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Umberto Fiori e la poetica degli Esempi

di Andrea Pozzoli - 28/02/2019

Umberto Fiori e la poetica degli Esempi

Fonte: Arianna editrice

“Perché il mondo potesse incontrare il mondo”

 

Come in treno

nei tratti di gallerie:

il fresco, poi di colpo la luce accesa

e buio, luce, buio

e luce di nuovo, e subito

buio luce e via, buio: nemmeno il tempo

di guardare, di affezionarsi.

 

Una volta lontani,

di tutto questo cinema alla fine

in testa cosa rimane?

Una fila di esempi, una serie

di facciate di case, rapide e serie.

 

Stanno lì, queste case,

come le spiegazioni

che i bambini pretendono e che poi

mai che le ascoltino.

                                                                                                   (Esempi, p. 9)

 

Una poesia in perpetuo transito è quella composta da Umberto Fiori, alla cui raccolta Esempi[1] siamo, infatti, introdotti da un treno che sfila rapido tra le case. Ciò che ci scorre davanti agli occhi, viaggiando in auto, sedendo sui mezzi pubblici o passeggiando per le strade senza una meta, è un interminato discorso tutto fatto di cose: semafori, monumenti, marciapiedi, pali della luce, banche, stazioni, fermate e tantissime case – “una fila di esempi” che noi guardiamo “come un bambino / dentro gli occhi / di chi lo tiene per mano / segue un lungo discorso / serio, che qualcuno / fa, lì davanti” (La scena, p. 90).

 

È un discorso che, come infanti che non intendono i dialoghi degli adulti, non capiamo e che, quindi, non sappiamo mettere in discussione; infatti, “la luce sul capannone, / le due finestre murate / e il fosso, lì sotto, e i platani, / hanno ragione” (Vista, p. 64). Tuttavia, a vedere “le case là dietro / diritte, piene di luce: / vederlo questo ora, vedere com’è / giusto, vedere bene come non possa / essere altro, essere sbagliato, / viene un vuoto” (Così, p. 53), perché “alte sopra la tangenziale, chiare, / due case con in mezzo un capannone” sono una “apparizione, / ma non c’è niente da annunciare” (Apparizione, p. 72). Così, sebbene persuasi che le cose abbiano ragione, una domanda rimane inevasa: “cosa c’è dietro?” (Centro, p. 56), “E questi pali, questi prati, / tutti questi esempi concreti / – cosa dimostrano? Di che cosa sono prove?” (Verità in costume, p. 36); e, ancora, di questo “paesaggio che ti sfugge, / viene, brilla e si svuota / come in uno specchietto retrovisore” (Paesaggio, p. 66), “di tutto questo cinema alla fine / in testa cosa rimane?” (Esempi, p. 9).

 

La risposta è inevitabilmente “Nulla”, perché di fronte agli Esempi di questo discorso continuo e assordante ma incomprensibile, “Guardi, e ti chiedi / come sia possibile / imparare da loro” (Vista, p. 64). Del resto, lo sguardo stesso è ostacolato da un muro (“Dentro di me c’è un muro”; Uno, p. 92) che non permette di vedere oltre e che ci costringe a farci i conti, perché è così che l’uomo “impara / a stare al mondo, / impara a parlare al muro” (Muro, p. 89). Laddove, invece, lo sguardo può spingersi lontano, spesso è solo per osservare un’immagine non verace della realtà, nella quale il discorso di cui le cose sono il lessico essenziale viene ripetuto senza alcuna aggiunta di senso, perché “il palazzo di fronte / riflette / il palazzo di fronte” (Partenze, p. 29), così che “Sul mio terrazzo / sento che sole e casa / e mondo e sguardo / mi guardano da dietro” (Mattino, p. 10). La reminiscenza platonica diviene, dunque, d’obbligo, se l’immagine che è discorso della realtà è solo una sua replica priva di senso, che ci fu messa di fronte perché noi la considerassimo vera:

 

A furia sempre di chiedere

e spiegare, e rispondere,

a furia di scavare per vedere

oltre le cose,

a furia di sfondare e di capire,

ecco il retro del mondo.

 

Queste vetrate specchiano

la scena che sta alle spalle

di chi le guarda.

 

Il muro cieco, in mezzo,

è una bellissima schiena.

                                                                                                   (Dietro, p. 52)

 

In questa congestionata concentrazione cittadina, pertanto, “più grande di tutto è lo sguardo, / ma le case sono più grandi” (Sguardo, p. 35), tanto che, “quando verso le sei del pomeriggio / in una via già in ombra / ti capita di alzare / la testa, e di vedere / [...] i piani alti di un paio di palazzi / ancora in piena luce”, ti accorgi di come il sole non sia più visibile a chi passeggia per strada, ma ancora “le case vedono il sole” (La scena, p. 90). In questo spazio urbano che ostacola o deforma lo sguardo dell’uomo, il prossimo diviene conseguentemente qualcosa di trascurabile e nei confronti del quale rimanere indifferenti. Così, sull’autobus

 

[...]

la gente medita.

