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Leonardo Colombati, l'amico di Piperno

di Massimiliano Parente - 23/03/2007

   
 

 

Non finirò di leggere l’ultimo romanzo di Colombati, per una sola ragione: D’Orrico gli ha dedicato cinque pagine sull’ultimo Corriere Magazine, risparmiandomi la fatica e confermando quello che pensavo a pagina cinquanta. Vorrei piuttosto fornirvi un piccolo manuale per leggere tanto il recensore D’Orrico quanto il recensito Colombati. Perché i recensori rendono ormai insopportabili i libri, o non sanno spiegarli o li spiegano fin troppo bene. Ma almeno D’Orrico è utile a capire cosa è la letteratura, che come l’arte è definibile solo per opposizione, spiegando cosa non è. Siccome Colombati è amico di Piperno, e Piperno è amico di Saviano, e tutti e tre sono stati lanciati da D’Orrico, e qualche maligno potrebbe cominciare a pensare che siano i furbetti du côté de chez Siciliano, ha fatto bene D’Orrico a definire Colombati, fin dal titolo: “amico dell’autore di Con le peggiori intenzioni. Come Giorgione con Vincenzo Catena sul retro della Laura, solo che dei due nessuno sarà Giorgione. Però almeno sono amici, lo si dichiara, disinnescata l’illazione. Dopodiché c’è la felicità incontenibile di D’Orrico, che notoriamente non sopporta Kafka né Joyce né David Foster Wallace né qualsiasi scrittore sia troppo difficile, troppo rivoluzionario, e faccia troppo pensare. Non sopportava neppure Colombati ma Rio è bello perché non è pynchonista, non è postmodernista. Piuttosto è “postpipernista”. Fantastico. Il ragionamento fila. Prima creo gli autori, poi i neologismi, il resto viene da sé. Essendo Pynchon un genio, pynchonista, detto da D’Orrico, deve suonare come un insulto. E Colombati era uno sporco pynchonista. Ma si è redento.
Dubito che D’Orrico sappia cosa significa postmoderno, ma per farsene una vaga idea potrebbe leggersi il suo stesso articolo, dove ci si inchina all’autore che “elogia il Clinton lewinskiano, mitizza Berlusconi, lamenta la pochezza sessuale delle ragazze-bene romane e dice che la salvezza è nella commedia italiana” imbastendo personaggi simili a Bellow, per non dire del motoscafo Riva che fa molto Piperno, ovviamente l’amico Piperno: “qui c’è una strizzata d’occhio all’amico Piperno e allo splendido esemplare di Riva che sfilava sulla copertina di Con le peggiori intenzioni”, inaugurando anche un nuovo genere, la citazione di copertina dell’amico. E comunque non si riflette solo sul fatto che “la mia è stata l’ultima generazione di non scopatori”, ma anche che “l’intera struttura del pensiero umano è estranea all’uomo” dice l’amico di Piperno, e qui tutti i bambini fanno oh. Comunque D’Orrico dice di non leggervi Perceber perché pynchonista e voi fate esattamente il contrario, leggetevi Perceber perché non dorrichiano. D’Orrico è utile perché per esclusione ti segnala i libri che contano. Anché perché adesso, dopo Rio, Colombati ha una voce di tutto rispetto nel manuale di letteratura italiana di Antonio D’Orrico. Invece per i seguaci di D’Orrico è una pacchia, non devono studiare niente. Andare nei salotti e essere up to date sulla letteratura è facile. Lasciate perdere Leopardi, Beckett, Faulkner, i formalisti, gli strutturalisti, la psicoanalisi, De Saussure, Ariosto, Carlo Emilio Gadda, la Recherche. Prima della voce postpipernista ci sono due fasi. E noi “siamo alla terza puntata della narrativa italiana nata nel XXI secolo dopo Con le peggiori intenzioni e Gomorra di Saviano”. Piperno, Saviano, Colombati. Sono quelli che D’Orrico ha lanciato su Corriere Magazine. I ricchi, la mafia, di nuovo i ricchi. Non chiedetevi perché manca Faletti, “il più grande scrittore italiano” secondo D’Orrico, che gli dedicò la copertina: acqua passata, e comunque sia “il più grande”, fuori classifica. Qui invece parliamo di puntate, e siamo alla terza. Senza sforzarsi troppo, per capire