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I fischi a Bertinotti e la crisi della sinistra

di Carlo Gambescia - 27/03/2007

 

I fischi ricevuti ieri da Bertinotti e la famigerata “cacciata” di Lama dall’Università di Roma indicano che per la sinistra italiana governare ( o comunque come nel 1977 aggirarsi nei dintorni del governo), facendo “cose di sinistra” è praticamente impossibile. Per quale ragione? Perché sussiste un nodo di fondo, mai sciolto, che risale, appunto, alla contestazione di Lama (che tra l’altro fu segnata anche da atti di violenza). Quella contestazione, piaccia o meno, mise simbolicamente fine a un processo di “socialdemocratizzazione” della sinistra italiana, e in particolare del Pci. All’epoca appena iniziato.
Ma procediamo con ordine.
Nel 1977 la sinistra si divide definitivamente in tre anime, da una parte i riformisti (in senso classico, con propensioni socialdemocratiche, ma largamente minoritari) e dall’altra i rivoluzionari (sempre in senso classico, anch’essi minoritari). E in mezzo una zona grigia, maggioritaria, né rivoluzionaria né riformista, diciamo continuista: nel senso della costruzione del socialismo, attraverso una via italiana, capace di coniugare riforme e rivoluzione. All’estrema destra dei riformisti, il Psi di Craxi. All’estrema sinistra, i cosiddetti gruppi più radicali (che definiamo leninisti, per semplificare) e la cosiddetta autonomia, contigua, quest’ultima, alla deriva terroristica, e perciò a rischio di strumentalizzazione.
Naturalmente abbiamo rozzamente semplificato la situazione, solo per rendere più fluido il nostro ragionamento.
Ora, che cosa è successo alle tre anime negli ultimi trent’anni?
I riformisti sono stati risucchiati dal riformismo liberale ( e in questo senso la sfida degli anni Ottanta è stata vinta post mortem da Craxi). Quella che era l’anima amendoliana del Pci oggi è rappresentata da Fassino, D’Alema, Veltroni, pur con sfumature diverse (più comportamentali che ideologiche). Anche perché questi leader si muovono tutti nell’alveo di una visione della politica fondata più sulla promozione collettiva dei diritti civili che di quelli sociali. Nonché di un sostanziale atlantismo in politica estera, al quale si affianca il liberismo (certo non estremo) in politica economica.
I continuisti (quelli che come Berlinguer, ispirandosi alla tradizione togliattiana (?), aspiravano a coniugare riforme e rivoluzione) oggi sono rappresentati dal gruppo di Mussi, e dunque dalla sinistra diesse, ma anche dalle maggioranze che controllano politicamente Rifondazione e il Partito dei Comunisti Italiani. Si tratta di un universo politico, “in grigio”, ancora oggi sospeso tra governo e lotte sociali. Ma in realtà indeciso su tutto. Che, al tempo stesso, rifiuta il riformismo liberale ma teme la rivoluzione. E che in pratica vive alla giornata. Trovando, di volta in volta, punti di contatto con i riformisti sul problema dei diritti civili. Ma non su quello della politica estera ed economica. Dove il continuismo, in quanto forza di governo, è costretto a contrattare su tutto, e non sempre con esiti vittoriosi.
I rivoluzionari, sono oggi rappresentati dai movimenti. Per usare un immagine - suggestiva ma imprecisa - si tratta di gruppi politici, a differenza di quelli del 1977, sospesi tra Lenin e Gino Strada. Tra la lotta sociale a sfondo antiatlantista e antiliberista e l’irenismo eroico, ma impolitico, del soccorso sociale ai popoli di tutto il mondo. In quest’ultimo senso si può parlare di rivoluzionarismo come tendenza a risolvere i problemi politici attraverso rivoluzioni sociali, o più spesso manifestando, in buona fede, propositi rivoluzionari. Senza valutare l’eventuale prezzo da pagare.
Ora, se Lama, all’epoca apparteneva all’area riformista, Bertinotti, oggi a quale area appartiene? La risposta è facile. A nessuna di queste. Bertinotti è la quintessenza del “confusionismo” politico. Pretende, infatti, di tenere insieme rivoluzionari, continuisti e riformisti; gli amici dell’America e i suoi nemici; il pacifismo e il liberismo (spesso armato e aggressivo). Di qui i meritati fischi dei rivoluzionari, le critiche dei continuisti, e la disistima dei riformisti. Tuttavia crediamo che il “confusionismo” bertinottiano abbia anche origini di tipo caratteriale . Siamo davanti a un uomo estremamente vanitoso e ambizioso. Il che può spiegare certi epiteti circensi, usati ieri dagli studenti …
Dal punto di vista della chiarificazione ideologica sperare in un’ evoluzione dell’intera sinistra in senso socialdemocratico è oramai praticamente impossibile. Dal momento che le socialdemocrazie europee si sono da tempo trasformate in partiti liberalriformisti (si pensi all’involuzione della socialdemocrazia tedesca). Mancano quindi referenti ideologici, alleati e appoggi concreti. Purtroppo, la fase socialdemocratica è stata a suo tempo saltata (per ragioni sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi). E ormai tornare indietro è impossibile. Il treno è passato. E ora la sinistra - ripetiamo, piaccia o meno - può salire solo su quello del riformismo liberale.
Restano il continuismo e il rivoluzionarismo, tra i quali neppure scorre buon sangue. Ma anche per essi è difficile immaginare una evoluzione positiva.
Il continuismo, è ancora troppo legato a ritualismi sindacali e patti ed alleanze (soprattutto sul piano locale) difficilmente rescindibili in modo indolore, soprattutto sotto il profilo della possibile perdita di risorse economiche, e dunque di potere.
Il rivoluzionarismo, se dovesse optare definitivamente per Gino Strada, non avrebbe più alcuna speranza. Non potrebbe che restare decisamente impolitico. Ma anche l’opzione leninista, in circostanze storiche molto diverse da quelle della Russia zarista, potrebbe essere assai pericolosa per la democrazia. Inoltre la pregiudiziale antifascista, certo storicamente giustificata, che anima i seguaci sia di Lenin che di Strada, impedisce ai rivoluzionari di intercettare importanti fasce di emarginazione sociale e politica. Inoltre, come conciliare la fuoriuscita dalla Nato con il pacifismo? Gli Stati Uniti porrebbero l’Italia, una volta fuori della Nato, sullo stesso piano di uno “stato canaglia”. Di lì la necessità di battersi, o comunque di dover trovare, nel probabile isolamento europeo, altri alleati, tra paesi invisi agli Stati Uniti, oppure rischiare di trasformarsi in stato-vassallo della Russia di Putin. Insomma, le cose sono molto più complicate di quanto ritengano, certo in buona fede, i rivoluzionari.
In conclusione, se i fischi di Lama sancirono la fine di un timido esperimento socialdemocratico, quelli a Bertinotti sanciscono la crisi definitiva della sinistra. Divisa oramai tra buoni affari, immobilismo politico e un rivoluzionarismo, sicuramente generoso, ma impolitico e comunque molto diviso al suo interno.
Dispiace dirlo, ma a meno che un cataclisma economico non rimetta improvvisamente in gioco forze antisistemiche, il futuro appartiene al riformismo liberale e conservatore. E questo almeno per una generazione.
Così vogliono gli Stati Uniti così vogliono i poteri economici. E così, in fondo, pretendono i consumatori di tutti il mondo.
Non c’è dunque altro da aggiungere. Paradossalmente, solo un disastro ci può salvare. La sinistra continuista e rivoluzionaria, così com’è, sicuramente no.