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Oltre l'occidentalizzazione del mondo: obiettivo decrescita

di Alain de Benoist - 10/11/2007

 

 

Le società antiche avevano spontaneamente compreso che nessuna vita sociale è possibile senza tenere conto dell’ambiente naturale nel quale essa si svolge. Nel De Senectute, evocando questo verso citato da Catone: «Pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva», Cicerone scrive: «L’agricoltore, in realtà, per quanto vecchio sia, se gli viene chiesto per chi pianta, non esita a rispondere: “Per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessi tali doni dai miei antenati, ma li trasmettessi anche ai posteri”» (7, 24). La riproduzione durevole è stata, in effetti, la regola in tutte le culture umane fino al XVIII secolo. Ogni contadino di una volta era, senza saperlo, un esperto di «sostenibilità». Ma molto spesso, lo era anche il potere pubblico. Un esempio tipico è offerto da Colbert che, disciplinando i tagli di bosco per assicurare la ricostituzione delle foreste, faceva piantare querce per fornire alberi di navi 300 anni più tardi.

 

I moderni hanno agito all’inverso. Non hanno smesso di comportarsi come se le «riserve» naturali fossero moltiplicabili all’infinito – come se il pianeta, in tutte le sue dimensioni, non fosse uno spazio finito. In ogni istante presente, hanno impoverito l’avvenire consumando all’eccesso il passato.

 

Il XX secolo è stato caratterizzato in molti modi: secolo dell’ingresso nell’era atomica, secolo della decolonizzazione, della liberazione sessuale, secolo degli «estremi» (Eric Hobsbbawm), della «passione del reale» (Alain Badiou), della generalizzazione della «metafisica della soggettività» (Heidegger), secolo della tecnoscienza, secolo della globalizzazione, eccetera. Il XX secolo è sicuramente stato tutto questo. Ma è anche il secolo che ha visto l’apogeo dell’era del consumo, della devastazione del pianeta e, di contraccolpo, dell’apparizione di una preoccupazione ecologica. Per Peter Sloterdijk, che caratterizza la modernità con il «principio sovrabbondanza», il XX secolo è stato in primo luogo il secolo dello spreco. «Mentre per la tradizione», scrive, «lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza perché metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, nell’era delle energie fossili si è realizzato intorno allo spreco un profondo cambiamento di senso: oggi si può dire che lo spreco è diventato il primo dovere civico […] L’interdizione della frugalità ha sostituito l’interdizione dello spreco – questo significano i continui appelli a sostenere la domanda interna»[1].

 

Questo spreco non va confuso con il consumo ostentato talvolta praticato dalle antiche aristocrazie, perché quest’ultimo non si separava mai da un elemento di gratuità e generosità che fa completamente difetto all’attuale società mercantile. Lo stesso Adam Smith definiva ancora lo spreco come un modo di cedere alla «voglia di godimento istantaneo». E nell’antica borghesia, la frugalità rientrava ancora nel novero dei valori cardinali, perché si pensava che permettesse l’accumulazione del capitale. Oggi che il capitale si alimenta da solo, creando incessantemente nuovi valori, le difese sono saltate da molto tempo. L’obsolescenza programmata dei prodotti è uno dei principi dello spreco.

 

All’inizio del XXI secolo, che si annuncia come un secolo in cui la “fluidità” (Zygmunt Bauman) tende a sostituire ovunque il solido – come l’effimero sostituisce il durevole, come le reti si sostituiscono alle organizzazioni, le comunità alle nazioni, i sentimenti transitori alle passioni di un’intera vita, gli impegni puntuali alle vocazioni immutabili, gli scambi nomadi ai rapporti sociali radicati, la logica del Mare (o dell’Aria) a quella della Terra – constatiamo che l’uomo avrà consumato in un secolo delle scorte che la natura aveva impiegato 300 milioni di anni a costituire.

 

 

 

 

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I due principali problemi che caratterizzano la situazione attuale sono, da una parte, la degradazione dell’ambiente naturale di vita sotto l’effetto degli inquinamenti di ogni genere, che hanno anche conseguenze dirette sulla vita umana e su quella di tutti gli esseri viventi, e, d’altra parte, l’esaurimento delle materie prime e delle risorse naturali oggi indispensabili all’attività economica.

 

Gli inquinamenti sono stati troppo spesso descritti per dovervi qui ritornare. Ricordiamo soltanto che la produzione annuale di rifiuti nei 25 paesi dell’OCSE ammonta oggi a 4 miliardi di tonnellate. In Europa, i rifiuti industriali superano i cento milioni di tonnellate all’anno, un terzo dei quali soltanto è oggetto di un ritrattamento. I francesi producono da soli 26 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno, ossia un chilo a persona e al giorno. Tra il 1975 e il 1996, la quantità di rifiuti e scarti vari (emissioni di gas carbonico, rifiuti minerari, erosione dei suoli, fanghi contaminati, ecc.) è aumentata del 28% negli Stati Uniti. Da qui al 2020, la produzione di immondizie è destinata a raddoppiare.

 

A partire dagli studi pionieristici di Charles King, iniziati fin dal 1957, si sa che la quantità di gas carbonico nell’atmosfera, prodotta dall’inquinamento, non cessa di aumentare dagli inizi dell’era industriale. Mentre nel corso degli ultimi 150.000 anni la concentrazione di CO² nell’atmosfera era rimasta pressappoco costante, ossia dell’ordine di 270 parti per milione (ppm), è iniziata ad aumentare verso il 1860, per poi conoscere una netta accelerazione a partire dalla metà del XX secolo, periodo durante il quale il suo tasso è praticamente raddoppiato ogni vent’anni. Questo tasso è fissato oggi a circa 375 ppm, con il 70% delle emissioni totali provenienti dai paesi dell’emisfero Nord che si sono più presto lanciati in una industrializzazione a marce forzate. Attualmente, l’umanità emette più di 6,3 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, ossia quasi il doppio della capacità di assorbimento del pianeta (dipendendo quest’ultima in modo vitale dalla superficie delle foreste e degli oceani). E tutto lascia prevedere che questo fenomeno proseguirà e si aggraverà.

 

Ora, sappiamo pure che esiste una rigorosa correlazione tra il tasso di CO² nell’atmosfera e la temperatura alla superficie della Terra. La concentrazione nell’atmosfera di gas a effetto serra imprigiona infatti il calore generato dal sole intorno alla Terra e causa un riscaldamento generale del pianeta. In soltanto trent’anni, la temperatura media della Terra è passata da 13,9 gradi a 14,4 gradi. Con un previsto raddoppio del tasso di CO² nell’atmosfera, ci si attende che essa aumenti ancora da 1,4 a 5,8 gradi nel corso di questo secolo[2].