cosa non è la letteratura e cosa invece è un postpipernista bisogna dunque prima sapere cos’è Piperno. Ma per sapere cos’è Piperno dovete sapere che ci sono i poveri. Il pensiero altissimo di Piperno era “basta con i poveri, io racconto i ricchi”. Era l’anti-Aldo Nove. Dove Nove piagnucolava con Roberta che ha quarant’anni e guadagna 250 euro al mese, Piperno ti rallegra con i Bepy, i Nanni, i Daniel e gli ebrei dell’alta borghesia. Poverismo contro ricchismo. Se leggi Piperno e leggi Nove, non essendoci la letteratura ma solo le sue tematiche, non sai se è peggio essere ricchi o essere poveri, ma alla fine scegli Nove perché almeno ha avuto un’infanzia più lunga. Per fortuna c’è il postpasoliniano Mario Desiati, che lo stesso giorno del Magazione si interessa di precari sul Corriere. Solo che Desiati è amico di Colombati che è amico di Piperno che è amico di Saviano, e è anche amico mio, Desiati, ma non è colpa mia. Nessuno si odia più, neppure gli scrittori ricchisti contro gli scrittori poveristi. Colombati, l’amico di Piperno, quindi puntualizza a D’Orrico: “noi raccontiamo la ricchezza, i ricchi” e “basta con i tinelli che puzzano di sugo dei romanzi italiani”. Non dovete faticare per capire se un romanzo è bello o brutto, se resterà o se avete perso tempo. O lo yacht o i tinelli che puzzano di sugo. Colombati segna il passaggio da un libro articolato, complesso, e labirintico come Perceber, pubblicato da un piccolo editore come Sironi, a un romanzo midcult, disimpegnato e fricchettone pubblicato da una grossa casa editrice. D’Orrico infatti non capiva, né il libro né l’amico di Piperno, il Proust italiano, come se Proust parlasse della ricchezza, come scrisse Piperno l’amico di Colombati, e non dell’illusione del possesso, dell’uomo, della morte, della vecchiaia, dei paradisi perduti sul nascere, della tragedia dell’illusione e dell’oblio, e dentro quella voragine linguistica che è la Recherche. “Mi ero chiesto perché questo ragazzo così brillante avesse scritto un librone come Perceber”, e praticamente “illeggibile”. Come scrisse Guglielmi di due geni come Aldo Busi e Antonio Moresco, dove busiano e moreschiano vanno usati come insulti. L’amico di Piperno gli ha risposto, non come avrebbe fatto Céline, aspettandolo fuori da Via Solferino per fargli sentire come la forma di uno Scrittore abbia anche un corpo, ma pipernizzandosi per entrare nella scuderia dorrichiana, per raccontare delle ventenni-bene che non te la davano e delle sedicenni oggi che te la danno, tra giacche di tweed, lussuosi appartamenti in via Giulia, decappottabili e “bellissime e condivisibilissime idee sulla letteratura” come osserva D’Orrico. Che sarebbero “Leggiamo un romanzo, lo chiudiamo. Dopo tre settimane cosa resta impresso? Trama e personaggi, signori”. Bellissimo. Condivisibilissimo. Come andare al cinema. Manzoni poteva fare a meno di sciacquare e risciacquare in Arno i Promessi Sposi, Proust poteva scrivere dei Guermantes senza morirci sopra, Bachtin poteva fare a meno di scrivere Estetica e romanzo, Leopardi poteva scrivere “quant’è bella ’sta collina” anziché “sempre caro mi fu quest’ermo colle” e festa finita. L’andazzo è questo, ma a questo punto cambio idea. Forse non c’entrano gli editor, c’entra piuttosto l’autolimitazione degli scrittori che percepiscono l’industria come posizionamento sugli orizzonti d’attesa anziché fondarne di propri per sfondare quelli altrui. Sinceramente non capisco perché uno dovrebbe leggere le sceneggiature rilegate di questi stronzi, poveri o ricchi che siano, che scrivano di ricchezza o di povertà. Se tanto mi dà tanto, e cioè così poco, la morale è una sola: se sei povero cosa te ne può fregare del motoscafo Riva, se sei ricco al massimo te lo compri e cerchi di portarci Scarlett Johannson, cosa te ne può fregare di quello che pensa l’amico di Piperno, che il motoscafo neppure te lo mette in copertina.