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Imperialismo ed impero

di Raffaele Ragni - 23/03/2007

 


La teoria dell’imperialismo - dalle premesse di Karl Marx, agli sviluppi di Rudolf Hilferding e Rosa Luxemburg - spiega l’espansione sistematica del capitale partendo dal concetto di realizzazione del plusvalore. Il capitalista costringe l’operaio a lavorare più tempo del necessario e si appropria della differenza tra il valore corrisposto come salario ed il valore effettivamente realizzato. Ma la capacità di consumo di entrambi i soggetti rimane limitata.
L’operaio, col suo esiguo salario, non può acquistare abbastanza merci. Il capitalista, per continuare la produzione, deve accumulare una parte del profitto. Questi limiti alla realizzazione del plusvalore impongono il continuo ampliamento del mercato interno - mediante l’induzione di nuovi bisogni e l’immigrazione di nuovi consumatori - nonché l’espansione verso altri mercati inizialmente non-capitalisti.
Dopo che il plusvalore è stato realizzato in forma di denaro, ricavato dalla vendita delle merci, deve essere investito nella produzione, cioè capitalizzato. La capitalizzazione del plusvalore esige che l’imprenditore acquisti merci addizionali.
L’approvvigionamento di materie prime agricole e minerarie può avvenire anche in sistemi schiavisti o feudali esterni al mondo capitalista, come avveniva all’epoca del colonialismo. Ma il reclutamento di forza lavoro nell’area in cui vengono insediati impianti industriali ne provoca il progressivo assorbimento nel mercato mondiale. Emerge allora una contraddizione fondamentale dell’espansione capitalista. Una volta che un segmento esterno è stato incorporato nei confini interni al sistema capitalista, cessa di essere quel fuori necessario a realizzare il plusvalore. In tal senso la capitalizzazione è il limite della realizzazione.
Lenin ha il merito di orientare il dibattito sull’imperialismo dalla teoria alla prassi rivoluzionaria. Considera l’imperialismo non una costante, ma una fase del capitalismo, esattamente il suo stadio monopolistico. Non esprime alcun contenuto originale, ma si limita a rielaborare le tesi di altri autori - come John Atkinson Hobson e Rudolf Hilferding - per renderli accessibili alle masse proletarie. Polemizza spesso con altri marxisti, non sul fondamento scientifico delle loro teorie, ma sui loro effetti devianti in termini di lotta politica. Ad esempio, pur condividendo la tesi di Karl Kautsky che lo sviluppo del capitale finanziario conduca all’istituzione di un unico trust mondiale, ritiene che ciò avvenga in forme conflittuali e che il capitalismo sia destinato a crollare prima che il processo si concluda.
Malgrado le divergenze, le prime teorizzazioni dell’imperialismo hanno un elemento in comune: analizzano prevalentemente i flussi commerciali e finanziari verso i Paesi industrialmente arretrati, considerandoli sistemi esterni al mondo capitalista. Dopo la seconda guerra mondiale questo criterio viene invertito: sistemi sviluppati e sistemi sottosviluppati cominciano ad essere considerati economie interne di un unico modello e l’attenzione si sposta dalla esportazione di merci e capitali verso le colonie alla importazione di profitti verso i Paesi imperialisti.
Diversi autori - tra cui Paul Baran, Arghiri Emmanuel, Samir Amin, Ernest Mandel - evidenziano come l'accumulazione e l’espansione del capitale siano determinati dall'esistenza di livelli diversi di produttività del lavoro, cioè da fenomeni di sviluppo ineguale tra settori produttivi ed aree geografiche. Queste disparità si sostanziano in opportunità di profitto più o meno elevate, contribuendo a stimolare e ad orientare gli investimenti. Senza di esse il sistema tenderebbe rapidamente alla stagnazione e quindi alla crisi. Proprio come il fluire dei fiumi è reso possibile dai dislivelli nel terreno, così il movimento dei capitali è determinato dalle differenze nei saggi di profitto. Ciò significa che lo sviluppo presuppone il sottosviluppo, per cui il capitalismo può essere definito come unità dialettica di sviluppo e sottosviluppo.
