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Il passo delle oche

di Alessandro Giuli - 06/09/2007

E’ uscito in libreria “Il passo delle oche”, il

libro di Alessandro Giuli sull’identità irrisolta

dei postfascisti. (Einaudi, 176 pagine,

euro 14,50) Pubblichiamo il capitolo dedicato

alla politica culturale.

 

Nel 1971-72 Giorgio Almirante inaugurò

una politica di “presentabilità”

politico-culturale che non sarebbe

stata dimenticata. Allora il segretario del

Movimento sociale italiano faceva le prove

generali di una metamorfosi che ventitré

anni dopo avrebbe trovato una sua

maturazione in Alleanza nazionale. Almirante

affianca alla vecchia sigla Msi

quella di Destra nazionale e ci costruisce

sopra un programma di allargamento ai

moderati monarchici e cattolici spaventati

dall’orso comunista. I savoiardi accettano

l’invito e insieme con loro giungeranno

nel partito ufficiali dell’esercito

e funzionari di polizia, come l’ammiraglio

Gino Birindelli, comandante

delle forze Nato nel Mediterraneo.

Parallelamente, Almirante si

pone anche il problema di mettere

in forma un minimo d’intellighenzia

organica al partito. In mancanza di

materiale all’altezza, o disponibile

all’operazione, la scelta cadrà

sul filosofo ex marxista Armando

Plebe. Tracce intellettuali non ne

restano. Le urne premiarono invece

la strategia almirantiana: nel ’72 l’Msi-

Destra nazionale ottiene il 9,2 per

cento al Senato e l’8,7 alla Camera. La

rappresentanza parlamentare è quasi

raddoppiata: 56 deputati e 26 senatori.

Oltretutto il Movimento sociale può finalmente

vantarsi d’avere scoperto in Plebe,

già collaboratore dell’Accademia sovietica

delle scienze e autore di un libro

sulla filosofia della reazione, il volto nuovo

che mancava alla cultura di destra. In

quegli anni il potere politico dell’intrattenimento

musicale e televisivo era scarso,

altrimenti si sarebbe forse pensato a

reclutare anche in quel serbatoio.

Oggi sono cambiati soltanto i nomi dei

protagonisti. Alleanza nazionale non ha

mai faticato a tenersi lontana dalla cultura

sotterranea (la più vivace), che si è rifiutata

di passare dal nostalgismo provinciale

all’antifascismo smagliante di Gianfranco

Fini, ma non ha risolto il problema

d’una destra tutta ciccia e brufoli da

collocare nell’età adulta della società intellettuale.

Della neonata Fondazione

Farefuturo si può ancora dire che agli occhi

dei promotori dovrebbe rappresentare

la risposta delle risposte, la chiave algebrica

di una nuova equazione culturale.

Ma poi basta scorrere l’elenco dei coscritti

per comprendere che si sta sempre

lì, fermi tra la classificazione iperinclusiva

– se siamo in tanti ci si nota di più

– e l’esibizione fenomenale. Così, nel comitato

promotore di Farefuturo stanno i

nuovi arrivati Sabino Acquaviva (sociologo)

e Tina Lagostena Bassi (avvocatessa

famosa), a fianco dei soliti Adolfo Urso

(dirigente finiano) e Luca Barbareschi,

Rita Dalla Chiesa, Fabio Torriero (quello

che improvvisò i girotondi antifiniani nel

2005 e fu sommerso di pernacchie), e poi

gli emergenti Alessandro Campi (direttore

scientifico) e Angelo Mellone (direttore

editoriale) con la neodestrista Monica

Centanni. E via a seguire con l’urologo

napoletano, il soprano veronese, l’imprenditore

bresciano e il metallurgico

bergamasco. Per un totale di centocinque

unità di per sé rispettabilissime, ma che

nell’insieme convalidano l’impressione

di una foto di gruppo nella quale la destra

si mostra bisognosa, per esserci, di

egemonizzare il casellario delle libere

professioni e i camerini dello spettacolo,

l’impalpabile e anonimo sillabario sottoaccademico

e le cosce tornite di un

pensiero deboluccio rappresentato dal

primo che arriva e mette la propria firma

in calce a un documento.

