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Sociologia delle vacanze (di massa)

di Carlo Gambescia - 30/07/2008


Sta per iniziare, come ogni anno, il “grande esodo estivo”: tutti o quasi vanno in vacanza. Ma, come si dice, cerchiamo di andare oltre la cronaca.
Ebbene, in principio era Blackpool... Una località balneare inglese. Nel 1937 fu meta di vacanze per 7 milioni di persone. Ma i lavoratori britannici vi si recavano in massa almeno dalla metà degli anni Venti, cominciando così ad assaporare per primi i piaceri di quella che poi sarebbe divenuta routine: la vacanza, come rito sostitutivo, in grado di trascendere e compensare le frustrazioni della vita lavorativa.
Più precisamente si tratta di un rito espiatorio: si proiettano sulla mitica vacanza le privazioni subite e accumulate durante un anno di lavoro. E quanto più il lavoro sarà stato duro tanto più la vacanza dovrà essere liberatoria. Curiosamente, si cerca di “espiare”, divertendosi il più possibile, la “colpa” di aver dovuto lavorare duramente per vivere. Va qui sottolineato anche un altro aspetto tipico del comportamento rituale, quello della ciclicità o ripetizione: si deve assolutamente andare in vacanza, secondo una scansione regolare, altrimenti il dio-lavoro, se privato del sacrificio-espiazione annuale, potrebbe “vendicarsi” e diventare più odioso che mai.
Il riferimento a Blackpool, una specie di Rimini ante litteram, è calzante. Infatti, mostra come gli inglesi, oltre ad aver creato il capitalismo e il lavoro di massa, abbiano dovuto inventare, anche un rituale espiatorio per “purificarlo”: le vacanze di massa. Il lavoro capitalistico, così duro e poco gratificante soprattutto ai livelli più bassi, per essere accettato aveva bisogno di “valvole di sfogo”, dalle radici antiche. Di conseguenza gli inglesi, con le “ferie” retribuite e annuali, reintrodussero per primi l’antica ciclicità del rito all’interno di una società che credeva nel moderno progresso lineare. Il capitalismo si scusava coi lavoratori venendo a patti con gli antichi. Ma fino a un certo punto. Cerchiamo di scoprire perché.
In primo luogo, la vacanza di massa, proprio perché tale, risente dell’artificiosità del sistema economico moderno: il bene-vacanza è un bene di consumo come un altro. Non è mai frutto di esperienze spontanee, dirette e personali ma di pratiche indotte, collettive e impersonali. E come per gli elettrodomestici, si “compra” un certa vacanza, perché è già stata comprata da altri. E così via…
In secondo luogo, la vacanza di massa, a causa del nesso economico tra lavoro e non-lavoro (chi non lavora non va in vacanza) e della sproporzione tra tempo di lavoro (11 mesi) e tempo di vacanza (1 mese, o anche molto meno), si trasforma in un vero e proprio tour de force: ci si vuole “divertire” a tutti costi dal momento che è ritenuta “autentica” solo la breve vita del “vacanziere” e non quella “lunghissima” del lavoratore… E di riflesso si ritorna a casa più stanchi di prima.
In terzo e ultimo luogo, la vacanza di massa, al di là di una promiscuità tutta esteriore, recepisce e riproduce le gerarchie sociali esistenti. Per esempio già a Blackpool nel 1937 i beni-vacanza erano "modernamente" stratificati: stabilimenti balneari, suddivisi secondo i ceti sociali, e così ristoranti, negozi, eccetera. Oggi, nell’ anno di grazia 2008, nulla è cambiato: basta andare sulla riviera romagnola, ufficialmente aperta a tutti, per scoprire che esistono ristoranti e discoteche di serie A, B e C, che rifiutano l’ingresso a clienti ritenuti non all’altezza della “casa”. Pertanto anche in vacanza si finisce per ritrovare le stesse stratificazioni sociali, fonti di nuove invidie, frustrazioni e delusioni.
Comunque sia, se non ci fosse il “rito” delle vacanze di massa, il sistema potrebbe diventare ingovernabile. Le ferie estive favoriscono, in termini di consenso, la riproduzione sociale: la sopravvivenza “morale”, da un anno all’altro, del lavoratore-vacanziere. E ovviamente anche quella di un meccanismo economico basato sulla crescita dei consumi, e quindi pure del bene-vacanza…
E la coazione a ripetere, in termini di comportamenti sociali, è talmente forte che spesso ci si indebita pur di andare in vacanza “come tutti gli altri”.
Quali alternative? Poche. Restarsene a casa per riscoprire, turisti permettendo, gli angoli nascosti della propria città. Oppure, se si hanno poche primavere sulle spalle, si può, rompendo ogni indugio, partire zaino in spalla, con amici fidati, in cerca di “nuove frontiere”, soprattutto dentro di noi.