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Martin Buber, ovvero come risolvere il conflitto israelo-palestinese

di Giuseppe Giaccio - 20/02/2009

 

 

Il 2008 si è congedato con una notizia al contempo terribile e banale. Ci riferiamo, ovviamente, ai massicci bombardamenti della Striscia di Gaza da parte dell’aviazione israeliana (la cosiddetta operazione “Piombo fuso”), con il loro altrettanto massiccio corredo di lutti, in risposta al lancio di missili qassam su alcune città israeliane di confine. Questa è stata la motivazione ufficiale con cui il Tel Aviv ha giustificato il conflitto – motivazione sulla cui consistenza il quotidiano israeliano “Ha’aretz” ha sollevato qualche dubbio, scrivendo che “le scelte strategiche” di Israele “hanno esagerato la rilevanza e la minaccia rappresentata dai gruppi armati palestinesi”[1]. Il 2009 ha proseguito sulla stessa scia, con la prevedibile invasione terrestre dell’esercito recante la stella di Davide. La terribilità di questo evento è nel numero delle vittime: milletrecento morti e alcune altre migliaia di feriti. La banalità risiede invece nel suo carattere seriale. Ci si abitua a tutto, anche alle cose peggiori. Non è la prima e presumibilmente non sarà l’ultima volta che nel Medio Oriente accadono fatti del genere. Crediamo di non andare troppo lontani dal vero se diciamo, a costo di sembrare cinici e spietati, che, con ogni probabilità, l’occidentale medio è preoccupato più dei “bombardamenti” causati dalla crisi finanziaria proveniente dagli Stati Uniti che del conflitto israelo-palestinese. L’apparato politico-mediatico, del resto, non solo non fa nulla per scuotere l’opinione pubblica da questo torpore, ma contribuisce potentemente a crearlo e rafforzarlo. L’argomento più utilizzato a questo scopo dalla propaganda occidentale è quello del diritto alla difesa. Se i “terroristi” di Hamas attaccano, nessuno può ragionevolmente negare a Israele il diritto di rispondere con le armi. È una reazione fisiologica, normale. Nel migliore dei casi, si ammetterà che Tel Aviv ha alquanto ecceduto nella replica, ma sulla fondatezza delle sue ragioni non è lecito nutrire dubbi. I canoni dell’“ebraismo virtuale” stigmatizzato da Ariel Toaff impongono di ritenere che Israele e il governo israeliano abbiano sempre e comunque ragione. Anche se è riuscita ad imporsi nel sentire comune, grazie a un sapiente uso della neolingua orwelliana che snatura e sovverte il significato delle parole, questa tesi, da qualunque angolazione la si guardi, non sta in piedi. Nello scenario mediorientale, infatti, Israele è, per ragioni culturali, storiche e politiche, l’aggressore, non l’aggredito; è colui che offende, non colui che si difende. Non partire da qui, da questo punto fermo, equivale a imboccare subito una strada sbagliata, condannandosi a non capire nulla o a falsare i termini della questione. In Medio Oriente, la violenza originaria, quella da cui scaturiscono tutte le altre, è israeliana, non palestinese. Se fosse possibile dar vita a un vero dibattito sul conflitto israelo-palestinese – se fosse, cioè, possibile confrontarsi senza rischiare di vedersi scagliata addosso l’accusa di essere antisemiti più o meno mascherati o di auspicare la riapertura delle camere a gas – questo dato non dovrebbe costituire nemmeno oggetto di discussione, dal momento che sono gli stessi teorici sionisti a rivendicare senza infingimenti o ipocrisie il carattere aggressivo del loro progetto politico. È sufficiente leggere il pamphlet di Herzl per capirlo, o riflettere su dichiarazioni come questa di Berl Katznelson, ideologo della sinistra sionista: “L’impresa sionista è un’impresa di conquista. Non è un caso se utilizzo termini militari quando parlo di insediamento”[2]. Dobbiamo a un grande pensatore ebreo, Martin Buber, la denuncia più forte di questo progetto. Nel novembre 1948, a distanza di pochi mesi dalla proclamazione della nascita dello Stato di Israele da parte di Ben Gurion e dall’attacco aereo sferrato dall’aviazione egiziana contro Tel Aviv, Buber, in un contesto che si prestava facilmente alle strumentalizzazioni in chiave nazionalista e bellicista, e mostrando perciò grande coraggio e lucidità, non esita ad affermare che i veri aggressori non sono gli egiziani o i palestinesi, ma gli ebrei: “Basta! Smettiamola con le parole vuote! – si legge in un articolo pubblicato sulla rivista Beayot Hazman – La verità è che noi abbiamo cominciato