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La democrazia: un misterioso oggetto del desiderio in piena crisi

di Eugenio Orso - 28/08/2008

 

Dèmos e kràtos.
Esiste l’antitesi fra democrazia, da un lato, e libertà, dall’altro, come credeva il Pericle raccontato da Tucidide, oppure, al contrario, quello democratico, pur nella versione liberale, è veramente il solo tipo di governo sotto il quale sia possibile, oggi, trovare un po’ di libertà?
Il popolo è libero soltanto durante le elezioni, quando nomina i suoi rappresentanti, per poi tornare in schiavitù e non contare più nulla, come sostenne il discusso contrattualista Jean-Jacques Rousseau, oppure la pratica delle elezioni, da sola, basta per qualificare un sistema come democratico, in cui il popolo partecipa veramente al processo decisionale?
E’ una conquista di civiltà irrinunciabile, con la definitiva emancipazione della parte più povera e numerosa della popolazione – i moderni Teti – oppure è soltanto il prevalere della quantità sulla qualità?
Democrazia e liberalismo sono un binomio inscindibile e vincente, che si diffonderà nel mondo, fino ai suoi angoli più remoti, segnando in modo indelebile la storia futura dell’umanità, oppure si tratta soltanto di slogans, utilizzati dai poteri forti per esportare i loro interessi in paesi non ancora aperti al mercato e non ancora gratificati dal dono della partecipazione al voto, per poi eleggere, una volta avuta la democrazia, rappresentati decisi da altri?
L’unione di due semplici parole greche, dèmos e kràtos, antiche quanto quella Europa in cui sono state per la prima volta pronunciate, è veramente all’origine del migliore dei sistemi possibili? Migliore per chi?
Oltre duemila anni di dotti contradditori e di equivoci, per riempire di contenuti una parola dai contorni sfumati ed incerti: democrazia.
Ai giorni nostri il dibattito è ancora aperto, in un'infinita discussione in cui si difende e si esalta, o in qualche caso si critica, ciò che non si è capaci neppure di definire in modo chiaro, univoco e condiviso, mentre la liberal-democrazia dell’epoca della mondializzazione non è certo la democrazia delle polis greche, nata con Clistene duemila e cinquecento anni or sono, avendo irrimediabilmente perduto il carattere della partecipazione diretta, sostituito dall’ambiguo meccanismo della delega – in seguito all’applicazione di quel principio di rappresentanza che fu tanto caro a John Stuart Mill – e, per dirla con il filosofo Costanzo Preve, le due stesse parole che la evocano, divenute ormai un binomio inscindibile, nel nostro presente altro non sono che fantasmi di legittimazione ottocenteschi.
In effetti, ci sembra che la democrazia rappresentativa di matrice liberale – la cui diffusione in tutto il pianeta ha popolato i sogni più arditi dei liberal-democratici , per non dire dei neocon americani, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica – è come un delicato e oscuro meccanismo che sta per incepparsi, sopraffatto dalla perdita di importanza e dalla contemporanea crisi degli stati nazionali e delle loro istituzioni, la cui sopravvivenza è giudicata essenziale per far “vivere” la democrazia, con le decisioni più importanti, per la vita dei popoli e delle nazioni in cui ancora questi si riconoscono, che ormai sono prese ad un livello più alto, in quelle organizzazioni sovra-nazionali e in quei consessi multinazionali – di natura non elettiva e, spesso, saldamente nelle mani di grandi interessi privati – chiamati a omologare e a gestire un mondo globalizzato, e con i sempre maggiori poteri, un tempo prerogativa dei governi e dei parlamenti degli stati-nazione, che gli organi della mondializzazione avocano a sé.
