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Giulio Tremonti: dottor Jekyll e Mr. Hyde della globalizzazione

di Giuseppe Giaccio - 28/07/2008

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Riuscirà Giulio Tremonti a scrollarsi di dosso l’etichetta di crociato no global che gli è stata appiccicata per le sue prese di posizione in tema di globalizzazione? Ai posteri l’ardua sentenza, si dice in questi casi. Azzardiamo, tuttavia, una previsione: probabilmente no. Una sciocchezza, ripetuta migliaia o milioni di volte dai media, finisce infatti con l’acquistare una qualche credibilità. Nella mente si insinua prima o poi un pensiero del tipo: “Magari non sarà tutto vero, però…”. Eppure, in questo suo La paura e la speranza, ultimo tassello di un trittico le cui tessere precedenti sono Il fantasma della povertà (1995) e Rischi fatali (2005),  non c’è alcuna ostilità di principio nei confronti della globalizzazione, di cui Tremonti critica il “lato oscuro”, il che significa che essa possiederebbe altresì un lato chiaro, e quindi accettabile e positivo. A Tremonti la globalizzazione va benissimo, a patto che sia opportunamente governata. Nel pamphlet, infatti, si ribadisce più volte che con la caduta del Muro di Berlino e la creazione del WTO è iniziata una gara che non poteva essere arrestata, ma che doveva essere guidata da un ceto dirigente, che evidentemente scarseggia, in possesso della “tecnica” politica di cui parla Platone, un ceto di abili nocchieri in grado di impedire alla nave di naufragare sugli scogli del “mercatismo”. Tremonti paragona il sistema sociale europeo (ma il suo discorso è evidentemente estendibile all’Occidente in generale) a “una grossa moto, leggera da guidare fintantoché si è in corsa, pesante invece da tenere, fino a diventare insostenibile, se la velocità rallenta progressivamente”. Egli, perciò, non si prefigge né di diminuire la velocità del veicolo (proposito che a lui appare “bello ma insostenibile”), né, addirittura, di arrestarlo per dirigersi in un’altra direzione. Al contrario, “solo rinnovando e intensificando la spinta allo sviluppo industriale possiamo riprendere a competere nel mondo”. Ciò dovrebbe essere ottenuto con una nuova Bretton Woods, cioè con un nuovo accordo su scala globale che, ispirandosi a quello realizzato nella cittadina del New Hampshire all’indomani del secondo conflitto mondiale, consenta all’Europa – di cui viene ribadito il ruolo di alleata degli Stati Uniti – e al mondo un ulteriore, ed al contempo regolamentato, balzo in avanti. Al vorticoso, ed in apparenza inarrestabile, flusso di merci che inonda il pianeta e che contribuisce non poco a creare quei problemi ambientali che a Tremonti sembrano stare a cuore, il neoministro dell’economia rende un sincero, caloroso e commosso omaggio, attribuendogli il merito di aver contribuito, con il consumismo e la standardizzazione, a dissolvere “quell’infernale cocktail di idee e di ideologie, di pulsioni e leggende, di miti e inni, di luoghi sacri e di stati maggiori che, combinandosi al principio del Novecento con la meccanica moderna, ha finito per insanguinare l’Europa. Anche per questo è impensabile un’altra guerra tra le nazioni europee, finalmente accomunate nei principi della pace, anche perché polarizzate dai consumi e da questi rese omogenee”. Riecheggia qui il vecchio luogo comune liberale, già ampiamente smontato da Carl Schmitt, secondo cui l’economia sarebbe pacifica per definizione.