 

Essendo il riscaldamento del pianeta massimale verso i poli, una delle conseguenze è lo scioglimento dei ghiacciai e delle banchise, che dilata la massa degli oceani, determinando una generale elevazione del livello del mare. Il livello medio degli oceani è già salito di 2,4 cm. nel corso degli ultimi dieci anni. Di qui alla fine del secolo, ci si attende un aumento di parecchi metri. Orbene, basterebbe un aumento di un metro per far indietreggiare la linea costiera in media di 1,5 km., il che provocherebbe l’evacuazione forzata di diverse decine di milioni di persone.

 

Attualmente, la Groenlandia già perde 51 miliardi di m³ d’acqua all’anno. Lo scioglimento completo della calotta glaciale della Groenlandia (la cui superficie equivale a quattro volte quella della Francia) potrebbe da solo far salire di 7 metri le superfici costiere del globo[3]. Sommato allo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico e dell’Antartico, esso potrebbe causare la sommersione di un gran numero di terre oggi emerse, da Manhattan alla Camargue, passando per i Paesi Bassi, le Maldive, le risaie inondabili dell’Asia, il delta del Nilo in Egitto, quello del Niger in Nigeria, quello del Gange in Bangladesh.

 

Lo scioglimento dei ghiacciai artici ha ugualmente come risultato che la parte nord dell’Atlantico conosce un brutale afflusso di acqua dolce. Ora, l’equilibrio tra l’acqua dolce e l’acqua salata costituisce in questa parte del mondo uno dei motori delle grandi correnti marine dette termoaline, che regolano l’insieme delle temperature mondiali e permettono all’Europa occidentale di beneficiare di un clima temperato a causa della risalita verso Nord di una corrente calda proveniente da Sud, il Gulf Stream. Questo afflusso di acqua dolce generato dallo scioglimento dei ghiacciai potrebbe, entro un determinato termine, provocare un raffreddamento generale dell’emisfero nord, che si ritroverebbe, dopo un certo tempo, immerso in un clima siberiano. Ricordiamo che quando la temperatura planetaria media era di soltanto del 5-6% più bassa di oggi, una parte dell’Europa (fino alla Germania) e dell’America del Nord era coperta da un ghiacciaio di 3 km. di spessore. Ora, secondo uno studio realizzato da 300 esperti, la calotta glaciale artica potrebbe sparire completamente da qui al 2070[4].

 

A partire dal 1969, abbiamo già registrato modificazioni climatiche che un tempo si sviluppavano nell’arco di diversi secoli. Gli anni 1998 e 2002 sono stati i due anni più caldi mai conosciuti. Questo riscaldamento provoca l’aumento della frequenza e dell’intensità delle tempeste, dei cicloni tropicali, dei maremoti, delle canicole, degli incendi di foreste, eccetera. Negli Stati Uniti si sono registrati 562 tornado durante il solo mese di maggio 2003, cifra mai raggiunta fino a quel momento[5]. Nel 2000, 256 milioni di persone sono state colpite da incidenti naturali o industriali, contro una media di 175 milioni di persone negli anni 1990, durante i quali si erano già registrate tre volte più catastrofi naturale che negli anni 1960[6].

 

Il riscaldamento del pianeta ha effetti devastanti anche sull’agricoltura, perché intensifica l’erosione dei suoli e aggrava l’effetto delle siccità, il che riduce in proporzione la capacità di produzione agro-alimentare nel mondo, e contemporaneamente estende l’area di certe malattie infettive e tropicali come il paludismo e la malaria. Studi realizzati nelle Filippine hanno mostrato che ogni grado di temperatura supplementare si traduce in un calo del 10% dei rendimenti agricoli.

 

Parallelamente, la deforestazione mondiale assume ogni giorno proporzioni più inquietanti. Nel corso del XX secolo, la superficie boscosa della terra è passata da 5 miliardi a 2,9 miliardi di ettari. Attualmente, si contano 140.000 km.² (la superficie della Grecia) di superficie di foreste distrutta ogni anno, ossia 28 ettari distrutti al minuto. Nell’ambiente tropicale, la deforestazione è raddoppiata tra il 1979 e il 1989. dopo aver perduto la sua foresta tropicale atlantica, il Brasile ha cominciato a distruggere la sua foresta amazzonica che era ancora intatta nel 1970. La deforestazione avanza in Amazzonia del 6% all’anno. Orbene, le foreste svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del clima del pianeta, la conservazione dei suoli, la prevenzione delle inondazioni, lo stoccaggio delle sostanze nutritive, la protezione delle vie d’acqua contro l’interramento. Esse costituiscono il 46% delle riserve di carbonio terrestre e assorbono il diossido di carbonio che nutre l’effetto serra. Si stima in 1,5 miliardi il numero di uomini che ancora oggi dipendono in parte dalla foresta per sopravvivere. Inoltre, le foreste tropicali costituiscono il biotopo naturale di circa il 50% delle specie animali conosciute, ossia la metà della diversità genetica mondiale[7].

 

L’aspetto più preoccupante della situazione dipende dal fenomeno degli effetti cumulati. Aumentando lo scioglimento del ghiaccio e della neve, diminuisce l’energia solare rinviata nello spazio, il che accresce l’effetto serra. Ma quest’ultimo provoca un nuovo innalzamento della temperatura, il che fa fondere ancora di più la neve e il ghiaccio. Lo stesso avviene con gli incendi delle foreste: più fa caldo, più ci sono incendi di foreste e più queste diventano vulnerabili. Ma diminuendo le foreste, diminuisce la capacità della terra di assorbire l’ossido di carbonio presente nell’atmosfera, il che causa un nuovo aumento della temperatura, che favorisce a sua volta gli incendi delle foreste. È quella che in cibernetica si chiama retroazione positiva[8].

 

Nell’ottobre 2003, un rapporto commissionato dal Pentagono (An Abrupt Climate Change and Its Implications for United States Security) considerava come plausibile lo scenario di una catastrofe climatica su scala planetaria nel corso dei prossimi venti anni.