Se per Karl Popper il misterioso oggetto del desiderio chiamato democrazia è, in un'eccessiva e sbrigativa semplificazione, quel sistema che consente di cambiare il governo senza dover ricorre alla forza e, quando necessita, contro la stessa volontà dei governanti in carica – quindi il cambiamento senza violenza, volendo essere ancora più stringati, il quale potrebbe verificarsi, però, anche in una monarchia assoluta ereditaria o in una teocrazia, con buona pace di Popper … – per un altro pensatore, Alexis de Toqueville, che ha analizzato a fondo il sistema adottato negli Stati Uniti d’America e intuito le future potenzialità di espansione di quel paese, prevedendo per primo la “democratizzazione” dell’Europa [ed anche la sua umiliante “americanizzazione”?], la democrazia fa il paio con l’eguaglianza, come sappiamo mai effettivamente realizzata nel corso della storia umana e, quindi, per ora puramente utopica.
Continuando la breve esposizione, spesso si esaltano gli aspetti di controllo dei governanti ed il bilanciamento fra i poteri, centrando l’attenzione sui meccanismi di check and balance – che rappresentano altrettanti problemi aperti, con inevitabile tendenza a complicarsi – mentre alcuni ci ricordano ciò che troppo spesso sorprendentemente si dimentica: la sovranità, in democrazia, appartiene al popolo, sottolineando come questo ultimo dovrebbe avere voce in capitolo nell’esercizio del potere e nelle scelte che lo riguardano, pena la delegittimazione delle istituzioni.
Ingredienti fondamentali potrebbero essere, ancora, la carta costituzionale – naturalmente sul modello della costituzione americana del settecento, che sembra resistere da almeno due secoli – e lo stato di diritto anche se, come ci ricorda qualcuno nella confusione concettuale che circonda la democrazia, la rule of law può benissimo esistere al di fuori dello stato democratico e funzionare ottimamente in altri contesti, pur rappresentando uno dei due elementi fondamentali dell’ordine liberale.
Quello che pare abbastanza certo e ormai condiviso dai più, è che le elezioni non bastano per poter parlare compiutamente di democrazia, in particolare se il voto non è libero, se è soggetto a manipolazioni e brogli o se si riduce ad un mero ludo cartaceo, e il pluralismo politico, inteso come pluralità di partiti che dovrebbero contendersi il consenso, se soltanto formale e di facciata, può tranquillamente prosperare anche laddove il demos è praticamente in catene.
Evitando di concentrarci – con inevitabili distrazioni – su freddi e statici aspetti istituzionali o sul vacuo rapporto fra libertà effettive e libertà formali all’interno delle “istituzioni democratiche”, oppure di discutere, su un piano teorico, se la sovranità appartiene al popolo o ad una miriade di singoli individui astratti e partoriti dal pensiero liberale, che dovrebbero godere della cittadinanza pleno iure, alla Norberto Bobbio, è bene ricordare che vi sono anche tentativi originali e alternativi di definizione della democrazia, al di fuori dell’imperante pensiero liberale e neo-liberale, come quello che ci propone Costanzo Preve [Il popolo al potere, Arianna Editrice, I edizione 2006], secondo il quale la democrazia […] è sempre e solo un processo dinamico di accesso del popolo al potere – e non un semplice potere del popolo, definito in via esclusivamente istituzionale sulla base di sistemi elettorali dati […], ben sapendo che tale accesso potrebbe essere soltanto temporaneo, che non comporterà la “fine della storia” e con la precisazione che il popolo inteso come corpo elettorale passivizzato e manipolato dalle oligarchie medianiche e da quelle finanziarie non andrà mai al potere […].
Si tratta, in tal caso, di una lunga ed estenuante marcia di avvicinamento, intervallata da guerre, repressioni, abbagli di natura ideologica e mai giunta alla fine, ed anzi, oggi bruscamente interrotta dalle potenti istanze globalizzatrici, dal dominio incontrastato del libero mercato planetario e delle sue regole, dal conseguente imporsi degli interessi di una nuova e spietata classe senza cittadinanza alcuna: la global class.
