che non si generalizzano in un messaggio, e il messaggio riflette il mio impegno per il mondo fisico, o almeno quello che penso sia il mio impegno. Il contenuto, il messaggio o il significato del mio lavoro, è nei fatti, così come li vivo. Il messaggio “racconta quello che realmente è”.

 

Una delle caratteristiche della tua poesia sono le tante voci della natura: coyote, corvi, torrenti, cieli annuvolati, orsi ecc… Come traduci il loro linguaggio – i segni, gli odori, i suoni – nel linguaggio umano?

 

Ho vissuto nel mondo naturale per tutta la mia vita. È un mondo che ho investigato a fondo. So che gli animali e gli uccelli hanno una loro vita personale, proprio come ce l’abbiamo tutti noi. Conosco lo spirito della tempesta del mare o della neve, della montagna o della pianura, così come conosco i miei vicini di casa. Tutti noi ci parliamo. Le mie poesie sono un tramite per tutti questi esseri che parlano attraverso di me.

 

Se allargassimo a tua immagine come poeta ne viene fuori che fai parte di un’ampia comunità di poeti, pensatori e attivisti che hanno rappresentato per oltre mezzo secolo la parte più creativa e ispirata del cosiddetto movimento controculturale. Vuoi raccontarci un po’ del tuo coinvolgimento prima con i poeti Beat, con il movimento hippies e quello del “ritorno alla terra” poi, e infine con il movimento bioregionale?

 

Fin da giovane volevo essere un poeta, andavo in cerca di quei poeti che sia per lavoro che per la vita che conducevano erano per me di ispirazione. A quel tempo, anni ’50 fino anni ’70, penso che solo pochi di noi (se non quasi nessuno) sapesse veramente che stavamo agendo come parte di un fenomeno ben definito. Stavamo cercando di vivere la vita come la volevamo, comportandoci di conseguenza, spesso facendo degli errori che non avremmo fatto se avessimo saputo dove ci avrebbero portato.

 

Molti di quelli che ho conosciuto scrivevano cose interessanti. Alcuni vennero in seguito considerati poeti Beats, un fenomeno che divenne pubblico quando avevo 21 anni, ma a quei tempi c’erano molti gruppi in luoghi diversi: nel Pacific Northwest, a New York City, nel North Carolina. Poi, verso la fine degl’anni ’50 inizio anni ’60, molti di loro si concentrarono a San Francisco, Gary Snyder, Philip Whalen, Lew Welch, Joanne Kyger, Robert Creely, Charles Olson, Ed Dorn, Paul Blackburn, Gregory Corso, ed è stato lì che li ho conosciuti, dopo aver letto le loro cose e averle trovate interessanti.

 

La maggior parte dei Beats erano più vecchi di me, alcuni anche di vent’anni, mentre invece gli hippies erano 5/10 anni più giovani. Questi ultimi, li ho conosciuti prima come persone e poi come musicisti, poeti e attivisti, ma quello che facevano non aveva per me molto significato. Le nostre affinità erano ad altri livelli. Gli esponenti del movimento per il “ritorno-alla-terra” erano invece una branchia degli hippies, giovani che vedevano nella vita semplice e naturale la forza che guidava le loro vite. Molti di quelli che intrapresero quella strada, comunque, la abbandonarono dopo aver sperimentato le difficoltà che tale vita comportava. Altri invece continuarono quella vita senza comodità per lungo tempo ma, mentre i loro valori ebbero una evoluzione, in relazione alla vita che facevano, i loro punti di vista e azioni divennero sempre più convenzionali.

 

I bioregionalisti sono stati fin dall’inizio orientati verso l’azione. Fra di loro c’erano molti del movimento per il “ritorno alla terra”, che stavano cercando di trasformare la loro visione ambientale ed ecologica in uno stile di vita funzionale. Per me questo necessità di trasformare le idee in azioni fu di grande valore perché ha contribuito a realizzare un modello pratico per quelle che altrimenti  sarebbero rimaste solo teorie.

 

Quale ruolo avevi in questi movimenti e quale ruolo hai oggi nel movimento bioregionale?

 

Il mio ruolo nei Beats era quello di giovane poeta, giovane editore, sensibile ai tempi. Coyote’s Journal e Coyote Books pubblicarono alcune tra le cose più belle di quei tempi. Al tempo degli hippies ero già considerato un anziano, sia per età che per esperienza. Molti di loro si rivolgevano a me per avere un aiuto, oppure una opinione.

Per comprendere il mio ruolo all’interno del bioregionalismo, invece, vorrei fare una premessa.

 

I primi 23 anni della mia vita li ho vissuti nell’Illinois, che ambientalmente si presenta come una combinazione di prateria e di foreste decidue lungo i corsi d’acqua e negli avvallamenti. Da ragazzo passavo il mio tempo ad esplorare quegli ecosistemi e a studiare le popolazioni indigene, che avevano impostato la loro vita in quei luoghi senza strutture commerciali. Erano gente dei boschi, arrivati a nord e a ovest lungo le stesse vie d’acqua che avrebbero usato successivamente i primi europei. I miei studi sui popoli nativi si combinarono poi a quelli sui coloni che li seguirono. Le prime generazioni di questi europei, non differivano dai nativi in modo particolare, almeno esteriormente. Usavano gli stessi metodi nella caccia, nella raccolta e nell’agricoltura, nel modo in cui confezionavano i vestiti, ecc… Il modo di abitare dei nativi invece era diverso, ma al pari degli europei, la loro tendenza era di costruire insediamenti stabili. Sono stati trovati resti di villaggi molto antichi.