Come tutto questo possa essere spacciato per ostilità alla globalizzazione facciamo fatica a capirlo. Al massimo, si potrà dire che Tremonti è fautore di una (problematica) globalizzazione ben temperata, ma presentarlo come un nemico della globalizzazione in sé ci pare francamente eccessivo. La verità è che Tremonti è un liberale e un conservatore, ossia uno che cerca di tenere insieme cose che difficilmente possono convivere, come hanno ottimamente spiegato, ai loro tempi, Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista. Infatti, la borghesia, che ha nel liberalismo la sua sovrastruttura ideologica, non può esistere senza scompaginare continuamente, fino a distruggerli, i modi di vita tradizionali allo scopo di imporre ovunque quel mondo e quell’uomo a taglia unica che fanno giustamente inorridire (anche se cum grano salis, perché, come si è visto, la mentalità consumistica e la standardizzazione aiuterebbero a tenere a bada il fascismo) il conservatore Tremonti, il quale, però, essendo anche un liberale, non potrà mai ascrivere al liberalismo questi orrori, e pertanto elabora un racconto, tesse una narrazione, dove il ruolo del cattivo viene assegnato al “mercatismo”, che possiamo considerare l’equivalente politico di un organismo geneticamente modificato. Come si sa, gli ogm sono il controverso risultato dell’inserimento, nel genoma di un essere vivente, di un patrimonio genetico ad esso estraneo. Orbene, il mercatismo è la mostruosa creatura partorita innestando nel corpo integro del liberalismo i frammenti di una cultura – quella della sinistra e del Sessantotto – ad esso avversa, col risultato di corromperlo. In questo modo, Tremonti prende due piccioni con una fava: tiene sotto scacco i suoi avversari ideologici e politici, additati al pubblico ludibrio in quanto pervertitori della sana dottrina liberale, e può continuare ad avere sullo sfondo, come bussola e stella polare, il liberalismo in versione autentica e non adulterata (la sua). Il “vero liberalismo” tremontiano, al quale bisognerebbe tornare, è un edificio teorico che si regge su quattro pilastri: libertà, proprietà, autorità, responsabilità. Tra essi c’è una importante differenza. Mentre i primi due “sono valori che si autodefiniscono permanentemente”, i successivi “sono invece valori che vanno attualizzati perché si intrecciano con il problema politico che è oggi centrale ed essenziale in Europa: il problema del potere”. La libertà e la proprietà vengono così sottratte al divenire storico e messe al riparo da pericolose manipolazioni. Se, infatti, si “autodefiniscono” (come? Per opera dello Spirito Santo o della Madonna di Fatima, evocata in una delle pagine del pamphlet? Tremonti non ce lo dice) non siamo autorizzati a proporre delle nostre definizioni, probabilmente non coincidenti con quelle liberali. Quanto poi all’attualizzazione dell’autorità e della responsabilità, questi valori ci vengono proposti in una chiave molto dura, da destra radicale, che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile e impossibile diffondere in un testo ad alta tiratura e in programmi televisivi di grande ascolto, con il contorno di ossequiosi conduttori e di finti e scialbi oppositori (e questo fa capire molte cose a proposito della vittoria di Berlusconi alle ultime elezioni). Risuonano, nella pagine de La paura e la speranza, parole che eravamo abituati a sentir pronunciare sottovoce e in cerchie ristrette o a leggere in saggi che si esitava a mostrare in pubblico: onore, gerarchia, legge e ordine, orgoglio. Gettate nel fango, svilite e sbeffeggiate dalla cultura sessantottina e dalla sinistra, è venuto il momento di ripulirle, spolverarle e inserirle nel contesto di una democrazia che non abbia paura di far riferimento a valori spirituali e trascendenti come quelli giudaico-cristiani, alle radici e all’identità, intesa nel senso di una forte contrapposizione tra “noi” (europei) e gli “altri” (immigrati). Questi ultimi, se vogliono venire dalle nostre parti, debbono, secondo il verbo tremontiano, puramente e semplicemente europeizzarsi, e quindi sparire, diventare dei Magdi Allam, rinunciando alla loro identità. Aut-aut: o noi o loro. Noi e loro è, per Tremonti, qualcosa di inimmaginabile. Così armata ed equipaggiata, la “fortezza Europa” dovrebbe essere in grado di operare da protagonista nella globalizzazione, anziché subirla.

