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Il Futuro nel passato. Una lezione di saggezza dal Ladakh: piccolo Tibet. (recensione)

di Giovanni Nicois - 23/03/2007

Fonte: centrostudimeridie

 

 “Chi choen?” Qual è il problema?

 

È la risposta tipica che si è sentita dare Helena Norberg-Hodge alle domande poste agli abitanti del Ladakh, quando, da occidentale, si meraviglia dei loro comportamenti.

Il Ladakh, noto anche come piccolo Tibet, è una terra remota della regione transhimalayana del Kashmir ed Helena Norberg-Hodge è la scrittrice che di questa comunità racconta la storia e (soprattutto) il cambiamento degli ultimi anni, nel suo libro “il Futuro nel Passato”.

Helena Norberg-Hodge, linguista, filosofa e attivista svedese, è stata la prima straniera a cui è stata riconosciuta la residenza in Ladakh dove, per tre decenni, ha imparato la lingua locale ed ha aiutato la popolazione in un’attività di resistenza ai pericoli latenti ed agli effetti degenerativi della modernizzazione. Un’esperienza sul campo, la sua, che la porta ad essere considerata tra le più accreditate studiose e critiche dell’impatto dell’economia globale sulle culture locali.

Il racconto della scrittrice svedese è semplicemente la cronistoria di un territorio, di una popolazione, di uomini e donne che in poco più di vent’anni subiscono l’“accelerata” del mondo moderno. Non un saggio di paroloni e concetti astratti, non una teoria pensata a tavolino, magari da chi sta dall’altra parte del guado.

La Hodge, piuttosto, ha la capacità di mettere a fuoco il problema attraverso le persone che incontra, gli amici che conosce, il territorio e la comunità che cambiano inesorabilmente. L’autrice fonde nelle pagine del libro l’interesse dell’antropologa, la curiosità dell’occidentale, la passione dell’attivista; il tutto raccontato con la fruibilità del cronista; ne esce un’opera digeribile e, proprio per questo, suggeribile specie a chi si avvicina a queste tematiche. Nulla di più concreto, tangibile e comprensibile delle emozioni, delle facce che s’immaginano e s’intravedono in case buie o nei campi “spaccati” dal sole. Del Ladakh, Helena Norberg-Hodge riesce a trasferire l’essenza del luogo e delle persone anche attraverso piccoli particolari: il concetto del tempo, ad esempio. “Il tempo è misurato approssimativamente; non è mai richiesto di guardare al minuto. «Vengo a trovarti verso mezzogiorno, verso sera», direbbero [i ladaki] dandosi così diverse ore di margine. La lingua ladaka ha molte bellissime parole per descrivere il tempo: Gongrot significa “da dopo che ha fatto buio all’ora di dormire”, nyitse significa letteralmente sole sui picchi delle montagne”. Nulla di più diretto. Semplice semplice. Come è semplice avvertire il cambiamento in altri passaggi. Come questo: “Dawa aveva circa quindici anni quando lo conobbi e viveva ancora al villaggio. Quando i turisti cominciarono ad arrivare, iniziò a lavorare come guida. Per attraversare i passi usava i suoi asini e muli, come animali da soma. Non ebbi sue notizie per diversi anni, ma ero venuta a sapere che – uno dei pochi Ladaki a svolgere un’attività del genere – aveva messo in piedi un’agenzia turistica. Un giorno al bazar, mi imbattei in un giovane bardato all'ultima moda: occhiali a specchio, T-shirt di un gruppo rock americano, blue jeans aderentissimi e scarpe da basket. Era Dawa. «Quasi non ti riconoscevo», dissi in ladako. «Un po’ cambiato, eh?», rispose tutto orgoglioso in inglese.