Il più intraprendente fra i giovani pensatori

finiani, Mellone, giustifica così,

nel numero monografico di Charta Minuta

dedicato a Farefuturo:

Le fondazioni, nel panorama della

politica contemporanea, sono i luoghi di

elaborazione della cultura politica potenzialmente

meglio attrezzati per svolgere

questo compito, così importante e

così affascinante al tempo stesso. La relazione

tra la dimensione della “giovinezza”

e le fondazioni si articola in due

processi, la formazione di una classe dirigente

che fonda creativamente talento

e anagrafe, e una capacità di elaborazione

politica strettamente legata all’elemento

della novità, dell’inesplorato,

dell’avamposto.

Messa così, come una piccola pietra

tombale del passatismo che fu centrale

nell’identità missina e ora diventa odiosa

alla meglio gioventù finiana, il programma

si presenta alto e pieno di pretese.

Ma in cosa poi consista il cuore della

nuova identità sulla quale costruire

consenso, questo non è ancora chiaro.

Per ora si affaccia una cifra stilistica, un

modo d’essere rivelato dalle pagine culturali

del Secolo d’Italia e nei libri d’occasione

dei Mellone e dei Lanna, mentre

i più stazzonati intellettuali come Marcello

Veneziani ripiegano nell’intimismo

vittimista e virano altrove.

Per studiare il fenomeno bisogna

guardare al Corriere della Sera diretto

da Paolo Mieli. Il mielismo, che da lui

prende il nome, è quell’ingranaggio giornalistico

che, dopo aver fatto le prove generali

con la direzione della Stampa

(1993-94), si dice avesse messo la minigonna

al Corriere attraverso un gioco alto/

basso nell’alchimia delle notizie offerte.

In questa meccanica il retroscena colorato

si accompagna sempre alla gravitas

della cronaca politica, l’intrusione

nel privato occhieggia accanto alla dimensione

pubblica dell’establishment

raccontato. Di punto in bianco Paolo

Mieli e i suoi amici hanno preso a leggere

con indulgenza morbosa le pagine del

Secolo d’Italia e i libretti dei nuovi Armando

Plebe (però cresciuti a destra).

Ne è derivata una consuetudine divertente:

non c’è un’occasione in cui la stonatura,

il calembour, lo spiazzamento o

la fuga dal luogo comune azzardati dal

destrista di turno non finiscano per essere

ripresi dal primo quotidiano nazionale.

Una ripresa compiaciuta, spesso

corredata da infografiche che rappresentano

mappe e alberi genealogici, con

le foto miniaturizzate dei protagonisti

(come dei santini per un gioco di società)

e titoli squillanti a segnalare il caso

estemporaneo. L’importante è che non ci

annoi andando in profondità. Gli altri

grandi giornali hanno imparato a seguire

lo schema. E i finiani, vellicati dall’inattesa

attenzione altrui, ne sono diventati

l’alimento predestinato. Come la volta

in cui Filippo Rossi (compare di Lanna

nella stesura di “Fascisti immaginari”,

Vallecchi 2003) scrisse sul Secolo un

corsivo titolato: “Blasco uno di noi” (18

maggio 2005) e ne nacque la solita polemica

di topografia politico-musicale, generalmente

deludentissima per un paesaggio

politico che viene sbertucciato

puntualmente dall’artista del quale magnifica

l’irregolarità per appropriarsene

un poco. Come insegna lo stracorteggiato

Franco Battiato, invitato a Catania da

Ignazio La Russa affinché si esibisse a

corredo di una festa tricolore, e quasi subito

disgustato dal sapore strumentale

dell’iniziativa. Circondato da bandiere

che non sono mai state le sue, il cantautore

siciliano chiuse in fretta e furia il

concerto e se ne lamentò pubblicamente,

guadagnandosi un cavernoso “ma se

ne vadaaaaa” emesso in via definitiva

dall’inferocito La Russa.

