“L’accordo è fatto. Il testo è stato scritto” ha dichiarato Ali Hassan Khalil, esponente dell’opposizione libanese. Dopo un anno e mezzo, il Libano ha un piano che mette d’accordo maggioranza e opposizione. Almeno così pare. Ad annunciarlo, ieri, dopo una lunga notte di travaglio, l’emiro del Qatar, Hamed bin Khalifa al Thani, nel discorso di chiusura dei cinque giorni di colloqui a Doha in cui si è tentato di porre fine alla crisi politica del Paese dei Cedri. L’accordo prevede il divieto del ricorso alle armi per motivi politici, se non nell’ambito di una strategia di difesa del Paese, l’elezione immediata del presidente e la formazione di un governo con 16 esponenti della maggioranza, 11 dell’opposizione e 3 scelti dal presidente. Per sciogliere il nodo della riforma elettorale, in vista delle legislative in programma per la primavera del 2009, si è deciso inoltre di adottare, per una sola volta, la legge elettorale del 1960 che divide Beirut in tre circoscrizioni: Mazraa, Achrafieh e Bachoura, a cui corrispondono rispettivamente 10, 5 e 4 delegati ciascuno. “Prevediamo - ha dichiarato infine ai giornalisti Ali Hassan Khalil - giovedì o venerdì l’elezione del presidente della Repubblica”, da parte del parlamento libanese. Fonti vicine al presidente della Camera hanno reso noto, invece, che Nabih Berri dovrebbe annunciare per domenica prossima la nuova sessione per l’elezione presidenziale. Il condizionale resta d’obbligo in Libano, dove gli equilibri e gli equilibrismi sono talmente mutevoli da rendere difficili previsioni anche a brevissimo termine, nonostante le firme apposte in Qatar. Unica certezza il nome del generale cristiano maronita Michel Suleiman che sarà eletto presidente della Repubblica, riempiendo così il vuoto lasciato da Emile Lahud lo scorso 24 novembre, dopo che da allora per ben diciotto volte è stato rimandato l’appuntamento elettorale a causa dell’incapacità dei due schieramenti di trovare un accordo (prima sul nome del candidato, poi sulla formazione di una coalizione di governo e su una riforma elettorale). Se tutto proseguirà come annunciato, l’esecutivo Siniora si dimetterà, “secondo i dettami della Costituzione”, subito dopo la nomina del nuovo capo di Stato. Lo ha ricordato lo stesso primo ministro, sottolineando che l’accordo “è un dono per i libanesi e per il Paese”. La crisi libanese era iniziata nel novembre 2006 con l’uscita dei ministri sciiti dal governo che avevano allestito, per protesta, un sit in nel centro di Beirut, chiedendo le dimissioni di Fuad Siniora. Ieri pomeriggio, come primo segnale tangibile di un cambiamento in atto, i militari e i poliziotti libanesi hanno dato il via allo sgombero delle tende montate nella capitale, dopo che, a nome dell’opposizione, Nabih Berri aveva annunciato la fine di tutti i presidi e i blocchi stradali. Ottimismi e entusiasmi del momento a parte, la considerazione più realistica è che i progressi registrati a Doha siano il frutto di un mutamento di clima dovuto all’ultima dimostrazione di forza da parte di Hizbollah. I violenti scontri tra i guerriglieri sciiti e i sostenitori del Partito di Dio e le fazioni filogovernative, la sconfitta di questi ultimi con la presa dei quartieri sunniti da parte dei primi e il successivo ritorno alla calma dopo il dietro front di Siniora sui provvedimenti contro il capo della sicurezza dell’aeroporto e il sistema di telecomunicazioni di Hizbollah, hanno dato la misura dell’urgenza di tornare al tavolo delle trattative, alla luce di equilibri di forze non più negabili. Nasrallah ha barattato il ritorno alla “normalità” con una sostanziale ammissione di debolezza da parte del governo Sinora e della maggioranza guidata da Hariri; una debolezza emersa non solo sul piano del confronto tra le milizie, ma ancor di più a livello politico. Ora bisognerà vedere se i leader dell’attuale maggioranza di governo accetteranno realmente un ruolo di secondo piano, o continueranno ad appellarsi ad un sostegno esterno, ultimamente più latitante.
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