 

Il problema delle risorse naturali, in particolare delle energie fossili, non è meno drammatico, poiché per definizione esse esistono solo in quantità limitate (e la loro combustione provoca anch’essa inquinamenti). Ora, tutta la civiltà attuale si è fondata sul loro sfruttamento. Più di tre quarti delle risorse energetiche che oggi utilizziamo sono risorse fossili (petrolio, gas, carbone, uranio) che assicurano la copertura del 90% dei fabbisogni mondiali di energia commerciale primaria: trasporti, elettricità, industria. Dopo i due shock petroliferi degli anni Settanta, la dipendenza dei paesi industrializzati nei confronti delle energie fossili non ha smesso di aumentare. La dipendenza da idrocarburi dell’Unione europea, oggi del 50%, dovrebbe raggiungere il 70% nel 2030.

 

Come si pone il problema del progressivo esaurimento delle risorse naturali? Il caso del petrolio è qui esemplare.

 

Il petrolio è un’energia dalla forte resa energetica, facile da produrre e da trasportare. Non è utilizzato soltanto nei trasporti, ma è presente nell’agricoltura, le materie prime, l’industria del riscaldamento, l’industria farmaceutica, ecc. Costituisce oggi il 40% del consumo mondiale di energia (il 95% nei trasporti, che rappresentano da soli la metà del consumo petrolifero mondiale). Il primo pozzo di petrolio fu aperto nel 1859 negli Stati Uniti, nello Stato della Pennsylvania. A partire da questa data, l’economia mondiale ha consumato circa 1000 miliardi di barili di petrolio. Oggi ne consuma 85 milioni di barili al giorno, contro 77 milioni nel 2002. Gli Stati Uniti ne utilizzano da soli più di 9 milioni al giorno per le loro automobili, mentre il principale paese esportatore, l’Arabia Saudita, ne produce ogni giorno solo 8 milioni!

 

Oggi si è avviato un vasto dibattito per sapere di quali riserve disponiamo e a quale ritmo saranno consumate. Secondo le stime più ottimistiche, al ritmo di consumo attuale ci restano tutt’al più 41 anni di riserve accertate di petrolio, 70 anni di gas e 55 anni di uranio. Ma i fabbisogni di petrolio dovrebbero aumentare del 60% da qui al 2020, raddoppiare da qui al 2040 e quadruplicare da qui alla fine del secolo. Anche con una crescita mondiale ridotta a una media di 1,6% all’anno, il consumo di petrolio dovrebbe raggiungere i 120 milioni di barili al giorno nel 2030. La Cina ha rappresentato da sola un terzo dell’aumento della domanda nel 2004. Se in questo paese, che conta oggi 1,2 miliardi di abitanti (e ne conterà 1,4 miliardi fra vent’anni), tutti possedessero una vettura, occorrerebbero più di 80 milioni di barili di petrolio al giorno per farle andare, mentre non se ne producono che 74 milioni al giorno nel mondo intero. La crescita del consumo di petrolio già supera quella del Pil mondiale dal 2002. Stiamo dunque per assistere a una radicale dissociazione tra l’offerta e la domanda.

 

Gli ultimi, grandi giacimenti petroliferi sono stati scoperti negli anni Sessanta. Quelli dell’Arabia Saudita, primo produttore mondiale, il cui sfruttamento è iniziato sessant’anni fa, dovrebbero cominciare a declinare nei prossimi anni – dato che le sue riserve sono state artificialmente gonfiate negli anni Ottanta, in seguito alla “guerra delle quote” che favoriva i paesi dell’OPEC aventi le riserve più importanti. Dal 1980, nel mondo si consumano quattro barili di petrolio per ogni barile scoperto, il che significa da un quarto di secolo il livello dei consumi supera quello delle riserve scoperte. Il margine di sicurezza, che misura la differenza tra il consumo e la capacità di produzione di petrolio, è oggi appena dell’1%. Si può certo immaginare che saranno scoperti nuovi, grandi giacimenti oggi sconosciuti, in particolare in Canada, se non addirittura in Russia, ma molti specialisti ne dubitano. Il mondo intero è già stato esplorato. Tali prospettive, ad ogni modo, non fanno altro che rinviare la scadenza. È chiaro che, quali che siano le riserve di petrolio disponibili, esse rappresentano una quantità finita e che un giorno saranno dunque totalmente consumate.

 

Bisogna peraltro sapere che il petrolio non lo si estrae in maniera continua, a prezzo costante, dalla prima all’ultima goccia. La produzione di un campo petrolifero segue una curva al vertice della quale si trova un picco (peak oil) che si chiama “picco di Hubbert” – dal nome del geologo King Hubbert che lo ha calcolato per primo – il quale corrisponde approssimativamente al momento in cui, essendo stata estratta circa la metà del petrolio disponibile, la produzione petrolifera comincia a operarsi a rendimento decrescente. Oltre questo picco, divenendo le quantità disponibili più rare e diminuendo l’efficacia energetica, si assiste a un aumento regolare dei prezzi.

 

Nel 1956, Hubbert aveva predetto, fra l’incredulità generale, che negli Stati Uniti il peak oil sarebbe stato raggiunto nel 1970. Il picco fu raggiunto nel 1971: dopo questa data, la produzione di petrolio greggio nell’America del Nord non ha smesso di calare, il che aumenta la vulnerabilità degli americani in materia di approvvigionamento energetico. Orbene, i carburanti bruciati negli Stati Uniti, mediamente cresciuti del 2,3% all’anno dal 1986, rappresentano da soli il 14% del consumo petrolifero mondiale. È questa, evidentemente, la ragione per cui gli Stati Uniti si danno da fare per controllare il più possibile le regioni del mondo (Vicino Oriente, Asia centrale) produttrici di petrolio e quelle che costituiscono le sue principali vie di instradamento. Di qui le guerre in Iraq e Afghanistan.

 

Su scala planetaria, il peak oil segna la soglia a partire dalla quale non si può più compensare il declino della produzione dei campi esistenti con nuovi giacimenti. Di conseguenza, un aumento dell’investimento non si traduce più in un correlativo aumento della produzione. È il fenomeno della “deplezione”. In quale momento il picco di Hubbert sarà raggiunto per l’insieme della produzione petrolifera mondiale? Alcuni esperti pensano che questo potrebbe accadere di qui a una ventina, se non addirittura una trentina d’anni. Altri, come i geologi Jean Laherrère, Alain Perrodon e Colin Campbell, fondatori dell’Associazione per lo studio del picco di petrolio e del gas (ASPO), ritengono che il picco sarà raggiunto fin dal 2008-2010, cioè quasi domani. I fatti sembrano dar loro ragione. Ma ad ogni modo, se la differenza tra le previsioni degli “ottimisti” e quelle dei “pessimisti” è solo di circa 30 anni, è evidente che la prospettiva è comunque inquietante.