C’è poi la volta in cui Fini s’inventò la

confessione d’una canna giamaicana da

lui fumata in un fuligginoso viaggio di pochi

anni fa, e il Corriere ci ricamò immediatamente

una breve pastorale su An e

gli stupefacenti. Mentre sul Secolo fiorì

poco dopo un’apologia di Bob Marley –

seppure disinteressata, perché scritta

dal musicologo Federico Zamboni – che

consentì alla Stampa di titolare: “Voilà,

e il Secolo mitizza le canne” (2 marzo

2006). Episodi analoghi sono germogliati

intorno al Piper, a Patty Pravo, a Pier

Paolo Pasolini e a Dino Buzzati, alle curve

degli stadi e a Moana Pozzi, ai cartoni

animati e alla satira più o meno pecoreccia,

al Bagaglino e alle sottoculture

metropolitane. Con il solito schema: a destra

si rivendica una qualche paternità

culturale nella zona di frontiera se non

nel campo avverso, da sinistra qualcuno

la prende sul serio, e l’editoria ne ricava

un capitolo gustoso per la rubrica immaginaria

“strano ma vero” (intendendo,

ma non potendo più scriverlo dopo Fiuggi,

“strano ma nero”).

Ovviamente il lato sghembo della faccenda

non sta nel mielismo sublimato

dalla stampa italica. E’ nel fatto che allo

svestimento dell’informazione, a questo

infotainment alto basso generalizzato, la

destra pensante risponde lasciandosi vestire

di mille colori sgargianti, pur di farsi

notare. Come fosse uno strano totem

ornato d’un cartellino al collo con su

scritto “cultura di destra, purchessia”,

un totem con la faccia sempre sogghignante

per l’obbligo formale di contraddire

il piagnisteo dell’escluso praticato

fino all’altroieri, un totem compiaciuto

ma incosciente del trucco che gli sta colando

lungo la faccia pitturata. Uno spaventapasseri

che finalmente, il 18 marzo

2007, ha trovato la degna colonna sonora

del proprio congedo dal senso della misura:

“Bella ciao”, la canzone giusta “per

riuscire a emozionarsi senza più rimandi

agli stati d’animo che per tanti anni

hanno spaccato il paese”. Ed è verosimile

che il giradischi non si fermerà li.

Né mancano le legittimazioni teoriche

di questo situazionismo male assimilato.

Lo stesso Mellone ne offre una recente

con il suo “Dì qualcosa di destra. Da Caterina

va in città a Paolo Di Canio”, Marsilio

2006. Che animale è? Un animale

bizzarro, frutto dell’esigenza di classificare

tutto il classificabile che si muove a

destra, come un’infografica gigantesca

nella quale si succedono i profili degli

intellettuali arrabbiati alla Franco Cardini

e i fermo immagine cinematografici

della rappresentazione popolaresca inflitta

da sinistra all’universo postmissino,

le suggestioni della solita fantasy tolkieniana

e i saluti romani di Paolo Di Canio,

l’orrore condiviso per l’estremismo di

Oriana Fallaci, le occupazioni dei centri

sociali di destra, l’archeologia filosofica

della nuova destra e l’islamismo di Pietrangelo

Buttafuoco, il modernismo giornalistico

di Aldo Di Lello e il realismo

eroico di Ernst Jünger.

Fosse soltanto un immenso spot autopromozionale,

e in larga parte lo è, verrebbe

rubricato nell’ordine delle debolezze

personali d’un cervello ambizioso.

Ma l’obiettivo dichiarato toglie ogni scusante:

“Rivelare l’esistenza di una “destra

italianissima” radicata nella società,

dinamica, creativa, serenamente

postideologica, che si muove tra i fenomeni

di costume, il dibattito intellettuale,

le culture popolari, l’immaginario diffuso”.

La logica che sottende questo libro,

diretta e degna filiazione del “Fascisti

immaginari” di Lanna e Rossi, è

sintetizzabile nello slogan: “Quello è

uno dei nostri”. E’ così che si fa cultura

a destra: si pesca un po’ dappertutto, si

raccatta quel che si trova e lo si ordina

per categorie dello spirito. Occorre dotarsi

di presentabilità nel mondo dello

spettacolo? Ecco Mellone:

Nella recitazione troneggia la triade

Pino Insegno-Luca Barbareschi-Lando

Buzzanca: il primo ha partecipato con

entusiasmo alle celebrazioni del decennale

di Alleanza nazionale, e su uno dei

blog del cannocchiale.it l’hanno candidato

a sindaco di Roma per il centrodestra

nel 2006. Il secondo, socialista non

pentito e ammiratore confesso all’Unità

di Enrico Berlinguer, convinto che “essere

di destra significa anche difendere

la libertà nel mondo dello spettacolo”, si

è dato alla denuncia della miopia del

governo Berlusconi nei confronti della

politica culturale e del ritorno della

“questione morale” con il film d’accusa

“Il trasformista”. Nelle orecchie di qualche

maggiorente di Alleanza nazionale

rimbomba ancora la sua accusa che la

destra in Rai ha pensato solo a piazzare

“mignotte”. Il terzo è riuscito nell’intento

di farsi coccolare da machisti e gay

nella veste di portavoce di una destra libertaria.