Ecco che accanto ai tradizionali problemi che la democrazia ci pone – iniziando dall’estrema difficoltà di darne una definizione compiuta e accettabile, almeno in una data epoca storica, riuscendo ad individuare con chiarezza e in modo esaustivo gli aspetti fondanti, nonché l’acceso dibattito intorno alle condizioni indispensabili per l’effettiva praticabilità della sovranità popolare e alla necessità dell’affermarsi, per la sua piena operatività, di una non meglio precisata “cultura democratica” [questione da tempo viva, questa ultima, da John Dewey a Hannah Arendt] – se ne sono aggiunti di nuovi e di più gravi, tali da svuotare di contenuti concreti le sue stesse istituzioni, a partire dai parlamenti e dai governi, complice la crisi profonda attraversata da quegli stati nazionali costituenti lo storico contesto di affermazione della democrazia, che in prospettiva futura dovrebbero eclissarsi con il sorgere del vagheggiato governo mondiale.
Un celebrato studioso di scienze politiche e sociali ed ex commissario europeo, ma soprattutto un “vecchio” liberal-democratico dichiarato e non pentito, dotato di una certa onestà intellettuale, quale è Ralf Dahrendorf, ci avverte senza mezze misure: Questo è il cuore del problema. Le decisioni stanno emigrando dal tradizionale spazio della democrazia. […] Decisioni di vitale importanza non sono più assunte a Montecitorio, o a Westminster, e neanche in Capitol Hill, ma altrove. Per i paesi che hanno adottato l’euro, i tassi di interesse sono stabiliti a Francoforte. Se due grandi industrie vogliono fondersi, devono chiedere il permesso a Bruxelles. La decisione di bombardare Belgrado è stata presa dalla NATO. […] Questo complesso di decisioni, prese al di fuori del processo democratico, fanno oggi apparire la democrazia totalmente impotente. La disponibilità universale e immediata di informazioni, che è la vera essenza della globalizzazione, consente di by-passare le istituzioni tradizionali della democrazia. Ciò solleva domande di enorme rilievo. Sempre le solite tre: come possiamo far valere gli interessi della gente coinvolta da queste decisioni? come possiamo controllarle con un sistema di check and balance? come possiamo assicurarci che la scena internazionale non sia permanentemente dominata da un piccolo gruppo di detentori del potere?La mia tesi è che questi interrogativi rimangono attuali e sul tappeto, ma che le risposte sono scomparse. Oggi non è più possibile dire che la democrazia e le sue istituzioni sono la risposta. [Dopo la democrazia. Intervista a cura di Antonio Polito, Editori Laterza, Prima edizione 2003].
Oltre a lodare la chiarezza espositiva del democratico e liberale Dahrendorf, apprezziamo la sua freddezza nell’ammettere, di fatto e pubblicamente, il fallimento della liberal-democrazia e della forma-stato in cui si è affermata, la piena crisi che attraversa, giunta ormai ad uno stadio avanzato, l’assenza di risposte e soluzioni all’interno del sistema politico in cui viviamo e dello stesso pensiero liberal-democratico .
Questo pericoloso vuoto – che si accompagna ad un crescente vuoto di rappresentanza e di autorità nelle stesse società definite democratiche – non è però dovuto al caso, non si è creato spontaneamente, in seguito all’avvenuta mutazione del mercato da nazionale a mondiale, così come la predisposizione e la firma degli accordi commerciali internazionali che hanno accelerato il processo in parola non costituiscono un “evento naturale” … la stessa azione degli organi della mondializzazione, a livello internazionale, non è casuale ma risponde ad interessi ben precisi, ed il pensiero neo-liberale può non avere alcuna volontà di colmare tale vuoto, essendo molti intellettuali ed esponenti di spicco di quel mondo al servizio dei ricordati interessi.
Quando si parla di “democrazia di mercato”, come oggi accade facendo riferimento alla contemporanea presenza di istituzioni liberal-democratich e – da un lato –, nel quadro degli stati tradizionali ancora concepiti in uno spazio nazionale, e delle stringenti regole imposte dal mercato globale – dall’altro –, si cade in un’evidente contraddizione, rappresentando la mondializzazione economica [che procede con l’allargamento del mercato e con l’imposizione delle sue regole, ponendo in ombra l’esercizio della volontà popolare e restringendo gli spazi della discussione politica] il nuovo e più pericoloso fattore di crisi della democrazia, delle sue istituzioni e dello stesso ordine liberale.