 

Il barile di petrolio, che nell’agosto 2005 ha superato la soglia dei 65 dollari, dovrebbe fra non molto raggiungere il prezzo di 100 dollari. Se le ipotesi pessimistiche fossero confermate, sarà solo l’inizio di un volo. L’economista Patrick Artus pensa che nel 2015 il corso del greggio potrebbe sfiorare i 400 dollari al barile! A partire dal momento in cui il picco di Hubbert sarà stato raggiunto, i costi di estrazione e sfruttamento del petrolio non cesseranno di aumentare. Continuando a crescere la domanda, mentre l’offerta continuerà a decrescere, le conseguenze saranno esplosive. Il petrolio, come si è già detto, non è utilizzato infatti soltanto per i trasporti, ma rientra nella composizione di una quantità di prodotti di cui ci serviamo quotidianamente: materie plastiche, concimi, insetticidi, computers, giochi di costruzione, rivestimenti stradali, sedili di automobile, calze di nylon, ecc. Il rincaro dei prezzi porterà a concentrare l’utilizzazione del petrolio sugli usi a più forte valore aggiunto, come i settori dei trasporti e della chimica. L’industria aeronautica ne sarà colpita in pieno, come pure l’agricoltura (l’utilizzazione di concimi nel mondo è passata da 14 milioni di tonnellate nel 1850 a 141 milioni di tonnellate nel 2000). Anche il commercio internazionale sarà colpito: si cesserà di esportare o di far trattare di nuovo all’altro capo del mondo dei prodotti che possono essere consumati sul posto. Non avremo più pesci pescati in Scandinavia che partono per il Marocco per esservi svuotati, né consumeremo in Europa frutti provenienti per via aerea dal Cile o dall’Africa del Sud. Certi prodotti che hanno finora beneficiato del basso livello delle tariffe di trasporto, ridiventeranno dunque dei prodotti di lusso. Le delocalizzazioni perderanno una parte del loro interesse. Le grandi città, concepite a partire dal trasporto automobilistico, ne saranno a loro volta trasformate[9].

 

Le conseguenze per il sistema finanziario mondiale saranno ugualmente enormi. Attualmente, gli Stati Uniti traggono un considerevole profitto dal sistema dei petrodollari. Tutti i paesi che desiderano importare petrolio debbono prendere a prestito dollari per pagarlo, sostenendo così in modo artificiale questa divisa, che è al contempo una moneta nazionale e una unità di conto internazionale. In pratica, questo significa che gli Stati Uniti possono così permettersi un considerevole deficit commerciale senza immediate conseguenze. Se questo sistema si bloccherà, essi saranno i primi a soffrirne[10].

 

Anche prima che le riserve siano totalmente esaurite, l’aumento del prezzo del petrolio può dunque pesare in modo drastico sul suo sfruttamento. Per estrarre petrolio, carbone o sabbie bituminose, si ha infatti bisogno di energia, e dunque ancora di petrolio. In altri termini, può arrivare un momento in cui l’estrazione stessa non sarà più redditizia, qualunque sia il prezzo di mercato. Se bisogna bruciare un barile per estrarne uno, non lo si farà, anche se il prezzo del barile è di 10.000 dollari! È ciò che gli economisti classici non riescono a comprendere.

 

La speranza di molti è evidentemente di poter fare appello a energie sostitutive. Teoricamente, il loro numero è abbastanza grande, ma le possibilità che esse offrono sono tra le più limitate. I petroli non convenzionali, come gli oli pesanti del Venezuela e le sabbie bituminose del Canada, esigono, per essere estratti, quasi tanta energia quanta ne permettono di recuperare. Il gas naturale può servire a migliorare l’estrazione del petrolio o a fabbricare benzina di sintesi, ma, ancora una volta, consumando molta energia. Oltre al fatto che nemmeno le sue riserve sono inesauribili, la sua debole densità ne rende difficile il trasporto (il suo instradamento costa 4/5 volte più di quello del petrolio) e le installazioni per raffreddarlo e rigassificarlo sono costose. Le riserve di carbone sono più importanti, ma è un’energia molto inquinante e che contribuisce doppiamente all’effetto serra, poiché la sua estrazione provoca emissioni di metano (che possiede un effetto serra 23 volte più potente del CO²), mentre la sua combustione libera gas carbonico in grande quantità (1,09 tonnellata di carbone per tonnellata equivalente petrolio di carbone). Il problema essenziale dell’energia nucleare risiede, com’è noto, nello stoccaggio delle scorie radioattive, il cui tempo di vita è lungo (e in una catastrofe sempre possibile). Questa energia non è inoltre sostituibile al complesso petrolchimico e ai prodotti di consumo corrente che ne sono derivati. L’idrogeno è un vettore di energia, ma non una fonte di energia, e la sua produzione commerciale costa da 2 a 5 volte di più degli idrocarburi utilizzati per fabbricarlo. Inoltre, il prezzo del suo stoccaggio è 100 volte più alto di quello dei prodotti petroliferi, e ogni volta che si produce una tonnellata di idrogeno, si producono anche 10 tonnellate di CO²!

 

Le energie rinnovabili sono fornite dal vento, l’acqua, i vegetali e il sole. Per ora, rappresentano solo il 5,2% di tutta l’energia consumata nel mondo. Benché siano a priori più promettenti, sarebbe ugualmente illusorio sperarne troppo. I vegetali hanno una debolissima capacità energetica. La legno-energia (valorizzazione dei sottoprodotti della filiera-legno) implica una deforestazione intensa. I biocarburanti elaborati a partire dalla barbabietola, dalla colza o dalla canna da zucchero, come l’etanolo, hanno una resa abbastanza debole. L’energia solare, captata dalle cellule fotovoltaiche, ha anch’essa una resa limitata. Il solare termico è ancora oggetto di uno sfruttamento ridotto. L’energia idraulica è più competitiva, ma esige investimenti molto forti. L’energia eolica è molto conveniente, ma, tenuto conto della variazione dei venti, funziona solo tra il 20 e il 40% del tempo. Altri metodi, come il biogas, la talasso-energia, l’energia delle correnti sottomarine, ecc., hanno i loro limiti.