l’attacco ‘pacificamente’, quando abbiamo cominciato a entrare nella terra”[3]. Di fronte all’arrivo dei nuovi venuti, spinti dalla necessità di sottrarsi alle discriminazioni e alle persecuzioni, i palestinesi reagiscono come fecero gli indigeni taino con Cristoforo Colombo e gli spagnoli, vale a dire mostrando senso di accoglienza e ospitalità. Lasciamo parlare ancora Buber: “All’inizio, questo popolo accettò con tolleranza questa penetrazione, addirittura a volte con buona volontà”. Le cose cambiano quando i palestinesi, e più in generale gli arabi, comprendono qual è l’obiettivo politico dei sionisti, cioè creare una maggioranza ebraica in Palestina. Qui si consuma la rottura tra Buber e Ben Gurion. Questi agisce in piena coerenza con il programma sionista, riassumibile nella formula “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Questo è lo “slogan ufficiale del sionismo”, per dirla con Benny Morris[4]. Ampliando lo sguardo, potremmo affermare che questo slogan rispecchia la mentalità di tutti i nazionalismi, costituzionalmente incapaci di riconoscere il volto dell’altro. I sionisti non fanno eccezione alla regola, ragionano secondo la tipica logica nazionalista: poiché in Palestina non vi è un popolo autoctono e l’unico popolo è quello ebreo, allora è del tutto comprensibile e lecito creare uno Stato ebraico retto da proprie leggi. E tanto peggio per chi non è d’accordo! Dal punto di vista dei sionisti, ha scritto Ilan Pappe, “la Palestina era occupata da ‘stranieri’ e si doveva riprenderne possesso. ‘Stranieri’ significava tutti i non ebrei che avevano vissuto in Palestina dal periodo romano. In effetti, per molti sionisti la Palestina non era una terra ‘occupata’ neanche quando vi arrivarono per la prima volta nel 1882, ma piuttosto una terra ‘vuota’: i palestinesi nativi che là vivevano erano per loro sostanzialmente invisibili oppure facevano parte delle avversità naturali e come tali dovevano essere conquistati e allontanati”[5]. La cacciata dei palestinesi dalla loro terra, la nakba, si trova dunque alle origini del progetto sionista, ne è la sua coerente esemplificazione, e continua tuttora ad ispirare la politica demografica di Tel Aviv, che è letteralmente terrorizzata dall’eventualità, percepita come un pericolo, che i palestinesi possano crescere troppo di numero. Ancora nel dicembre 2003, Benjamin Netanyahu riprendeva pari pari le idee espresse al riguardo da David Ben Gurion nel 1947: “Se gli arabi sono il 40 per cento della popolazione d’Israele, ciò significa la fine dello Stato ebraico. Ma anche il 20 per cento rappresenta un problema. Se il rapporto con questo 20 per cento diventa problematico, lo Stato è autorizzato a usare misure estreme”[6]. Alcune di queste misure sono di carattere normativo, come la legge, definita “razzista” da Pappe, approvata il 31 luglio 2003 dalla Knesset, la quale vieta ai palestinesi che sposano cittadini israeliani di ottenere la cittadinanza o la residenza, anche solo temporanea. Un altro espediente consiste nel favorire l’immigrazione degli ebrei in Israele – espediente rivelatosi poco efficace, dato che molti ebrei, mostrando scarso senso patriottico, preferiscono sistemarsi negli Stati Uniti o in Europa. Un terzo accorgimento, infine, è quello di creare dei bantustan in cui ammassare la popolazione palestinese per meglio controllarla e, all’occorrenza, bombardarla. Questo è lo scopo che si prefigge il famigerato muro di separazione eretto tra palestinesi e israeliani, nonché il vero significato politico del ritiro da Gaza (il luogo più affollato della Terra), spacciato dalla propaganda israeliana come segno della volontà di pace di Sharon, improvvisamente trasformatosi in colomba.
Il pensiero di Buber si colloca agli antipodi di questa concezione ed è racchiuso nel titolo della sua raccolta di scritti politici, nella quale si avverte fortemente l’impronta della sua visione dell’uomo come essere dialogante: ein Land und zwei Völker, una terra e due popoli – visione che lo porterà a battersi non per l’edificazione di uno Stato ebraico, ma di uno Stato binazionale, una Comunità di Palestina, pienamente inserita all’interno di una federazione di Stati “in cui l’iniziativa e il lavoro ebraico potrebbero avere un grande compito”. Per Buber, la presenza ebraica in Palestina poteva aspirare a un futuro degno di essere perseguito e per il quale valeva la pena affaticarsi e impegnarsi solo se gli ebrei avessero