Il modello è questo e viene piegato a

qualsiasi campo dell’essere, corrisponde

all’appropriazione più o meno indebita

di un personale variegato che si lascia

intruppare dall’esterno, oppure proviene

dalle catacombe nere e finisce invariabilmente

per colorare a modo suo la

rassegna di una destra nella quale dovrebbe

convivere di tutto. Purché sia modernissimo,

veloce, al passo coi tempi e

stupefacente allo sguardo di qualche caposervizio

interessato all’entomologia

neodestrista.

Nasce così una forma bislacca di neodestrismo

yeyé. Una quinta dimensione

dell’irrealtà in cui uno come Mellone, al

contempo, con un braccio dà di gomito

all’amico telegiornalista – “Nel 2001

Mauro Mazza, da destra, prende il timone

del Tg2, trasformandolo in un sofisticato

contenitore informativo che innova

sostanzialmente il format telegiornalistico

italiano” – mentre con l’altro braccio

allarga il sipario della pornografia finalmente

pervenuta alla propria coscienza

di destra.

Ne è un caso l’attore di film hard Rocco

Siffredi. Nel 2005,quando è stata ventilata

un’ipotesi di candidatura con la

Fiamma tricolore, ha smentito premurandosi

però di non negare la sua simpatia

per la destra nazionalista. Protagonista

di una pubblicità sui benefici della

patatina, gliel’hanno censurata: i libertari

e i gaudenti di tutta Italia ne hanno

sofferto non poco.

Ecco come si scova un altro “dei nostri”

e lo si mette in fila nel battaglione

della cultura di destra. Una destra elettrica

che mangia slow food perché Carlo

Petrini ogni tanto va a cena con Gianni

Alemanno e allora: “L’alleanza, o perlomeno

la comunanza di intenti, con una

destra che punta sull’idea di una “rivoluzione

conservatrice” nell’agricoltura e

nella gastronomia fondata sul trinomio

gusto qualità identità nazionale appare

a molti un fatto naturale”. Una destra opportunamente

femminilizzata – ma senza

un grammo di riflessione nella testa –

che nel gennaio del 2005 applaude a

Lando Buzzanca quando “straccia la divisa

da Merlo maschio e diventa il ‘papà

ideale’ di un figlio gay”, senza contare

che “due mesi dopo, prima della campagna

per le elezioni regionali, su sollecitazione

di Daniele Priori, curatore della

rubrica “Gaya destra” sull’Indipendente

di Giordano Bruno Guerri, il presidente

della Regione

Lazio, Francesco

Storace, si

dichiara disponibile

a candidare

degli omosessuali

nella

sua lista”. E ancora:

una destra

che si commuove

però alla

morte di don

Giussani e Karol

Wojtyla e lo

fa con gli occhi

scaltri di Cardini e Adolfo Morganti, illanguiditi

dal “respiro del medioevo dei

grandi pellegrinaggi”.

E insomma una destra che, in nome

della logica secondo la quale, romanamente

parlando “a Gianfrà, che te serve?”,

si scompone in tante braccia e tante

mani quanti sono i santini del momento

ai quali rivolgere il proprio contegno

predatorio. Guai all’introspezione

e all’autoanalisi, l’essenziale è disporre

di materia per compilare la nuova enciclopedia

finiana e poi venderla porta a

porta, redazione per redazione, casa editrice

per casa editrice. In questo Mellone

è davvero onesto, scoperto e scanzonato.

Fino all’intemerata d’aver scritto e

di scrivere, insieme con gli amici di bottega,

aspettando la ripresina pittoresca

sul Corsera.

E’ il Corriere della Sera, trasformato

con la nuova fase di direzione di Paolo

Mieli in un attentissimo e invero sofisticatissimo

sismografo delle tendenze a

cavallo tra politica e costume, a stilare

una lista delle icone pop, musicali, letterarie

o cinematografiche che divengono

oggetto di disputa tra destra e sinistra,

in un gioco reciproco di scomuniche

e rivendicazioni.