 

Restano delle tecniche di cui talvolta si parla, coma la fusione nucleare, la “fusione fredda”, il sequestro del carbonio o le centrali solari spaziali, ma la maggior parte di esse sono oggi allo stato di progetto, e quasi tutte necessitano di un consumo eccessivo di energia che rende incerto il loro prevedibile bilancio netto. D’altronde, la maggior parte delle energie alternative presentano motivi di interesse solo per l’esistenza di un petrolio a buon mercato. Occorre, ad esempio, molta energia per estrarre il carbone e instradare il minerale. Per fabbricare elettricità, occorre ancora energia, oggi fornita dal petrolio, il gas o il carbone. Allo stesso modo, i biocarburanti hanno bisogno di concimi e pesticidi, che furono all’origine della “rivoluzione verde”, ed esigono dunque petrolio per avere una resa sufficiente.

 

Ancora una volta, si può beninteso immaginare che in futuro saranno scoperte nuove forme di energia. In astratto, è sempre possibile, ma per ora fare una tale scommessa non è altro che un atto di fede. La verità è che, allo stato attuale delle cose, né le energie rinnovabili, né il nucleare classico, né le altre energie sostitutive conosciute dai ricercatori possono sostituirsi al petrolio con la stessa efficacia energetica e costi altrettanto esigui.

 

L’esaurimento programmato delle energie fossili ha già dato luogo a guerre per il petrolio. Nei prossimi decenni, sono prevedibili anche guerre per l’acqua[11]. Tra il 1950 e il 2000, il consumo di acqua nel mondo è infatti più che triplicato. Nel corso degli ultimi sette decenni, è stato persino moltiplicato per sei. L’uomo consuma oggi circa il 55% dei volumi d’acqua disponibili senza tener conto delle piene e il 65% di questi prelevamenti sono legati ai bisogni d’irrigazione dell’agricoltura. Orbene, anche qui, la domanda non cessa di crescere, anche solo per il fatto della crescita demografica e dell’inquinamento della falde freatiche. L’acqua è dunque destinata a diventare un bene raro. A questo proposito, esistono già larvati conflitti fra la Turchia e i paesi vicini, tra Israele e la Palestina, tra l’India, il Pakistan e il Bangladesh, tra l’Egitto, l’Etiopia e il Sudan, ecc.

Secondo Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca per l’Antartico dell’Università di Victoria (Nuova Zelanda), “la prosecuzione della dinamica della crescita attuale ci mette di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà quale la conosciamo non tra milioni di anni, e nemmeno tra millenni, ma da qui alla fine di questo secolo”[12].

 

 

2

 

Sulla gravità della situazione, molti sono d’accordo. Ma sulla condotta da tenere i pareri divergono. La teoria oggi alla moda è quella dello “sviluppo durevole” o “sostenibile” (sustainable development), espressione che tende a sostituire, dall’inizio degli anni Ottanta, quella di “ecosviluppo”, lanciata nel 1973 da Maurice Strong, e poi ripresa da Ignacy Sachs, Gunnar Myrdal, Amartya Sen, Colin Clark, ecc., prima di essere progressivamente abbandonata[13].

Lanciata propriamente nel 1992, in occasione del “vertice della Terra” di Rio de Janeiro”[14], l’idea di sviluppo durevole è stata prima divulgata nel 1987 dal celebre rapporto Brundtland (Our Common Future), di cui la conferenza di Rio aveva d’altronde fatto uno dei suoi documenti di base[15]. Questo rapporto definisce lo sviluppo durevole come un “processo di cambiamento mediante il quale lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, i cambiamenti tecnici e istituzionali sono in armonia”, ossia come un “modo di sviluppo che permette la soddisfazione dei bisogni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro”. È lo stesso principio che si ritrova nell’opuscolo pubblicato dall’ONU nel 1992, in occasione del vertice di Rio, dove è detto che d’ora in poi bisogna “gestire l’ambiente” con “tecniche ecologicamente razionali”, affinché l’attività economica umana non crei un livello di inquinamento superiore alla capacità di rigenerazione dell’ambiente.

 

In effetti, si constata presto che l’espressione “sviluppo durevole” si è trovata sin dall’inizio avviluppata in una certa indeterminatezza. Il rapporto Brundtland parla della necessità di non compromettere i “bisogni delle generazioni future”, ma si guarda bene dal definire questi bisogni, che sono implicitamente concepiti come esattamente identici a quelli delle generazioni presenti, che sono anzitutto orientati verso un consumo sempre maggiore. Non sono nemmeno precisati i mezzi pratici, economici e politici, che permettono di mettere in opera “tecniche ecologicamente razionali”. Il rapporto non fissa una linea da seguire, ma si limita ad esprimere una preoccupazione, il che probabilmente spiega che sia stato abbastanza facilmente accettato negli ambienti più diversi.    

 

Tra le innumerevoli interpretazioni dello sviluppo durevole che sono state proposte, due accezioni molto differenti si sono nondimeno imposte[16]. La prima mette l’accento anzitutto sulla preservazione dei biotipi e degli ecosistemi, e preferisce parlare di sviluppo “sostenibile” piuttosto che semplicemente “durevole”. La legittimità dello sviluppo economico è allora nettamente condizionata dalla sua capacità di rispettare l’ambiente. La seconda interpretazione mette al contrario di primo acchito l’accento sulla crescita: essenzialmente, è per preservare le sue possibilità di durata che lo sviluppo deve tenere in considerazione i problemi dell’ambiente. Il rispetto delle esigenze dell’ambiente naturale non è allora più percepito come la condizione necessaria per il proseguimento della crescita. In questa ottica, più che sulla nozione di limiti, si insiste su quella di “coerenza” (tra i fabbisogni economici e le risorse naturali globali). Quest’ultima posizione, abbastanza conforme, a quanto pare, allo spirito del rapporto Brundtland (il quale afferma che “ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova era di crescita, una crescita vigorosa”), è beninteso quella della maggioranza degli economisti, degli uomini politici e degli industriali. Il punto comune di questi due atteggiamenti – con il primo a priori più simpatico del secondo – è comunque la credenza che è possibile, con un certo numero di misure, rendere compatibili (o “riconciliare”) la protezione dell’ambiente e gli interessi dell’economia.