rinunciato alla “baalizzazione” del loro progetto, cioè se avessero rinunciato a considerare lo Stato sionista un idolo, un Baal, al quale offrire sacrifici e si fossero considerati parte integrante dell’area mediorientale, pronta a instaurare forti legami di cooperazione con tutte le altre popolazioni della regione, a cominciare dai palestinesi, e non una scheggia di Occidente trapiantata sulla sponda opposta del Mediterraneo per portarvi la luce della civiltà a genti incolte e rozze. “Vogliamo entrare di nuovo – scriveva Buber – a far parte del gruppo dei popoli del Medio Oriente, costruire un’economia del Medio Oriente, una politica del Medio Oriente e, a Dio piacendo, diffondere di nuovo dal Medio Oriente nel mondo l’idea vivente. E la via per tutto questo? Il lavoro e la pace, una pace costruita su un lavoro comune”. In ciò consisteva il “grande sionismo” di Buber, il quale aveva ben compreso, e i fatti gli hanno purtroppo dato ragione, che, qualora avesse prevalso l’impostazione nazionalista, quella di un “sionismo minimo”, come egli lo definiva, la conseguenza sarebbe stata la creazione di “un piccolo Stato ebraico completamente militarizzato e incapace di una vera esistenza”, di uno “staterello che corre il rischio di vivere continuamente in conflitto con il suo contesto geopolitico e di dover indirizzare le sue migliori energie all’ambito militare e non ai valori sociali e culturali”. Buber vedeva all’origine di queste differenti forme di sionismo due diverse interpretazioni del concetto di rinascita ebraica. Nel suo pensiero, il sionismo autentico non era tanto un movimento ideologico-politico sorto nell’Ottocento, quanto la più recente manifestazione di una tendenza presente già nell’Israele biblico e di chiara impronta profetica e mistica, per la quale Israele rinascerà, diventando un “vero Israele”, quando saprà far propria fino in fondo, rendendola carne della propria carne, la tensione verso la verità e la giustizia che la Torah esige sia all’interno che all’esterno della comunità israelitica, che si sarebbe così trasformata in “modello e guida per l’umanità”. Egli perciò condannava come forma di “egoismo collettivo” il sionismo di Herzl che concepiva la rinascita come riappropriazione da parte degli ebrei della sovranità su un territorio. In questo disegno, egli vedeva  una “profanazione del nome di Sion; esso non è nient’altro che uno dei crassi nazionalismi dei nostri tempi, che non riconoscono nessun’altra autorità al di sopra di sé, se non l’interesse – supposto! – della nazione”. Ma rinchiudere l’anima ebraica nel nazionalismo equivaleva a tradirla, perché in questo modo gli ebrei si sarebbero “normalizzati”, perdendo la propria identità che li spinge all’apertura verso l’universale. Ed è appunto in questa chiave che Buber concepisce il ritorno degli ebrei nella terra di Sion: non per conquistare un territorio ai danni di chi già vi risiede, bensì per riaccostarsi alle fonti del proprio essere: “Noi non vogliamo tornare a una terra qualsiasi, ma al suolo dal quale abbiamo avuto origine poiché solo da esso possiamo aspettarci una rinnovata efficacia di quelle forze storiche e sovrastoriche in grado di legare lo spirito alla vita  e la vita allo spirito”. Questo discorso può sembrare fumoso ed astratto e lo si può superficialmente liquidare come utopico e irrealizzabile, ma in realtà, se fosse preso sul serio, produrrebbe delle conseguenze, orientate in senso federalistico, molto concrete e positive, messe bene in chiaro dallo stesso Buber, in quanto comporterebbe la necessità di “stringere un’alleanza con la popolazione lì residente, per sviluppare insieme a loro la terra del Vicino Oriente – due popoli con uguali diritti, ognuno sovrano sulla propria società e cultura, ma entrambi uniti in un’opera comune di accesso e produzione nei confronti della patria comune e in un’amministrazione federale comune dei comuni interessi”. Si può discutere se il “grande sionismo” sia davvero sionismo e quindi se Buber fosse o no sionista. Indubbiamente, egli si considerava tale, ma è altrettanto indubbio che, all’interno dell’organizzazione sionista, cui aveva aderito fin dai primordi, si è sempre trovato nella posizione marginale della vox clamantis in deserto – una scomoda posizione di confine tra gli ebrei “oppositori leali entro il sionismo”[7] e gli ebrei critici radicali del sionismo in nome delle esigenze morali e religiose del giudaismo e della Torah[8]. Comunque