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“Mafia capitale” era il copione per la terza serie di “Romanzo criminale”. Ma il Tribunale non è Sky

di Mauro Bottarelli

“Mafia capitale” era il copione per la terza serie di “Romanzo criminale”. Ma il Tribunale non è Sky

Fonte: Rischio Calcolato


Magari adesso la capiranno che occorre istruire i processi e non scrivere copioni per sceneggiature da fiction. Ben intesi, meglio essere chiari subito: il sottoscritto non difende affatto Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e tutti gli altri indagati che oggi la X Sezione penale del Tribunale di Roma ha condannato, né tantomeno nega il loro comportamento criminale. Anzi. C’è però un qualcosa di fondamentale, uno spartiacque nelle sentenza di oggi: non solo si tolta per sempre la parola “mafia” dal processo denominato “Mafia Capitale” ma si è stabilito anche un principio, fondamentale. La giustizia-spettacolo perde in aula, quella mediatica degli ultrà della manetta e dell’ideologia, pure.

Ed è un bene, perché significa che esistono ancora giudici che sanno amministrare le giustizia per quella che è, in tre ore di camera di consiglio (non 16 come per Bossetti) e fregandosene bellamente del circo mediatico da fiction di Sky che si era montato dietro questo caso. La Procura di Roma esce sconfitta dalla sentenza di primo grado, nettamente. Certo, le pene per i due principali imputati sono alte (19 anni per Buzzi, 20 per Carminati) ma proprio questo, in punta di codice penale, ci mostra come la Corte abbia voluto inviare un messaggio chiaro all’accusa: qui si celebrano processi, non si girano serie tv. Il tutto ruota attorno all’articolo 416-bis, quello che la Procura voleva vedere riconosciuto dalla sentenza, perché comprovava l’associazione di stampo mafioso, la creazione di un precedente: Roma diventava come Palermo, la mafia non era più solo lupara, coppola e Trinacria.

La Corte, invece, ha fatto cadere questa impostazione e nella maniera più fragorosa possibile: riconoscendo infatti l’associazione a delinquere semplice ma comminando, contemporaneamente, pene molto alte per questo reato, quasi vicine a quelle richieste dall’accusa per associazione mafiosa. Come dire, il reato c’è ed è grave ma voi avete proditoriamente voluto tentare l’assalto al fortino, il superamento della linea rossa. La mafia non c’entra, la delinquenza associativa sì: ed è importante che questo principio sia sancito chiaramente.

Anche perché l’aver scomodato l’articolo 416-bis, aveva permesso alla Procura di portare a processo imputati con un metodo da rete a strascico, moltissimi dei quali erano però usciti dall’inchiesta per quell’accusa già tempo fa, non ritenendo il tribunale che quella fattispecie potesse essere riconosciuta. Di più, lo stesso Raffaele Cantone, il taumaturgico presidente dell’Autorità nazionale antimafia, dispensatore di patenti con potere salvifico, sentito durante un’ udienza aveva riconosciuto che nel comportamento associativo degli imputati non vedeva caratteristiche mafiose: insomma, dov’erano gli arsenali, gli omicidi, l’intimidazione da para-Stato? Quell’azzardo, quindi, i procuratori di Roma lo hanno pagato apparentemente caro e tra 90 giorni, quando usciranno le motivazioni della sentenza, capiremo se i motivi di quella bocciatura risiedono in quanto ho appena scritto. Ma c’è dell’altro.

Scegliendo la strada del bersaglio grosso, la Procura ora rischia di aver aperto le porte non solo a una sconfessione del suo lavoro ma anche del carcere a molti: non è un caso se, al momento della sentenza, Massimo Carminati abbia gridato “E adesso quando esco?”, mentre suo fratello Sergio abbia immediatamente postato questo tweet:


più che un danno collaterale da eccesso di protervia accusatoria, un vero e proprio boomerang, temo non messo in conto con sufficiente attenzione. Una cosa, però, va detta chiara. Anzi, due. Nonostante sia lontano anni luce dalla loro impostazione e dalla loro delusione per la sentenza, quelli de “Il Fatto Quotidiano” hanno detto una cosa giusta, titolando l’articolo al riguardo nella versione on-line: “Per il sacco di Roma bastano i criminali comuni”. Già, la politica esce assolta da questo primo grado. A confermarlo, le parole del sindaco della Capitale, Virginia Raggi: “Hanno ucciso Roma, oggi vincono i cittadini”.

Come al solito, non ha capito un cazzo. La “ferita molto profonda nel tessuto sociale, di cui ora bisognerà ricucire i lembi con un percorso di legalità”, come l’ha definita l’esponente grillina, è di fatto la conferma che a pagare sono solo l’uomo nero e l’uomo rosso, pagano i simbolismi che il circo mediatico-politico ha messo sotto i riflettori per evitare che si facesse luce sul sottobosco generalizzato. Volevano l’associazione mafiosa per colpire in massa, hanno ottenuto pene severe per i due protagonisti da servizio al tg e poco più, oltre alla sconfessione della natura mafiosa del loro sodalizio. Il paradosso, anzi il cortocircuito, è che si attendeva questa sentenza con la bava alla bocca proprio mentre il Paese vede un fiorire di nuove cooperative e associazioni pronte a fare milioni con gli sbarchi, ora che l’UE ci ha detto in tutte le lingue che chi arriva in Italia, in Italia deve restarci.