 

Riferendosi a questa seconda accezione, Michel de Fabiani, presidente di BP France, poteva freddamente dichiarare, l’11 ottobre 2001, rendendo conto dei lavori della quarta edizione degli Incontri parlamentari sull’energia: “Sviluppo durevole significa anzitutto produrre più energia, più petrolio, più gas, forse più carbone e nucleare, e certamente più energie rinnovabili. Allo stesso tempo, bisogna accertarsi che questo non avvenga a scapito dell’ambiente” (sic).

 

I fautori dello sviluppo durevole hanno in realtà distinto frettolosamente fra “sostenibilità forte”, la quale implicherebbe che si lasci intatto il capitale naturale, e “sostenibilità debole”, che indurrebbe a calcolare soltanto la “rendita di sfruttamento” del pianeta, ossia la differenza tra il prezzo di vendita delle risorse naturali e il loro costo di sfruttamento – l’idea generale essendo che questa differenza deve essere reinvestita nel “capitale di sostituzione”.

 

Tra i sostenitori dell’“eco-economia” troviamo un certo numero di economisti riformisti come Lester Brown, Pearce, Bishop o Turner, secondo i quali l’economia mercantile, fondata sullo sviluppo dei servizi e il riciclaggio delle energie pulite, potrebbe al limite divenire produttrice di un ambiente migliore[17], o ancora gli autori del rapporto “Fattore 4” (secondo il quale si potrebbe sin d’oggi produrre altrettanto con quattro volte meno energia e materie prime), Ernst Ulrich von Weizsäcker, Amory e Hunter Lovins. La maggior parte di loro citano i mezzi di cui oggi disponiamo per consumare meno materie prime ed energia, pur producendo gli stessi beni o servizi. Essi puntano su politiche pubbliche attive, che permettono di adottare misure “eco-efficienti”, e su un ripensamento dei sistemi fiscali in funzione delle esigenze dell’ecologia. In generale, sono favorevoli a diverse tassazioni, a una ristrutturazione urbanistica, a una riconfigurazione dei mezzi di produzione industriale, ecc. L’“eco-efficienza” consisterebbe nel ridurre gli inquinamenti e l’importanza del prelevamento delle risorse naturali per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico del pianeta.

Le misure proposte nel quadro dello sviluppo durevole sono dunque in primo luogo divieti o regolamentazioni, poi tassazioni, infine incitamenti ad adottare comportamenti più “ecologici”. Il problema è che tutte queste misure sommate sono state incapaci di impedire il deterioramento globale della situazione. I divieti sono raramente rigidi, e ancor più raramente rispettati, l’ammontare delle tassazioni o delle ammende è spesso irrisorio rispetto ai danni, e i comportamenti ecologici, per quanto eccellenti, non bastano a capovolgere la tendenza.

 

Ispirato al teorema di Ronald Coase (1960) e alle teorie dell’economista A.C. Pigou, il principio inquinatore-pagatore, con i suoi corollari di internalizzazione dei costi esterni e di “verità ecologica dei prezzi”, equivale a tassare gli inquinamenti per un ammontare sufficiente a uguagliare il danno che essi hanno causato (o causeranno), o ancora ad autorizzare gli inquinatori ad accordarsi liberamente con i futuri inquinati per negoziare tra loro l’importo di un’accettabile compensazione. Le prime applicazioni che sono state fatte di questa dottrina, in particolare negli Stati Uniti, non si sono rivelate molto convincenti. In effetti, il principio equivale a instaurare un vero mercato del diritto di inquinare, di cui le società capaci di pagare il prezzo dei loro inquinamenti saranno le prime a beneficiare, pur essendo anche quelle che inquinano di più. Dunque, non ci saranno meno inquinamenti; questi ultimi rappresenteranno soltanto un costo che le società dovranno integrare nel loro bilancio e nei loro prezzi di costo. Quanto alla “libera negoziazione” che dovrebbe permettere agli inquinatori e agli inquinati di accordarsi sull’importo di un equo indennizzo per le nocività causate dagli uni e subite dagli altri, è evidente che essa è falsata dall’influenza monetaria che i primi possono far valere nei confronti dei secondi, in modo tale che si troveranno sempre vittime potenziali rese consenzienti dall’importo delle indennità promesse. Chi può rimproverare a dei contadini poveri di sperare di far fortuna accettando che una multinazionale venga a saccheggiare il loro naturale quadro di vita[18]?

 

L’emissione di “tasse sull’inquinamento” può inoltre essere tariffata solo mediante prezzi fittizi fondati su supposizioni, perché è impossibile determinare il “prezzo totale” di un inquinamento, poiché se ne ignorano le conseguenze a lungo termine, che tuttavia fanno parte del suo costo. Un tale mercato non può che concernere gli effetti immediati, puntuali, di certi inquinamenti, senza tenere conto né degli effetti che si rivelano solo a poco a poco e di cui nemmeno gli stessi inquinati sono generalmente consapevoli (l’acqua inquinata dai nitrati, ad esempio, è chiara quanto l’acqua pura), né del costo, per definizione non calcolabile finanziariamente, delle funzioni naturali che cesseranno di prodursi in un ambiente inquinato. Le “licenze di inquinare” sono, in poche parole, totalmente inadatte per quanto concerne i rischi tecnologici maggiori o gli attentati irreversibili all’ambiente.

 

Questo principio di “economia dell’ambiente” ha spiccato il volo sulla base di un’analisi in termini di costi e benefici, la maggior parte degli studi mostrando che il costo delle misure di protezione della natura è sempre inferiore a quello dei danni subiti quando non sono adottate. Il metodo preso in considerazione è la regola di compensazione enunciata nel 1977 da Harwick: si tratta di assicurare l’equità fra le generazioni attuali e le generazioni future facendo in modo che le rendite prelevate a seconda dell’esaurimento delle risorse – le quali sono uguagliate alla differenza tra il costo marginale di queste risorse e il prezzo di mercato – siano reinvestite per produrre un capitale di sostituzione al “capitale naturale” così distrutto. Questo principio è conforme alla teoria classica della crescita, la quale afferma che la produzione può continuare a crescere quando le risorse naturali si riducono, a condizione che aumenti lo stock di capitale. È ciò che si chiama “dematerializzazione del capitale”. La teoria dello sviluppo durevole riprende questa teoria lasciando intendere che si può sempre sostituire del capitale alle risorse naturali[19]. Lo sviluppo sarebbe tanto più “durevole” in quanto la “sostituibilità” del capitale riproducibile alle risorse naturali consumate sarebbe più forte. Il problema è che il patrimonio naturale e il capitale finanziario non sono mai interamente sostituibili. D’altronde, considerare il primo come un”capitale” è solo un artificio verbale, perché il valore delle risorse naturali è inestimabile in termini economici: se esse sono una condizione della sopravvivenza umana, il loro “prezzo” non può che essere infinito, il che equivale a dire che la loro distruzione non ha prezzo. Non esiste un capitale sostituibile per risorse non rinnovabili.

