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Il vertice dei ciechi

di Carlo Petrini - 04/06/2008

 

 

 

Generalmente quando un’istituzione, un’azienda o un governo si danno degli obiettivi e non riescono a raggiungerli si sostituiscono le persone ai loro vertici, si licenziano i manager che hanno fallito, si va alle urne per cambiare governo. 

 

La Fao nel 1996 si era data come obiettivo di ridurre entro il 2015 quelli che allora erano 800 milioni di esseri viventi che pativano la fame: oggi, nel 2008 sono 850 milioni e la crisi alimentare in corso minaccia di farli crescere di altri 100 milioni in pochissimo tempo.  Può darsi che il vertice Fao di Roma abbia l’effetto di far riflettere, più che sulla crisi in corso - che era stata in qualche modo prevista e che conosciamo bene da un po’ di tempo - sulla reale utilità di costose mega-istituzioni come l’agenzia Onu per l’alimentazione o sulla generosissima Banca mondiale che elargisce soldi a pioggia, come se per risolvere i problemi di questa portata bastasse soltanto metter mano al portafogli. È lecito chiedersi se non sia necessario un cambiamento drastico di persone e strumenti per contrastare la fame nel mondo e una crisi che sembra abbia tutte le intenzioni di inasprirsi.

 

Il fatto poi che tra gli interlocutori principali di questo incontro romano ci siano anche tutte quelle aziende transnazionali che producono sementi e fertilizzanti è una cosa che stride quasi più della presenza nella Capitale di un paio di leader politici non desiderati. Questi soggetti che hanno in pugno la maggior parte dei mercati delle derrate agricole mondiali sono gli unici che della crisi non sembrano accorgersi: e anzi, sono i primi e forse gli unici a guadagnarci. Moltiplicano gli utili tanto da diventare le aziende con i titoli più appetibili in borsa. Ecco i principali interlocutori che ha scelto Diouf, ecco quelli che dovrebbero "domare" la crisi alimentare: i produttori di Ogm, i venditori di semi, i produttori di junk food, quelli che più di tutti fanno viaggiare gli alimenti intorno al globo, buoni alleati di una grande distribuzione sempre più padrona del nostro cibo.

 

Oltre alla scesa in campo di queste forze poco disinteressate, il vertice Fao finirà con l’essere una sorta di grande Telethon per la raccolta di fondi atti a finanziare interventi più o meno eccezionali, più o meno urgenti: ma quali interventi? Di questo poco si parla, e se lo si fa non sembrano esserci tante idee nuove, lo stile sembra il solito: quello che ci ha portato a chiederci perché in dodici anni, dal vertice Fao del 1996 nulla è cambiato, e semmai c’è stato un peggioramento.

 

C’è da scommettere che ci sarà una bella promozione per gli Ogm come panacea di tutti i mali, già si innalzano voci in favore di consistenti aumenti di produzione e quindi di un uso massiccio di fertilizzanti e semi (dover dare i semi ai contadini sembra una cosa assurda, ma a questo siamo arrivati grazie alla mercificazione anche di ciò da cui nasce la vita delle piante), di nuove rivoluzioni verdi. Ma queste sono le misure che si è sempre cercato di varare fino ad oggi, senza risultati. Sono queste "soluzioni" il vero problema. In realtà serve una concreta alternativa, un distacco secco e coraggioso con lo stile passato che ci ha condotti sin qui.

 

Non c’è verso: la soluzione definitiva consiste nel passaggio ad un’agricoltura biologica ed ecologica che sia più decentrata, democratica e cooperativa, non controllata dalle multinazionali e attuata su piccola scala. Così come è stata praticata dalle comunità agricole tradizionali, dagli agroecologi e dalle popolazioni indigene per millenni. Queste comunità hanno esercitato un’agricoltura sostenibile basata sui principi di diversità, della sinergia e del riciclaggio. La soluzione è una rete di economie locali che sappiano coniugare un mix di tradizione e innovazione: queste andrebbero incentivate con i soldi che si raccoglieranno a Roma. Sono economie e stili produttivi che hanno ampiamente dimostrato di essere efficienti, in alcuni casi anche più delle monoculture finalizzate all’esportazione o, oggi, ai biocarburanti. Queste economie non influiscono sul cambiamento climatico, consentono di abbattere le emissioni e ridanno fiducia alla gente vera, quella che di solito non è ascoltata nei summit come quello romano: sono i contadini e coloro che producono il cibo. Il fatto che tra di loro ci sia l’80% di quegli 850 milioni di affamati è un dato che grida vendetta.

 

Il vero problema è l’agricoltura industriale, insieme alla sua finanziarizzazione, mettiamocelo in testa una volta per tutte. Chiedere al sistema agro-industriale di risolvere problemi che ha creato, con gli stessi mezzi con cui li ha creati, è inutile e dannoso, kafkiano direi. Inquinamento dei suoli, Ogm, monoculture, sovvenzioni e dumping, perdita di sovranità alimentare e libertà di usare i propri semi, di trarre frutto dalla propria biodiversità: la colpa non è dei contadini, e nemmeno del clima. Ma a Roma queste cose temo le diranno soltanto alcuni tra quelli che stanno fuori dai palazzi dove ci sono le tavole rotonde o si tengono le cene di rappresentanza. L soprattutto un problema di cultura, di cultura del cibo e di cultura agroecologica, che in quegli ambienti temo latiti un po’ troppo. A proposito: il fatto che una cena di gala debba chiudere un summit sulla fame nel mondo è la perfetta testimonianza del disastro culturale che ormai si è abbattuto su di noi.