Insomma, i manettari di “Mafia capitale” spesso e volentieri difendono il business dell’accoglienza, accampando – a turno – la scusa del dovere morale e dell’emergenza. Certo, i metodi da “Romanzo criminale” e da Banda della Magliana che sono usciti dalle indagini, tra spaccatura di dita come avvertimenti e telefonate di Carminati che tramutavano qualsiasi interlocutore in agnellino, hanno giocato la loro parte ma, alla fine della fiera, il principio è lo stesso: anche se non usi la violenza, stai entrando nel gioco in base al quale “gli immigrati fanno fare più soldi del traffico di droga”. Forse, allora, c’è dell’altro.

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Ed ecco il secondo e ultimo punto che va chiarito per bene. Anzi, sottolineato con l’evidenziatore giallo fluorescente. Molti di voi ricorderanno l’interrogatorio del pm Paolo Ielo a Massimo Carminati, durante il quale l’ex estremista di destra si dichiarò “un vecchio fascista anni Settanta che non rinnegava niente del suo passato”, anzi ne rivendicava continuità e coerenza, ideale e criminale: “Io non ho paura di fare la guerra da solo e la mia guerra non è ancora finita”. Solo su una cosa ebbe da obiettare: “Io con i servizi segreti non ho mai avuto a che fare”. Come dire, rapinatore, estremista, assassino sì. Infame, no. Coerente con il personaggio.

Fece scalpore il suo saluto romano in teleconferenza ma fu altro che, alla luce della natura delle accuse, stupì gli spettatori meno mediatizzati del processo: l’insistenza con cui il pm chiese conto a Carminati del suo colpo più eclatante, quello al caveau della filiale della Banca di Roma che si trovava all’interno del palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio, nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 1999. Perché Paolo Ielo insistette tanto, essendo un fatto per nulla attinente con la materia del procedimento in essere? Perché leggenda vuole che quel furto non garantì a Carminati solo parecchi soldi, da lui rivendicati parlando del suo tenore di vita ma anche alcuni dossier in grado di trasformare l’ex estremista nero nel ricattatore numero uno della Repubblica.

Lo confermerebbero, anni dopo, le parole dello stesso Salvatore Buzzi: “Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…trovano de tutto e de più. Eh, qualcuno (dei giudici) è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato? A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…”. Il punto è proprio questo: fra gli intestatari delle cassette di sicurezza aperte vi erano magistrati importanti, avvocati, professionisti e impiegati del ministero della Giustizia. Il problema è: cosa cazzo c’entra tutto questo con “Mafia Capitale”?

Nulla. Ma Massimo Carminati è un mito, è il “Nero” di “Romanzo criminale”, il collegamento tra Banda della Magliana, politica, servizi segreti, massoneria, l’uomo ancora vivo e parlante di una stagione che non ha ancora svelato tutti i suoi misteri. Anzi. E’ il soggetto perfetto per una fiction, è l’uomo da prima pagina: soprattutto, è fascista e loro rivendica. Fateci caso: nelle cronache nessuno quasi rivanga il passato di estrema sinistra di Salvatore Buzzi (e nemmeno le quaranta coltellate con cui ammazzò il suo socio in affari) ma per Carminati l’appellativo è sempre lo stesso e sempre sfruttatissimo: “l’ex NAR”, i Nuclei Armati Rivoluzionari, storica sigla dell’estremismo nero che più volte incrociò i suoi destini con quelli dei misteri d’Italia della “strategia della tensione”.

Non a caso, Enrico Mentana condusse un ottimo special su Massimo Carminati, intitolato “L’uomo nero” e lo stesso refrain sul neofascismo sarà usato nello speciale che andrà in onda stasera su La7, a corredo di discussione sulla sentenza (poi non dire che non ti voglio bene Chicco, anche il promo ti ho fatto). Perché il pm Ielo voleva sapere dei fantomatici documenti che Carminati avrebbe trovato nelle 147 cassette di sicurezza violate su 900 in totale? Cosa c’entrava con i suoi traffici con Buzzi, con le coop, con lo strozzinaggio, le dita spezzate? Niente. E la difesa di Carminati lo fece notare palesemente alla Corte e alla stampa. I secondi fecero finta di niente. La prima, in punta di sentenza, pare di no. Perché, forse, tra 90 giorni le motivazioni ci diranno che quel non riconoscimento dell’aggravante mafiosa ha più a che fare con quell’insistenza nelle domande sul caveau piuttosto, che ne so, con le parole di diniego di Raffaele Cantone.

Forse, la Corte ha pensato che più che istruire un processo, si stesse cercando di scrivere e farsi approvare la sceneggiatura per la terza serie di “Romanzo criminale”, sfruttando l’unico superstite in vita. Nella speranza di arrivare a poter indagare su quelle cassette di sicurezza, su quei fantomatici documenti con potenziali segreti degli intoccabili d’Italia. Peccato che si fosse chiamati a pronunciarsi su coop, malavita e appalti. Non sulla Storia (deteriore e oscura) d’Italia.