In mezzo a tanto divertimento, quando

il partito ha bisogno di esibire il risultato

della vendemmia intellettuale, i cervelli

coscritti producono questo:

Alle celebrazioni per il decennale di

Alleanza nazionale nel gennaio 2005, fa

discutere un documento, presentato come

contributo culturale, in cui si rivendica

alla destra un composito pantheon

di campioni della “via italiana alla modernità”:

il teorico della “rivoluzione liberale”

Piero Gobetti e il futurista Filippo

Tommaso Marinetti, il compositore

Ennio Morricone e il prima fascio e poi

comunista Elio Vittorini, lo scrittore delle

radici Carlo Sgorlon e il fondatore del

movimento Slow Food Carlo Petrini, i

cantautori Lucio Battisti e Giorgio Gaber,

il fondatore di Comunione e Liberazione

Luigi Giussani e l’aristocratico arcitaliano

Indro Montanelli.

Ai giorni nostri, parva si licet, Mellone

e la squadra del Secolo sono pure riusciti

nella difficilissima manovra d’includere

nel club uno come Federico

Moccia, “Tre metri sopra il cielo”, pur di

uscire dalle catacombe e sentirsi consanguinei

ai milioni di adolescenti che,

beati loro, hanno un idolo cui votarsi

senza la preoccupazione di dover equipaggiare

l’intelligenza di Gianfranco Fini.

Ma anche questa operazione di microchirurgia

intellettuale è fallita, come

ha rilevato da una posizione liberalnazionale

Riccardo Paradisi (L’Indipendente,

15 maggio 2007).

Furono giorni di attività diplomatica

intensa quelli di Angelo Mellone alla vigilia

della festa dei giovani di An. Convincere

Federico Moccia a partecipare al

dibattito su “Tre metri sopra il cielo”

sembrava faccenda decisiva al colto talent

scout delle destre ignare di esserlo.

Milioni di copie vendute, un film cult,

l’onda lunga della polemica: con le censure

della sinistra su quelle vite di pariolini

solo griffe e motori, sul vitalismo

spiccio di Step e della sua Babi […] Moccia,

a lungo incerto, sciolse l’indugio e

alla fine si decise: “Vabbè, Angelo, ce

vengo”. E andò. Ma il dibattito non ferveva.

A sentirlo parlare di Step, superuomo

di massa postmoderno, i giovani

aennini erano accorsi pochi e quei pochi

erano pure distratti. Mellone – raccontano

le cronache – ci rimase male: “Ma

come”, si sfogava, “uno fa tanto per l’egemonia

sul mondo giovanile ed ecco la

risposta”. Bon gré mal gré però l’operazione

era riuscita: ora anche An aveva il

suo Baricco. Solo che l’artista è mobile.

In tempi postmoderni poi [… ] “Io di destra?

Ma no”, diceva ieri Moccia al Corriere,

“A me piace Veltroni, uno pragmatico”.

La destra minimizza, “Questioni

di opportunismo”, come dire: l’ideologia

mocciana resta di destra. Il fatto è

che Moccia è solo l’ultimo dei coscritti

che smentisce […] La destra – chissà

perché – è come uno strano Re Mida:

quello che tocca si sposta a sinistra.

E’ così che si presentano oggi gli ex

fascisti un tempo toccati dalle suggestioni

nordiche di Adriano Romualdi,

dallo stoicismo romano di Julius Evola,

dal combattentismo atemporale di Enzo

Erra, dal realismo eroico e maledetto

degli scantinati missini. Oggi sono postfascisti

immaginari, Lanna ha insegnato

loro che Moana Pozzi citava a memoria

frasi scolpite nel marmo ed erroneamente

attribuite a Evola: “Vivi come

se dovessi morire subito, pensa come se

non dovessi morire mai”. Sono i postfascisti

immaginari per i quali padre Pio

era un camerata non meno di Goldrake

e Capitan Harlock, mentre il bello della

destra sta nella riscoperta di Asterix e

di John Fante.