 

Un forte cambiamento avvenne allorquando il presidente americano Andrew Jackson, nel 1830, fece deportare tutti i nativi negli stati ad ovest del Mississippi, collocandoli in riserve sotto l’amministrazione diretta del governo. Con la partenza dei nativi, i primi coloni furono raggiunti da una moltitudine di nuovi arrivati. Tra il 1830 e il 1840, appena le grandi masse provenienti dalla Nuova Inghilterra e dall’Europa iniziarono a spostarsi verso ovest, l’Illinois cambiò radicalmente. L’invenzione dell’aratro a lama profonda rese possibile la coltivazione intensiva della prateria; successivamente le eccedenze di grano ebbero bisogno del mercato, e così vennero costruite nuove strade. A questo punto la terra smise di essere considerata habitat e sorgente di vita, ma un qualcosa che doveva essere sfruttato per l’interesse dei ricchi possidenti. Il capitalismo era già in pieno cammino.

 

Poi iniziai a studiare l’Europa. In quale periodo si sviluppò questa incapacità a vivere come vivevano gli indiani? Iniziai dall’archeologia, che per un lungo periodo si snoda parallela a quella del Nord America, e che presenta varie similitudini fra i due gruppi. Queste similitudini proseguirono fino all’Età del Bronzo, un periodo segnato da importanti innovazioni tecnologiche, ma questo è anche il periodo laddove le cose volsero velocemente al peggio. Seguendo lo sviluppo della tecnologia e dell’agricoltura, sono giunto alla convinzione che non sono queste le cause del cambiamento ma piuttosto nel modo in cui la gente si organizza: il modo in cui un gruppo si organizza determina le proprio comportamento. Questi gruppi si lasciarono alle spalle la struttura della famiglia e della tribù, che aveva una leadership appropriata per formare, invece, gruppi con una leadership gerarchica. E questo ha permesso a capi guerrafondai, o capi religiosi o una combinazione dei due, di manipolare la gente.

 

Le differenze religiose sono anch’esse degne di nota. La religione, intesa come bisogno di relazione reciproca con la natura, iniziò in Europa più o meno nello stesso periodo in cui ebbe inizio in America. Appena il monoteismo si impadronì del potere e istallò i suoi capi, intere popolazioni furono costrette a seguirli nella vita commerciale e produttiva delle città, oppure vennero uccisi, o deportati dalle loro terre, oppure costretti a vivere in accordo con i dettami della nuova religione.

 

In definitiva, quello che sembra aver funzionato con più efficacia sono stati quei sistemi che si sono evoluti in relazione al luogo. Studiando il modo in cui vari gruppi dell’antica Europa hanno vissuto e si evolsero nei luoghi per migliaia di anni è stato per me di grande supporto per capire come gli stili di vita funzionano. Una tale conoscenza dell’Europa, confrontata con la conoscenza dei vari stili di vita tribali del Nord America rende chiaro chi ha introdotto cosa e dove, e questo ci da un’idea della direzione che dovremmo tenere ora.

 

A cavallo tra il 1960 e il 1970 molta gente fece ritorno alla terra, ai valori tribali, a convinzioni religiose o personali che meglio incorporavano le dinamiche di vita all’interno della natura. Molti di loro, invece di occuparsi delle sorti del mondo naturale in generale, umani compresi, pensarono che fosse molto più utile definire e descrivere un luogo e gli abitanti di quel luogo specifico: la propria bioregione.

 

L’ecologia tenta di dare un senso alle relazioni del mondo naturale, di cui l’essere umano è parte. “L’ecologia umana” descrive l’intreccio del comportamento umano nel suo sviluppo rispetto all’ambiente sia fisico che sociale che gli sta attorno. Riconoscere che l’uomo è solo una singola parte di un sistema altamente complesso è essenziale. Comprendere che ogni cosa avviene in un luogo, in un contesto ben definito, è fondamentale. Cose e esseri sono ciò che sono in relazione a ciò che sono i loro vicini, a ciò che sono i loro dintorni. Il cambiamento di qualcuno è il cambiamento di tutti.

 

Il mio contributo all’ecologia e al bioregionalismo è stato più che altro letterario, attraverso le cose che scrivo, principalmente poesie, e attraverso il mio lavoro editoriale su Coyote’s Journal, nei Coyote Books, e nel periodico letterario Otherwise. Oltre a questo rivendico le continue conversazioni, il lavoro di rete, e i risultati dell’interazione umana. Recentemente, ho lavorato in Italia con voi della Rete Bioregionale Italiana e altri gruppi nelle scuole, nei parchi nazionali, promuovendo gli ideali del vivere nel posto-vita, nel preservare ciò che di buono c’è per le future generazioni, e cercare di educare i giovani e i miscredenti. E inoltre cammino molto a piedi nel luogo dove vivo cercando di conoscerlo meglio e di capire quelli che vivono con me in quel luogo.

 

In definitiva, quindi,  pensi che l’idea bioregionale sia più uno stile di vita che un movimento politico?

 

Lo stile di vita bioregionale è sostenuto dalle nozioni ecologiche – in particolare da quelle che ci informano che tutto è in relazione, e che gli effetti di un cambiamento si ripercuotono su tutto il resto. Inoltre, i bioregionalisti condividono l’idea di vivere in circostanze culturali e naturali uniche e desiderano mantenere e sostenere ciò che li unisce. Chiaramente, i sentimenti condivisi hanno le potenzialità di una forza politica, specialmente all’interno della bioregione, ma i bioregionalisti sono orientati principalmente verso la propria rieducazione.

 

Maggio 2006   Venezia / Georgetown

Traduzione: Giuseppe Moretti

 

* Intervista pubblicata su “Lato Selvatico” n°30 - Equinozio di Primavera 2007

  Info: Tel: 0376/611265 – email: morettig@iol.it