 

In definitiva, il “mercato dell’inquinamento” ha dunque la conseguenza di indurre le industrie inquinanti non a ridurre l’ammontare delle loro emissioni nocive, qui considerate come semplici “esternalità negative”, ma a integrare nei loro conti le somme assegnate ai potenziali inquinati, riflettendo questo aumento sui loro prezzi. Per questa ragione, il principio “inquinatore-pagatore”, adottato nella dichiarazione finale del vertice di Rio del 1992, tende oggi a cedere il passo all’organizzazione di sistemi di riciclaggio o di deposito, e soprattutto a “ecotasse”,, ossia a imposte prelevate direttamente alla fonte delle attività inquinanti.

 

I sostenitori dello sviluppo durevole evocano la necessità di adottare misure conservative o misure di precauzione proporzionate ai rischi ecologici. Ma come valutare questi rischi, sapendo che in materia l’incertezza è la regola? E chi determinerà quali misure debbono essere prese? “I decisori politici? Ragionano in base a una logica elettorale di corto respiro. Gli esperti? Molto spesso sono nominati in commissioni infeudate al potere. Gli scienziati interessati? Sono sospettabili di lobbying. Gli industriali? Ma sono ciechi alle ricadute a medio termine della ricerca fondamentale. E l’opinione pubblica è lungi dall’essere più illuminata, soprattutto quando è influenzata, per non dire manipolata, da gruppi di pressione”[20]. 

 

La moltiplicazione delle misure ispirate dalla teoria dello “sviluppo durevole” rafforza in effetti l’autorità dei burocrati nazionali o internazionali e il controllo tecnocratico. Essa si manifesta, “nel quadro dell’industrialismo e della logica del mercato, con un’estensione del potere tecno-burocratico […] Abolisce l’autonomia del politico in favore dell’espertocrazia, elevando lo Stato e gli esperti di Stato a giudici dei contenuti dell’interesse generale e dei modi di sottomettervi gli individui”[21]. Inoltre, le proposte concrete fatte nel quadro delle grandi conferenze internazionali sono raramente seguite da effetti, tanto in ragione delle ostinate reticenze della grande industria, quanto di certi egoismi nazionali. È così che gli Stati Uniti, il cui consumo di energia pro capite è da solo due volte più elevato di quello dell’Europa, restano ostili a ogni accordo internazionale sulle emissioni di ossido di carbonio (CO²). La Francia, dal canto suo, ha finora respinto l’idea di una ecotassa imposta alle industrie inquinanti dalle istituzioni comunitarie. Un altro esempio tipico è quello della biodiversità, che fu una delle parole-chiave del vertice di Rio. Al termine di questa conferenza, una convenzione sulla biodiversità fu firmata da 160 dei 172 paesi rappresentati. Un’altra riunione ebbe poi luogo a Trondheim (Norvegia) nel maggio 1993, per determinare le modalità della sua messa in opera. Orbene, gli Stati Uniti hanno puramente e semplicemente rifiutato di firmare il testo adottato a Rio con il pretesto che gli interessi della loro industria farmaceutica potrebbero risentirne.

 

Lo sviluppo durevole appare dunque soprattutto come una posizione mediatica, destinata a rassicurare a buon mercato. Nel migliore dei casi, non fa altro che ritardare le scadenze. Michel Serres paragona questa ecologia di tipo riformista “alla figura del vascello che corre a venticinque nodi verso una barriera rocciosa dove immancabilmente si fracasserà e sulla cui plancia l’ufficiale di quarta raccomanda alla macchina di ridurre la velocità di un decimo senza cambiare direzione”[22].

 

Nell’ottica dello sviluppo durevole, l’ambiente naturale di vita non è altro che una variabile costrittiva che aumenta il costo sociale di funzionamento di un sistema votato alla crescita infinita dei prodotti commerciali. Questa modalità di sviluppo non rimette dunque affatto in discussione il principio di una crescita senza fine, ma sostiene soltanto che bisogna tener conto dei dati dell’ecologia. Cerca di salvare la possibilità di una crescita continua affermando al tempo stesso di ricercare i mezzi che non la renderebbero ecologicamente catastrofica. Questo atteggiamento somiglia alla quadratura del cerchio. Se infatti si ammette che lo sviluppo è la causa principale della degradazione dell’ambiente naturale di vita, è completamente illusorio voler soddisfare “ecologicamente” i bisogni della generazione presente senza rimettere in discussione la natura di questi bisogni e permettendo alle “generazioni future” di soddisfare i loro alla stessa maniera. Come constata Edgar Morin, la teoria dello sviluppo durevole “non fa altro che temperare lo sviluppo prendendo in considerazione il contesto ecologico, ma senza mettere in discussione i suoi principi”. Essa si accontenta, per fronteggiare i problemi, di sviluppare “delle tecnologie di controllo che curano gli effetti di questi mali, sviluppandone le cause”[23]. In tal modo, si rivela particolarmente ingannevole, poiché lascia credere che è possibile porre rimedio a questa crisi senza rimettere in discussione la logica mercantile, l’immaginario economico, il sistema del denaro e l’espansione illimitata della Forma-Capitale. In effetti, si condanna al fallimento nella misura in cui continua a iscriversi all’interno di un sistema di produzione e di consumo che è la causa essenziale dei danni ai quali essa tenta di rimediare.

 

L’ideale di una crescita infinita possiede infine un evidente zoccolo etnocentrista. Facendo implicitamente del modello di produzione e di consumo occidentale un modello universale, che tutti i popoli potrebbero adottare a “tappe”, con un certo numero di “aggiustamenti strutturali”, essa non fa altro che universalizzare una particolare modalità di sviluppo, perfettamente situabile nello spazio (l’Occidente) e nel tempo (la modernità). Come ha ben dimostrato Serge Latouche, lo sviluppo, da questo punto di vista, non è altro che la prosecuzione della colonizzazione con altri mezzi, e contemporaneamente l’ultimo in ordine di tempo dei mezzi utilizzati per convertire l’Altro al Medesimo[24].