Fotografie. Alla Hodge, insomma, “basta” vivere con i ladaki per apprezzarne lo stile di vita ed esaltarne la Tradizione, così come intitola la Parte I del libro. Per registrarne il Cambiamento (Parte II). Arrivano i turisti, l’occidente, i soldi. Si passa “dal lama all’ingegnere”. Il Ladakh, nel giro di pochi anni, viene praticamente privato della propria Identità. Cambia il territorio, sorgono le “infrastrutture”; medicina ed istruzione di tipo occidentale costituiscono gli altri due anelli fondamentali del processo di occidentalizzazione della provincia himalayana.

Il Ladakh prima e dopo, dunque. Prima e dopo l’“invasione” turistica. Prima e dopo l’inevitabile processo di modernizzazione e l’aggressione della monocultura industriale. In un contesto del genere l’allarme non è quello paesaggistico. Non è tanto che arrivi l’energia elettrica, laddove si era sempre provveduto altrimenti. Non è tanto che si coltivi per vendere e non per consumare (in gergo si chiama crash crops). Non è tanto che le cure tradizionali vengano sostituite dagli ospedali moderni. O meglio è per tutti questi segnali che bisogna allarmarsi ma anche e soprattutto perché il mito della modernità non lascia solo tracce evidenti. Ad essere corrose, cambiate, eliminate, sovrapposte sono anche le strutture sociali, il modo di rapportarsi con gli altri e con il potere. Perché se “in un villaggio tradizionale ladako, le persone hanno un notevole controllo sulle proprie vite. Prendono molte decisioni per se stesse invece che essere alla mercé di burocrazie lontane e rigide e di mercati instabili. Un contesto a misura d’uomo consente di prendere decisioni spontanee e di agire in base ai bisogni specifici. Non è necessaria una legislazione rigida, al contrario, ogni situazione consente di sviluppare una nuova risposta”. Nello stesso villaggio, quelle stesse persone, quella stessa comunità “avendo rimpiazzato l’aiuto reciproco con la dipendenza da forze distanti, […] cominciano a sentirsi impotenti nelle decisioni che riguardano la loro vita”.

Sta in questo lo strappo più netto, il male peggiore; è così che si scioglie il legame comunitario, si cancella l’Identità. Un idem sentire che viene sostituito da un altro idem sentire nevrotico e nevrotizzante, “altro” e alienante…diverso, ma omologante.

 

Ma quella del Ladakh è “solo” una storia esemplare. Negli ultimi decenni sono molte e molto diverse le culture che sono state sopraffatte da quella che chiamiamo globalizzazione. Dall’Alaska all’Australia i conquistadores moderni si chiamano sviluppo, pubblicità, media, turismo. Conseguenza? La perdita parziale o totale del legame con il proprio territorio e la propria storia con la cultura occidentale che si stampa come un marchio per essere considerata la “vita normale”. Un marchio indelebile, forse. Un marchio che sostituisce l’Uomo con l’homo oeconomicus. Che fare? Intanto capire, conoscere, informarsi. Leggere. Magari testi come questo che hanno la capacità di mostrare i fatti con chiarezza. Quei fatti che hanno trasformato una remota provincia himalayana in una comune località turistica. E poi? Agire. E qui viene la III Parte dell’opera di Helena Norberg-Hodge che suggerisce di Imparare dal Ladakh per mettere in pratica quella che lei stessa definisce idea del Controsviluppo. Nel 1983 la Hodge fonda il Ladakh Ecological Development Group (Gruppo Ladako per lo Sviluppo Ecologico), una organizzazione non governativa che continua a proporre tecnologie più idonee per l’ambiente: l’archetipo di quello che oggi chiameremmo “sviluppo sostenibile”.

Intanto… C’era una volta il Ladakh. C’era, e oggi non c’è più. Non è lo stesso Ladakh, non ci sono più Sonam, Norbu, Ngawang, gli amici di Helena che alle sue domande rispondevano: “chi choen?” Qual è il problema?

Helena Norberg-Hodge

Il Futuro nel passato. Una lezione di saggezza dal Ladakh: piccolo Tibet.

Arianna Editrice, 2005