La teoria dell’imperialismo entra in crisi con il crollo del blocco sovietico, quando molti marxisti cominciano a cercare nuove sintesi programmatiche adottando categorie concettuali derivate dal pensiero unico. La deriva new global della sinistra radicale si fonda sui seguenti postulati: non è fallito l’ideale comunista, ma il regime dittatoriale derivato dalla controrivoluzione burocratica stalinista; la globalizzazione, essendo un fenomeno irreversibile, priva definitivamente lo Stato della capacità di intervenire sui flussi di merci e fattori produttivi; la trasformazione postfordista delle forme di accumulazione fa venire meno la centralità sociale della fabbrica; è obsoleta la teoria marxiana secondo cui il capitale, nel suo sviluppo, produce il soggetto destinato a superarlo; è irrimediabilmente crollato l’asse fabbrica-sindacato-partito-Stato, che ha orientato le lotte del movimento operaio fin dalle origini; la forma partito di classe va sostituita con altre strutture, come il centro sociale, finalizzate ad organizzare tutti coloro che non si identificano nel modello liberista; in questa prospettiva è diventato obsoleto, non solo il termine, ma il concetto stesso di imperialismo, che va sostituito con la parola impero.
Il termine impero è tratto dal titolo di un celebre libro di Michael Hardt ed Antonio Negri, che descrive il declino della sovranità nazionale e la dinamica di un nuovo apparato di potere, esteso a livello mondiale, rivolto a governare identità ibride e gerarchie flessibili. Nell’immaginario della sinistra, descrivere la struttura del potere mondialista chiamandola impero, è molto efficace - perché ricorda il cattivo del film Guerre Stellari col mantello nero e con l’elmetto nazista - ma storicamente non è corretto. Innanzitutto gli universalismi dell’antichità erano fondati su valori ben diversi dall’attuale global governance. In secondo luogo gli imperi dell’antichità erano economie schiaviste o feudali. L’impero, inteso come stadio supremo dell’imperialismo, rimane un sistema capitalista.
Secondo gli autori, la teoria dell’imperialismo spiega efficacemente la fondamentale contraddizione dell’espansione capitalista, quella tra realizzazione e capitalizzazione del plusvalore, ma rimane legata all’idea che un’insieme di contesti nazionali determini il regime di sfruttamento. Inoltre non riesce a configurare, come soggetto della lotta di classe, la moltitudine che si contrappone senza intermediari al sistema globale di produzione. Restano attuali solo alcune intuizioni di Lenin sul potere imperialista, che allarga i suoi limiti territoriali per assecondare l’espansione del capitale e scongiurare i conflitti sociali, ma si articola in strutture ed attua politiche che alla lunga ostacolano la formazione del mercato mondiale. Queste intuizioni servono soltanto a capire il passaggio dall’imperialismo all’impero ed il mutamento di paradigma che lo caratterizza.
Nell’analisi di Michael Hardt ed Antonio Negri, l’impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo. Nella forma imperialismo, che costituisce una proiezione della sovranità nazionale, i confini statali delimitano il centro di ogni singola potenza, da cui viene esercitato il potere sui territori esterni attraverso un sistema di canali e barriere che alternativamente facilitano e bloccano i flussi commerciali e finanziari. Al contrario, la forma impero non ha un centro di potere o frontiere ben determinate. E’ un apparato decentrato e deterritorializzante, che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale amministrando scambi plurali tra entità continuamente ridefinite. Il termine impero è utilizzato come un concetto e non come una metafora. Si caratterizza per la mancanza di limiti, spaziali e temporali. Pretende non soltanto di regolare le interazioni umane, ma di dominare direttamente la natura umana. Non rappresenta il suo dominio come storicamente transitorio, ma cristallizza l’ordine attuale per l’eternità.
La necessità di attualizzare la teoria dell’imperialismo - ricorrendo ad una terminologia che evoca discutibili similitudini - rivela una sostanziale debolezza di tale paradigma, non certo oggettiva ma soggettiva. Proprio mentre l’espansione del capitale genera squilibri sempre più evidenti ed il concetto di imperialismo in sé potrebbe aiutare a comprendere la realtà, coloro che se ne servono avvertono il bisogno di dire qualcosa di originale. Ci si dimentica che, se agli albori del XXI secolo si continua a discutere sull’argomento, il merito è principalmente di Lenin, che a suo tempo non si è preoccupato affatto di rinnovare il lessico degli autori cui si ispirava, ma ha rielaborato le loro teorie coerentemente al suo programma rivoluzionario. Appare quindi lodevole il tentativo di altri autori - come James Petras ed Henry Veltmeyer - di recuperare la nozione pura di imperialismo evidenziando la sua maggiore efficacia - rispetto alla retorica del pensiero unico ed alle astrazioni di un certo pensiero critico - nel contestualizzare i flussi commerciali e finanziari internazionali in uno scenario di potere ineguale tra Stati, classi e mercati.