 

[...]

Li hai tutti addosso, lì dentro, 

ma sono via. Senti che mancano

e ti senti mancare

insieme a loro. Non possono vederti

e tu non puoi vederli. Solo, con gli occhi,

controlli fuori la faccia che fanno

una a una, passando, le loro case.

                                                                                                   (Passeggero, p. 11)

 

Dunque, “si sta come in ascensore / con uno, con un signore, / per un paio di piani” (Giardini, p. 17) e il primo ineludibile esito di questa indifferenza non può che essere un patologico solipsismo collettivizzato, “perché uno, quello che ha dentro / è lontanissimo e nascosto, / ma intanto si rimane lì per tutti, / in piazza, come un monumento” (Pensieri e monumenti, p. 45). L’ulteriore conseguenza di questa reciproca indifferenza è uno stato generalizzato di incomunicabilità tra gli individui, i quali, anche se per strada “si prendono a schiaffi”, lo fanno “senza nemmeno una parola” (Lite, p. 23); e se anche qualcuno si cimentasse nel tentativo di sostenere un discorso parallelo e alternativo a quello degli Esempi, nel quale tentasse di dire la propria e di dare un senso alla realtà, “il rumore che fa / il discorso / di colpo gli gela il sangue. / Si è perso. / Ormai gli sta uscendo nudo / dalla faccia nuda, il suo verso” (Intervenuto, p. 26). Non risulta soltanto difficile esprimere Un parere – infatti, “parlare ci separa” (Spiegarsi, p. 41), ma è addirittura doloroso, perché “fa quasi male / dire cosa ci pare, / tirar fuori la voce, confessare / di essere bruno, magro, / di essere lì, di essere uno” (Un parere, p. 73); e se anche si affrontassero con successo la difficoltà e la sofferenza e si arrivasse all’aperta discussione, questa rivelerebbe quanto grande sia il vuoto che abbiamo dentro e che ci accomuna tutti:

 

Al centro della stanza

intorno al tavolo

tutti gridavano

in faccia a tutti

sempre più forte,

come se chiamassero

da lontano, da un altro posto.

 

Quando poi in mezzo al chiasso, in una frase,

si è sentito quel timbro che fuori suona

gelido come dentro, è stato chiaro:

eravamo sul punto di cantare.

Stavamo per dire le cose

con gli occhi e con la bocca,

da pari a pari.

 

È stato come

per strada, quando ti accosti

alle tavole di un cantiere

e d’improvviso hai sotto tutto lo scavo

e di fianco e di fronte

altra gente affacciata

a vedere com’è, qui, veramente.

                                                                                                   (Discussione, p. 34)

 

Così, mentre la discussione vede alzarsi i toni e coloro che vi partecipano mostrano la voragine che portano dentro di sé come uno scavo nel piano stradale sfondato, ci si scopre protagonisti di una mancanza che di nuovo prende la forma della solitudine; infatti, “mentre le cose / ti vengono nella voce / e ti scaldano, più le ascolto / più sento come sei via. / E anch’io, anch’io sono là. / Siamo così. Siamo quello che manca / in tutte le spiegazioni” (Spiegarsi, p. 41).

 

Del resto, come si può formulare un proprio discorso – parallelo e alternativo a quello degli Esempi – che sappia affermare una verità, se tutta la realtà di cui l’uomo urbano fa esperienza è negazione di qualcosa?

 

Quando è ora di uscire dal lavoro

in giro non si cammina.

Nel rumore di fondo, le voci

si capiscono appena.

 

Mezz’ora un’ora

poi le vie si svuotano,

il bar chiude, la gente

è già sparita.

 

Allora invece le case

si vede come niente le nasconde,

giorno e notte

davanti a tutti

come rimangono nude.

                                                                                                   (Orario, p. 65)

 

Non si cammina, non si intendono le voci, nelle vie non gira più nessuno, i bar non sono più aperti: l’unica parola non negata dal discorso degli Esempi è quella delle case, che devono necessariamente essere affermate per ostacolare lo sguardo – come visto – e per ricordarci sempre che, se il loro discorso regge, il nostro non può che risultare confuso e cadere nell’errore: “Siamo in errore. / Eppure a volte uno lo vede bene / il suo errore, lì, com’è fatto, / lo sente come parla e come si muove / dentro, e la voce esatta che ha” (Pedone, p. 59).

 

Potremmo, dunque, provare a tornare ad ascoltare il discorso delle cose che ci circondano e le tacite spiegazioni che ci rivolgono:

 

[...]