Ci sembra di scorgere i contorni di un disegno abbastanza preciso:
1)     Nella prima fase, iniziata con la vittoria degli Stati Uniti nella così detta guerra fredda, l’affermazione dell’ideologia neo-liberista ha efficacemente supportato, fin dall’inizio, i processi di mondializzazione economica e di allargamento ulteriore del mercato, contribuendo alla loro accelerazione e alla diffusione di quella liberal-democrazia, ad imitazione del sistema americano, la quale costituisce il miglior compendio, sul piano politico, della dominante economica rappresentata da un mercato senza limiti. Questa fase si sta già esaurendo e, in tempi recenti, il suo successo è stato messo in discussione da una serie di crisi – quella finanziaria che è tutt’ora in evoluzione, dopo il primo stadio detto sub-prime, quella immobiliare, quella energetica e quella alimentare – che potranno condurre l’occidente e il mondo intero, nel breve periodo, ad una nuova, grande depressione dagli esiti imprevedibili. E’ in questa fase che stati-nazione e istituzioni democratiche hanno visto ridurre la loro importanza, perdendo concretamente molti poteri decisionali e di controllo, trasferiti dalla dimensione nazionale a quella globale. Ed è in questa fase che si è parlato e si parla della necessità di arrivare, in prospettiva, ad un unico governo planetario, magari attraverso una radicale riforma delle Nazioni Unite, accrescendone i poteri e dotandole di forza militare, e ad un’unica moneta mondiale, paniere delle principali valute in circolazione, cosa che porterebbe ulteriori e grandi benefici quasi esclusivamente ai membri della global class. Il superamento degli stati nazionali e delle attuali istituzioni democratiche sembra essere, quindi, l’oggetto di una pianificazione. Come reazione a questo progressivo vuoto, generato dalla ricordata e contemporanea crisi degli stati tradizionali e della rappresentatività democratica, è giunta all’attenzione della storia contemporanea, più che la benefica dimensione locale capace di temperare gli effetti distruttivi della globalizzazione, la dimensione regionale, bestia nera del liberale Dahrendorf, in cui, non soltanto a suo dire, si esaltano i peggiori istinti dell’uomo, quali l’autoritarismo dei capi, l’intolleranza, la pulizia etnica, un’elevata aggressività nei confronti dell’esterno, che porta inevitabilmente alla proliferazione dei conflitti e conduce a situazioni caotiche nelle relazioni internazionali.
2)     Nella seconda fase, ipotizzando che non interverrà nel frattempo qualche disastro economico, ecologico o geo-politico di una tale gravità da interrompere questo processo e da imporre al mondo una strada diversa, inizierà la dissoluzione completa dei vecchi stati, già avviati sulla strada dell’obsolescenza, con ulteriori trasferimenti di materie decisionali – quali, ad esempio, il welfare, le pensioni e l’educazione – ad entità sovra-nazionali il cui controllo non è e non sarà possibile con il così detto metodo democratico. Se l’affermarsi della dimensione regionale, come spazio politico alternativo a quello globale, produrrà caos geo-politico e continui conflitti fra nuove, piccole e medie potenze, di tale frequenza ed entità da mettere in discussione la continuità del mercato, penalizzando gli scambi commerciali e interrompendo in più punti del globo le “rotte” dell’energia, la necessità di arrivare alla soluzione dei problemi attraverso un’autorità di governo mondiale diverrà sempre più impellente, manifesta e giustificabile, come anche il trasferimento a lei di almeno una parte degli arsenali militari NATO e di altri paesi sottomessi. Di pari passo procederà la “razionalizzazione” del sistema monetario, con una probabile fase intermedia – a precedere la vera e propria, unica moneta mondiale – che sintetizzerà in prima battuta solo le principali valute, a partire dal dollaro e dall’euro. In tali contesti, perderà di significato anche il discorso sulla democrazia e sulle sue istituzioni, nonché la discussione sulla sovranità popolare e sull’affermarsi e il diffondersi di una cultura democratica. L’accesso del popolo al potere risulterà ostruito dalle macerie delle vecchie istituzioni, mentre le nuove, che si mostreranno in piena luce esercitando in modo diretto il potere, saranno interamente dominate dai signori della mondializzazione.