Medio Oriente, gli ostacoli al piano Usa
di Lucio Caracciolo - 01/10/2025
Fonte: La Repubblica
Il piano di Trump per la pace in Medio Oriente era appena stato annunciato dall’autore con la sobria retorica che lo distingue e già cominciava il festival delle interpretazioni. Ognuno vi legge quel che preferisce. Normale. Ovvio che il testo, frutto di centinaia di consultazioni, revisioni ed emendamenti necessari a ottenere il via libera di Israele e della pletora di Stati arabi e islamici chiamati a rinverdire la prospettiva degli accordi di Abramo, sia assai raffazzonato. Ridotto, fra l’altro, da 21 a 20 punti con l’esclusione della promessa israeliana di non ribombardare il Qatar dopo la fallita strage del politburo di Hamas riunito il 9 settembre a Doha. Netanyahu se l’è cavata con una telefonata di scuse al leader qatarino, testimone Trump.
Resta senza risposta la questione regina: questo documento, dichiarazione di princìpi tutti da negoziare fra i belligeranti, porterà almeno al cessate-il-fuoco e allo scambio di prigionieri palestinesi contro ostaggi israeliani? Due gli ostacoli principali: le parti in causa.
Anzitutto Hamas. Chi ha diritto di parlare per l’organizzazione che ha scatenato il massacro del 7 ottobre? Non si hanno notizie sulla salute dei suoi capi scampati alla morte nel raid israeliano, dopo che i predecessori sono stati fatti fuori. Alcuni potrebbero essere seriamente feriti. Eppoi non c’è mai stato un solo Hamas. Oggi più di ieri i suoi principali dirigenti sono nascosti in diversi paesi della regione, fra cui spicca la Turchia di Erdo?an, presidente della Repubblica ma anche riferimento della rete dei Fratelli Musulmani che comprende il ramo palestinese assediato a Gaza. Per convincere le milizie ancora annidate nei tunnel e fra le macerie della Striscia che operano di fatto in autonomia ci vorrebbe un leader riconosciuto da tutti. Sufficientemente carismatico. Non c’è o se c’è non si fa vedere.
Né basterebbe un comunicato ufficiale di generica accettazione del Piano da parte di qualcuno che pretenda di parlare per Hamas. Trump e Netanyahu sono stati chiari. Si chiama piano ma è un ultimatum. In caso di rifiuto, “finiremo il lavoro”. Quel “lavoro sporco” per il quale Bibi a suo pubblico dire viene privatamente congratulato dai colleghi europei e occidentali che ufficialmente lo criticano (solo il cancelliere tedesco ha avuto il coraggio di farlo a favore di media). Sappiamo in che cosa consiste questo lavoro secondo Netanyahu: liquidare tutti i terroristi, senza sottilizzare fra civili e miliziani, espellere quanti più gaziani possibile, controllare ed eventualmente annettere la Striscia.
Per avviare la pacificazione di Gaza, scintilla della “pace eterna” nella regione evocata da Trump, Hamas vorrà comunque negoziare sui punti più controversi. Su tutti, il disarmo. Solo gli sconfitti gettano le armi. Non risulta che gli autori del pogrom da cui tutto è partito si sentano tali e anelino la pensione. Anzi. Gli uomini delle brigate al-Qassam non conoscono altri mestieri oltre quello delle armi. Più di ogni altra condizione, questa appare la meno digeribile ai nemici di Israele. E tutto quel che riguarda il graduale passaggio di consegne dalle Forze di difesa israeliane (Idf) all’imprecisata Forza di stabilizzazione internazionale (ci saremmo anche noi ad addestrare la polizia locale?) è vaghissimo.
Decisiva sarà forse la battaglia politica già in pieno corso nello Stato ebraico. Mai come oggi i poteri sono divisi, a partire dall’intelligence. E il capo delle Idf aveva da tempo fatto conoscere a Netanyahu e al mondo la sua avversione per l’attacco a Gaza City, troppo rischioso e non dirimente. La guerriglia dei tunnel può continuare per anni via sortite mordi e fuggi. Certo i soldati israeliani non amano fare i poliziotti a vita. E viceversa. Il piano americano raccoglie la linea dei vertici dell’Idf e smentisce Netanyahu. Per quale motivo Bibi dovrebbe rinunciare a sabotarlo e continuare la guerra che non vuole finire, comunque non a queste condizioni? Intanto Smotrich e Ben Gvir, ministri dell’ultradestra teocratica, sparano a zero sul piano Trump. L’opposizione si riorganizza e punta ad elezioni entro febbraio. Secondo alcuni sondaggi potrebbe farcela.
Infine, l’incognita strategica. Netanyahu continua a lasciarsi aperta l’opzione di un nuovo attacco all’Iran per distruggere i 450 chili di uranio nascosti dal regime in un luogo che lui afferma di conoscere. Se ci riuscisse, otterrebbe di liquidare in un colpo il programma atomico iraniano, forse far saltare il regime, quindi lo Stato, per portare a termine il mai abbandonato sogno del Grande Israele, di cui Gaza sarebbe periferia. Il bottino vero è la Cisgiordania, ovvero Giudea e Samaria, dove i coloni avanzano con l’appoggio di Smotrich.
Per ora la guerra continua. Dalle parole ai fatti, almeno all’avvio del piano, molto ne corre. Nella migliore ipotesi, si sarà aperto un nuovo capitolo di un conflitto trattabile solo con palliativi. Sempre meglio una sporca tregua che un genocidio a man salva. Serve un piccolo miracolo, non la “pace eterna”.