Noi le ascoltiamo

come al cinema il buono

legato e imbavagliato

quando, prima di ucciderlo, il cattivo

gli rivela il suo piano

punto per punto, racconta come stavano

veramente le cose,

e la scena continua,

il discorso diventa trasparente

a poco a poco – ormai solo il profumo

di un discorso.

 

Si perde prima una frase,

poi tutto il filo. [...]

                                                                                                   (La verità in costume, 36)

 

Questa si profila essere la condizione dell’uomo urbano contemporaneo: un buono legato e imbavagliato da un cattivo e costretto ad ascoltarne un dettagliato discorso sadico e compiaciuto, del quale si presume di seguire il filo, finché si scopre di non aver compreso nulla. Se la vita è, dunque, questo tentativo di comprendere l’incomprensibile, sperando di riuscire ad interpretare il minimo indizio, non stupisce se

 

[...] qui si sta, come un cane

lasciato chiuso in macchina

al sole, in un piazzale quasi vuoto,

una bestia che per ogni cric nella ghiaia

drizza le orecchie, e si scuote al minimo suono

di passi, lontano, o di risate.

 

Io provo a pensare, e ragiono,

e dentro sento tutta la testa che abbaia.

                                                                                                   (Qui, p. 58)

 

“Qui si sta”: forse è questa la svolta, l’intuizione decisiva, perché, se non possiamo vedere oltre ciò che ci circonda e che ci rivolge un discorso che non comprendiamo, un tentativo di risposta può essere ricercato nel nostro Qui, considerato in se stesso come l’unico possibile incipit del nostro personale discorso. In effetti, rispetto alle cose che attorno a noi ci confondono, “Qui / è sempre via da loro” (Spiazzo, p. 74) ed è trovandomi nel mio Qui che “imparo che cos’è / avere un nome, / trovarsi qui, / nei posti che ci reggono / e ci risparmiano” (Nome, p. 24). Il Qui è la prima radice di chi siamo, del nostro “avere un nome”, ma questo non basta, perché non può che implicare in se stesso anche il nostro destino su questa terra; altrimenti perché “siamo venuti a stare / qui, sulle spine” (Spiegarsi, p. 41)? Quale senso avrebbe il dolore?

 

Siamo venuti a stare qui “perché il mondo / potesse incontrare il mondo” (Spiegarsi, p. 41), ovvero perché il mondo non semplicemente ci fosse, ma esistesse in virtù di un incontro in cui ogni limite, per quanto doloroso, fosse perdonato:

 

[...]

Sono talmente chiari,

talmente luminosi

i nostri limiti.

Chi li potrà perdonare?

[...]

                                                                                                   (Persona, p. 75)

 

Dobbiamo farlo noi stessi, prima di tutto. E perdonare i propri limiti significa non cadere nella tentazione illusoria di voler essere “Gli altri: per sempre salvi, luce di cinema / in uno sguardo buono” o di “Essere via, / là, dove niente può succedere” (Treno, p. 93). Piuttosto,

 

Che cosa si deve fare?

Che cosa si può fare?

 

Innanzitutto

bisogna salutare le persone,

guardarle in faccia, e se salutano

non risparmiare il fiato

e rispondere bene al saluto

ogni volta. [...]

                                                                                                   (Canto, p. 78)

 

Non solo, ma anche

 

Buoni bisogna essere: perché

è il bene l’unico bene.

Essere veri, si deve.

Si deve vivere come si deve.

E si deve dovere.

[...]

                                                                                                   (Questo, p. 82)

 

Non solo gioco di parole, ma – al di là dell’apparenza tautologica – richiamo alla bontà fraterna fondata sul bene comune, alla verità che libera, alla vita degna di se stessa e alla responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri.

 

Se questa fosse la destinazione del viaggio, cioè la conclusione del discorso nel quale gli Esempi manifestino finalmente il proprio significato, non avrebbe senso che l’ultima poesia si intitoli Treno, quello con cui la raccolta comincia inoltrandosi nel tessuto urbano e con il quale conclude superandolo e scoprendo che

 

[...]

passato il ponte,

passate le ultime case,

c’è ancora mondo.

E in cima a questi monti

o in fondo ai campi, oltre i binari, sul fiume

e al largo, in alto mare,

ancora mondo. Anche lì

le cose sono vere.

[...]

                                                                                                   (Treno, p. 93)

 

Se, come la poesia, noi siamo in perpetuo transito tra le cose del mondo, non viene meno la “paura / che ogni volta ritorna / a non capire / là fuori, a che cosa tiene davvero, / cosa vuole da noi, la verità” (Treno, p. 93); ma adesso, nel segno della bontà, della verità e della responsabilità su cui è rifondata la comunità umana, il qui è vissuto nel perdono e, ricomponendosi la frattura tra noi e gli altri, il mondo può finalmente incontrare il mondo.

 

                                                                                                                               

 

 



[1] U. Fiori, Esempi, Marcos y Marcos, 1992, Truccazzano.