Il patchwork messo a punto da “SuperGiulio”, come qualcuno lo ha ribattezzato, è indubbiamente confezionato con grande abilità ed ha le caratteristiche giuste per fungere da piattaforma ideologica del centrodestra appena tornato al potere. Esso non può che essere bene accetto alla componente liberale, poiché Tremonti si preoccupa di precisare che il suo libro non è affatto contro il liberalismo (sebbene qualche maligno potrebbe pensare a una forma di excusatio non petita…), ma solo contro il mercatismo e che bisogna continuare a svilupparsi e a correre, per quanto non in modo “forsennato”; i leghisti certamente ne apprezzeranno le tesi in tema di federalismo fiscale e di immigrazione; i cattolici la valorizzazione del ruolo della famiglia, dei corpi intermedi e della religione in ambito pubblico, i seguaci di Fini e della sua “destra in cammino” i richiami law and order. Bisogna, d’altra parte, riconoscere che Tremonti è uno dei pochi, se non l’unico, uomo politico di vero spessore presente nell’area di centrodestra; quando si esprime pubblicamente, dà l’impressione di non ripetere formulette imparate a memoria e provate e riprovate davanti allo specchio, come accade con gli altri (anche a sinistra), ma di sforzarsi di elaborare un proprio punto di vista. Gli si adatta bene una frase che, probabilmente, ha scritto pensando pure a se stesso: “Viviamo infatti in un tempo in cui l’intellettuale è politico e il politico, se non è intellettuale, non è”. Molte delle sue tesi sembrano fatte apposta per attrarre un consenso ampio e trasversale. È difficile non essere d’accordo con lui quando si scaglia contro la “tecno-finanza”, il “mito dell’economia” e il “dio-mercato”; oppure quando dice che le tasse debbono pagarle anzitutto i petrolieri e i banchieri. Tutto bene, dunque? Non ci pare proprio. Il suo manifesto politico-culturale, osservato da vicino, rivela non poche fragilità. Il primo di questi punti critici è il fondamento spirituale – ritenuto essenziale, perché non si costruisce niente di solido e duraturo solo col consumo e l’economia – su cui dovrebbe reggersi tutto il resto, ossia le famose radici giudaico-cristiane dell’Europa. Qualunque cosa si pensi al riguardo, è innegabile che il cristianesimo in Europa è in fase di arretramento, la sua capacità di permeare le coscienze è sempre più ridotta, al punto che uno studioso (e credente) come Jean Delumeau si chiedeva qualche anno fa se stesse per morire. Appare per questo problematico pensare di poterne fare il lievito di una religione civile capace di innervare e rendere più salde le istituzioni. È evidente che qui il modello cui Tremonti (e Pera) guarda, sulla scia di Benedetto XVI, è quello statunitense, ma proprio Ratzinger, benché evidentemente attratto dall’esperienza americana, come si è visto anche in occasione del viaggio negli Usa, ha ben chiare le differenze e le distanze tra vecchio e nuovo continente: “L’Europa – contrariamente all’America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione quasi viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani”, leggiamo in Senza radici (Mondadori). Ed il papa conclude che, benché tra cattolici e laici si colgano rispetto al passato delle “aperture che bisogna saper cogliere”, “vista la frattura […], una forma di religione civile sembra da escludere”. Egli si affida perciò, nella prospettiva di una possibile rinascita cristiana, all’opera di “minoranze creatrici” i cui frutti, se verranno, matureranno in un futuro più o meno lontano, mentre il politico deve decidere hic et nunc.

Un altro aspetto discutibile del pamphlet è quello del rapporto liberalismo/mercatismo, cui abbiamo già accennato in precedenza. Tremonti osserva che “la definizione della posta in gioco è in se stessa già parte della soluzione”. Ora, a noi pare che questa posta non gli sia per niente chiara, il che si ripercuote in negativo sulle soluzioni prospettate. La distinzione tra un liberalismo buono e un mercatismo cattivo non è affatto convincente e ha tutta l’aria di un artificio retorico. Sul piano storico, poi, è completamente infondata. Tutti gli effetti negativi che Tremonti attribuisce al mercatismo, e quindi all’infezione subita dal liberalismo ad opera della sinistra sconfitta nel 1989 e della cultura sessantottina, in realtà preesistevano ampiamente a questi fenomeni e sono stati descritti con dovizia di particolari, tra molti altri, da Marx non solo nel Manifesto prima citato, ma anche, a livello economico sociologico e filosofico, nel Capitale e nei Manoscritti economico-filosofici. È stato un borghese vissuto a cavallo tra il Seicento e il Settecento come Mandeville, e non un impenitente sessantottino libertino, a teorizzare che l’egoismo, il male, il vizio e i crimini dei malvagi e dei corrotti sono provvidenziali per il benessere sociale. Se è così – e ci sembra difficile contestarlo – bisognerebbe allora spostare l’obiettivo dal mercatismo al liberalismo, ma Tremonti non è disposto, da liberale, a percorrere questa strada. Al contrario, tiene a ribadire la sua adesione ai principi liberali, scrivendo: “Niente da eccepire, s’intende, al libero mercato. E comunque, dopo il 1989, l’integrazione del mondo era irreversibile. Non poteva certo essere fermata, ma poteva essere governata”. (Il che, peraltro, non gli ha risparmiato l’accusa di “colbertismo” scagliatagli contro, per diverse ragioni, da alcuni ambienti sia di destra che di sinistra). La sua anima conservatrice lo spinge a muovere una serie di critiche, spesso condivisibili, alla società occidentale contemporanea. E sono state proprio queste critiche a generare l’equivoco di un Tremonti no global; ma quella liberale lo induce a non fuoriuscire da un quadro che è parte del problema e non della soluzione. Se non si compie preliminarmente questa operazione, le “proposte concrete” per l’Europa con le quali si chiude il libro, anche quando, considerate singolarmente, possono sembrare ragionevoli e giuste, finiscono inevitabilmente col somigliare a un tentativo di chiudere la stalla quando i buoi sono ormai scappati.  

 

Giulio Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008, pagg. 111, euro 16.