Liberi finalmente delle antiche vampe

nere che venivano dal cuore missino

e si ritorcevano nella rabbia di chi perdette

la Seconda guerra pur essendosene

salvato per ragioni di anagrafe, i finiani

si affacciano alla ricerca d’una

identità vittoriosa, si disciolgono nella

dimensione liquida dell’avanspettacolo

culturale, recitano a soggetto in attesa

del ricambio generazionale. Consapevoli

che una quota minima di notorietà

è destinata a cadere perfino nell’orto

della destra. Perché oggi si può Farefuturo

pure essendosi detti neofascisti per

trent’anni. E siccome sempre di teatro

si tratta: volendosi svendere, un tempo

costoro avrebbero almeno potuto mettere

in scena una coreografia parodistica

dei cabaret di Weimar, fra nazi-scollature

alla Leni Riefenstahl e stivali lucidi

marcianti, piume di struzzo viscontiane

e saluti teutonici alle religioni di

stato novecentesche. Oppure avrebbero

cantato sul palco “Il domani appartiene

a noi”, abbigliati come gli elfi tolkieniani

della “Compagnia dell’anello”, mefistofelicamente

abbinati dal clericale

Morganti alle insegne con il cuore sormontato

dalla croce: un po’ naturisti un

po’ salesiani, i sandali ai piedi, la bisaccia

con dentro “I proscritti di Von Salomon”

e via tutti in libera uscita per cercare

qualche contraffazione francese

del sacro Graal. Adesso le cose sono

cambiate, la grisaglia del buon governo

ha richiesto una excusatio complessiva

rispetto al passato. E di questo passato

è diventato strategico il recupero parziale,

il ripescaggio carnascialesco che

dà l’illusione di poter non rinnegare

Mishima affiancandogli Willy Coyote

come “archetipo dello spirito creativo”

(sempre Lanna e Rossi), il miraggio di

poter apparecchiare un grande martedì

grasso culturale attraverso il vagabondaggio

fumettistico e disincantato.

Oggi la cultura giovanile di destra recita

così, si è abbandonata alla calligrafia

momentanea concessa di volta in volta

dai grandi quotidiani furbi e compiacenti,

vive di provvisorietà onnicomprensive.

E così gli intellettuali di buono

o cattivo conio destrista si mescolano

nelle fondazioni e nei convegni come

tante farfalline di porcellana piantate

dentro un carillon muto. Sbattono

sbattono sbattono contro l’ostacolo sonoro

senza produrre nulla.

Ovvero, immalinconiscono come Marcello

Veneziani, che tanto s’era speso

per Fini ai tempi in cui dirigeva L’Italia

settimanale. Costretto dalla propria, frustrata

vicenda umana a ritrarsi nel racconto

delle malattie personali, Veneziani

cerca a volte di colpire Fini dalla postazione

che gli offre Vittorio Feltri su

Libero. Di regola lo fa in nome della sua

vecchia mentalità delnociana, un cattoconservatorismo

appassito. Ma poi risulta

sempre più autentico quando si affida

all’inconcludenza, quando narra di

sé (sempre sia “libero”) e dei libri che

gli ha bruciato la moglie tradita, del randagismo

patologico che gli impedisce di

dormire per più d’una notte nello stesso

posto, della pena morale che gli procura

la visione degli “Sconfitti” (è anche il titolo

d’un suo libro) di tutte le epoche e

civiltà. Veneziani è salito nel cielo della

Rai sollevato dai venti finiani e poteva

essere il cicisbeo più ascoltato da Gianfranco

Fini. Invece s’è rivelato l’anti Farefuturo

par excellence. Negli anni Novanta

ha creato L’Italia settimanale e Lo

Stato, le uniche due riviste settimanali

di destra dopo la chiusura de Lo specchio

(1975), e non si può dire che fossero

esperimenti infecondi. Ha scritto dei libri

sulla cultura di destra, ma è finito

sul “Sentiero del viandante” alla deriva

(è il titolo d’un altro suo lavoro, letterario),

lì dove gli restano in bocca solo il

vezzo del calembour e il fiele dell’incompreso.

Epperò, se il punto d’arrivo è

un nomadismo con gli occhi gonfi di sonno

e di promesse scrostate, il senso del

ridicolo lo accomunerà prima o poi alla

nuova genia dei futurologi finiani. Quando

anche loro s’accorgeranno d’aver ballato

in tondo seguendo uno spartito

scritto sopra il dorso ricurvo dell’intelligenza

incatenata all’ambizione politica

del giorno per giorno.