sia, le potenzialità della scelta nazionalista, del “sionismo minimo”, sono state tutte ampiamente esplorate e hanno portato in un vicolo cieco, alla reiterazione senza fine di bombardamenti, invasioni e attentati. La proposta avanzata in sede internazionale di dar vita a due stati per due popoli, anche se fosse praticabile, non consentirebbe di uscire da questo circolo vizioso, ma servirebbe solo ad aggravarlo, poiché darebbe semplicemente una gracile veste legale a un odio reciproco che resterebbe intatto e pronto ad esplodere alla minima occasione. Israele non riuscirà mai a venirne a capo fintantoché si ostinerà a dare una risposta militare a un problema che è politico: la nakba, la catastrofe palestinese. Il problema palestinese nasce nel 1948 e non per il lancio di qualche sgangherato missile qassam. Questo è l’effetto non la causa. Rifiutandosi di riconoscere questa evidenza, Israele è destinato, secondo Pappe, a fare la fine del Regno latino crociato di Gerusalemme, ad essere, cioè, una fortezza assediata, incapace di instaurare rapporti con l’ambiente che lo circonda e che all’improvviso collassa, non riuscendo a reggere la tensione, senza lasciare tracce dietro di sé.
L’idea di un “grande sionismo”, cui è collegata quella di uno Stato federale-binazionale, prospettata da Buber agli ebrei, è, certo, di difficile realizzazione. Di ciò era, del resto, consapevole lo stesso Buber. Rispetto alla sua epoca, oggi le difficoltà sono addirittura cresciute, perché molto altro sangue è stato sparso su entrambi i fronti. Ilan Pappe appare decisamente più ottimista; secondo lui, la pace sarebbe addirittura “a portata di mano”, anche se poi deve ammettere che la “finestra di opportunità” che egli vede dischiudersi “non starà aperta per sempre”[9]. Vittorio Dan Segre ha, dal canto suo, usato la parola giusta che potrebbe far uscire dall’impasse il conflitto israelo-palestinese (nonché arabo-israeliano), parlando di “metamorfosi di Israele”. Solo che non ne ha tratte tutte le conseguenze. Una metamorfosi, infatti, consiste in un profondo e radicale mutamento delle proprie forme che potrà prodursi unicamente liberandosi, come fa il bruco prima di diventare farfalla e cominciare a volare, dell’involucro iniziale, quello dello Stato sionista, del “sionismo minimo”, che, per quanto rivisto e rammodernato, non può che produrre gli stessi frutti che ha prodotto finora. È perciò abbastanza vano attendersi, come scrive Segre, che la leadership israeliana si sottragga “alle tentazioni del realismo politico e della forza” e accetti “l’idea dell’autocontrollo e della moderazione”[10]. Una reale metamorfosi, foriera di sviluppi pacifici nel senso auspicato da Buber e quindi davvero risolutivi, potrebbe forse verificarsi nell’ipotesi in cui prendesse consistenza lo scenario abbozzato da David Vital ne Il futuro degli ebrei (Giuntina): quello di un lento ma continuo sfaldamento, secondo Vital già in atto, del legame tra ebraismo diasporico ed ebraismo di Israele. Ciò potrebbe indurre non tanto la leadership, quanto gli ebrei israeliani nel loro insieme, a mettere da parte l’idea belligena di costituire un avamposto occidentale in una sorta di deserto dei tartari e a considerare con maggiore attenzione la prospettiva di una immersione nel contesto mediorientale più profonda e meno segnata dalle stigmate dell’esclusivismo nazionalistico. “Solo qui, se ve ne è una, è la vera via; tutto il resto è menzogna e inganno”. Queste parole di Martin Buber, benché risalenti a poco più di sessant’anni fa, restano più che mai attuali.

 

NOTE

[1] Cfr. Zvi Bar’el, “Fino al prossimo scontro”, articolo ripreso in Italia dal settimanale “Internazionale”, n. 779, 23/29 gennaio 2009, pag. 17.

[2] Citato in Zeev Sternhell, Nascita di Israele, Baldini&Castoldi, Milano 1999, pag. 210.

[3] M. Buber, Una terra e due popoli, Giuntina, Firenze 2008, pagg. 263-264. Da questo testo sono tratte anche le altre citazioni di Buber.

[4] Cfr. B. Morris, Vittime, Rizzoli, Milano 2001, pag. 60.

[5] I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008, pag. 23.

[6] Citato da I. Pappe, in op. cit., pag. 297.

[7] Cfr. l’introduzione di Paul Mendes-Flohr a M. Buber, op. cit., pag. 20.

[8] Per una descrizione delle tesi di questi ultimi, cfr. Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005.
[9] I. Pappe, op. cit., pag. 303.

[10] Vittorio D. Segre, Le metamorfosi di Israele, Utet, Torino 2006, pag. 204.