 

“Culturalmente”, scrive Stéphane Bonnevault, “lo sviluppo non è neutro. Esso riposa, infatti, su un insieme di credenze e di verità sociali profondamente ancorate nell’immaginario occidentale cui conferisce un significato naturale e universale […] Il processo di sviluppo costituisce un progetto tipicamente occidentale le cui origini corrispondono all’emergere dell’economia come categoria centrale della vita sociale, e il cui meccanismo fondamentale è in definitiva il prelevamento sull’uomo e la natura per assicurare una crescita economica infinita, considerata come intrinsecamente ‘buona’ e ‘necessaria’ […] Attraverso lo sviluppo, l’egemonia culturale dell’Occidente assume tutta la sua ampiezza nel momento stesso in cui la sua egemonia politica è quella più contestata”[25].

 

Le preoccupazioni ecologiche si sono indubbiamente diffuse nelle popolazioni occidentali, talvolta incoraggiate da testi ufficiali che menzionano esplicitamente i “doveri verso l’ambiente” (gli Umweltschutzgebot della Costituzione bavarese). Oggi abbiamo familiarità con le lampade a basso consumo, le pale a vento e i collettori solari, la raccolta differenziata delle immondizie e dei rifiuti, il riciclaggio della carta, la progressiva soppressione delle bottiglie e delle borse di plastica, le vetture un po’ meno inquinanti (introduzione delle marmitte catalitiche e della benzina senza piombo), le auto collettive, ecc. La moda del cibo “bio” ha a che fare più con la cura di sé che con l’ecologia (non si vuole tanto proteggere la natura quanto “gestire” la propria salute). Ma queste nuove abitudini producono effetti solo marginali, perché i problemi si aggravano molto più in fretta di quanto esse non si diffondano. Tutti oggi parlano di ecologia, ma da quando se ne parla la situazione non è globalmente migliorata, al contrario. In che dimostra che, malgrado i bei discorsi e le proclamazioni di principio, la logica del profitto resta la più forte.

 

 

 

 

3

 

 

Ormai, consumiamo più risorse di quante non ne rinnoviamo o ne scopriamo di nuove. Orbene, la domanda non cessa di aumentare. Per i prossimi 20 anni, si prevede un raddoppio del consumo energetico mondiale. Come sarà possibile? I sostenitori della crescita si accontentano di dire che l’intelligenza umana è inesauribile. Affermano che il progresso tecnico finirà col risolvere i problemi apparsi in fasi anteriori (e sotto l’effetto) di questo stesso progresso. Il progresso, in altri termini, sarebbe tale da correggersi. È la tesi dei teorici della backstop technology: è inutile preoccuparsi dei vincoli ambientali, perché con il progresso tecnico si finirà col trovare i mezzi per sviluppare nuove risorse che sostituiranno quelle che stanno esaurendosi. Sono altrettante petizioni di principio – e contemporaneamente la negazione del celebre teorema di Gödel, “secondo il quale ogni sistema raggiunge un punto culminante a partire dal quale i problemi che genera possono essere risolti solo uscendo dal sistema” (Gilbert Rist).

 

La nozione di decrescita sostenibile (o di decrescita conviviale) parte dalla semplicissima constatazione che non può esserci crescita infinita in uno spazio finito. Evidentemente, qui è la nozione di limite ad essere privilegiata. Le risorse naturali, la capacità di trasformazione dei biotipi sono limitati. La biosfera ha i suoi limiti. Come un individuo che basa gran parte della sua sussistenza sul suo capitale e non sulle sue entrate è votato al fallimento, così le società che attingono alle risorse naturali del pianeta, ritenendole implicitamente illimitate, si avviano verso la catastrofe: non si può indefinitamente consumare un capitale non riproducibile.

 

L’idea di sviluppo somiglia molto al principio stesso dell’economia capitalista, nel senso che si fonda sulla negazione di ogni limite: una crescita illimitata tende a rispondere a bisogni posti a loro volta come illimitati[26]. Orbene, finora la crescita economica ha sempre implicato l’estrazione di una quantità crescente di risorse naturali. L’attività economica dei moderni si è così fondata sull’idea che la natura è un bene gratuito, ma che, come l’uomo stesso, poteva essere trasformata in merce. Si è incessantemente ragionato a partire da questa ipotesi di gratuità ella Terra, e questa gratuità era percepita come priva di limiti. “Le ricchezze naturali”, scriveva ingenuamente Jean-Baptiste Say, “sono inesauribili, perché altrimenti non le otterremmo gratuitamente [sic!]. Non potendo essere moltiplicate né esaurite, esse non formano oggetto della scienza economica”[27].

Gli economisti classici – siano essi liberali, marxisti, keynesiani o maltusiani – non si sono ancora liberati di questo pensiero del XIX secolo che ritiene che la natura sia una fonte sfruttabile a volontà. Kenneth Boulding diceva: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare indefinitamente in un mondo finito è un folle – o un economista”!

 

Per la dottrina liberale, in ultima analisi, esiste solo una ricchezza monetaria e commerciale, e la sola misura di questa ricchezza risiede nel sistema dei prezzi formati sul mercato. In questa ottica, la legge del mercato è valida quanto le leggi della fisica. Essa è la sola capace di risolvere tutti i problemi che la società può incontrare. Come ogni scienza, l’economia “scientifica” non ha peraltro niente da dire sulle sue finalità, sul carattere buono o cattivo dell’attività economica, non più di quanto sia capace di assegnarsi dei limiti. Si potrebbe anche dire che essa considera implicitamente “buono” ogni mezzo atto a suscitare l’attività economica, a incoraggiarla, a massimizzarla, quali che ne siano le conseguenze. Poiché ogni possibile è considerato buono, ne deriva che un più è sempre un meglio. Da questo punto di vista, l’energia ha lo stesso valore di qualunque materia prima, mentre è in realtà la condizione necessaria all’ottenimento delle altre risorse.

 

In una tale prospettiva, le risorse naturali e la natura stessa non hanno alcun valore intrinseco, ma solo un valore relativo all’uso che se ne fa, il che significa che se ne può perfettamente fare a meno, dal momento che è possibile supplire artificialmente alla loro sparizione. I liberali pensano che, quando una risorsa si esaurisce, il suo prezzo aumenta, il che tende a far diminuire la domanda. L’esaurimento di una qualunque risorsa non ha dunque niente di inquietante, poiché la “mano invisibile” risolve il problema: rappresentando il prezzo la misura oggettiva della scarsità e dunque del valore reale della risorsa, se questo prezzo diventa troppo alto per