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La Fede è il «punto fuori del mondo», il quale perciò muove anche tutto il mondo

di Francesco Lamendola - 22/12/2009

 

Vi sono degli autori ai quali si ritorna sempre con fiducia, con amore, con la certezza di trovarvi ogni volta qualche nuova perla, qualche ulteriore spunto di riflessione, capace di aprire nuovi orizzonti e di portare un vento fresco e gagliardo nell’aria un po’ stantia dell’abitudine.
Uno di essi, per me, è Sören Kierkegaard, il filosofo danese che, nella solitudine della sua «cittaduzza», Copenaghen, e della sua piccola patria, ove non fu compreso né amato, visse una vita di coraggiosa, incessante ricerca, oltre gli estremi confini del pensiero, a tu per tu con la vertigine dell’Assoluto, lottando con il tormento della fede così come Giacobbe aveva lottato, nella notte, con un angelo misterioso, riuscendo a tenergli testa fino al mattino.
Egli fu uno dei primi a misurare tutta l’alienazione che la «verità delle gazzette», ossia la formazione di una sedicente opinione pubblica modellata dai mezzi d’informazione, avrebbe fatto dilagare nella incipiente società di massa: la seppe vedere dal suo posto d’osservazione, come la vedetta in cima alla torre, e lanciò un grido d’allarme, che, però, non vene raccolto.
Kierkegaard diceva tali cose alla metà del XIX secolo, più di centosessant’anni fa, come un profeta che grida nel deserto: e sono pochissimi gli intellettuali che sanno intuire certe svolte epocali e mettere in guardia i contemporanei, prima che esse si manifestino in tutta la loro ampiezza ed evidenza. La maggior parte di essi, filosofi compresi, sono pesci d’acqua bassa, che si accorgono di un fenomeno sociale e culturale quando ormai esso ha già fatto pienamente irruzione nel mondo, e neppure un bambino potrebbe non accorgersene.
Kierkegaard è un pensatore sottile, profondo, ma anche brillante. La sua chiarezza concettuale ha del meraviglioso: egli è capace di esporre un ragionamento complesso in poche righe, con una scioltezza, una concisione e una levigatezza quali raramente si incontrano in un filosofo, e ancora più raramente in un teologo. Tutto, nel suo pensiero, è sobrio, denso, incisivo: niente fronzoli; eppure, al tempo stesso, nessun senso di pesantezza, così forte, per non dire opprimente, allorché ci si accinge alla lettura di un Fichte o di un Hegel.
Poi, quella vena di malinconia, che accompagna ogni sua pagina e la rende inconfondibile: la malinconia di un uomo che ha molto sofferto in silenzio, senza menare ostentazione ed, anzi, quasi nascondendo agli altri il suo dolore, sovente con la maschera dell’ironia; e tuttavia spargendo indizi sottili, come nell’ampia varietà degli pseudonimi. La malinconia, inoltre, di chi sa che la propria generazione non lo comprenderà e non gli renderà giustizia; che neppure l’unica donna da lui amata con intensità sovrumana - Regine Olsen - e, appunto per questo, lasciata, lo avrebbe mai compreso, né avrebbe intuito le vere ragioni del suo comportamento.
E infine, il suo stile: così terso ed elegante nella sua semplicità; così perfettamente commisurato ad esprimere anche i pensieri più rarefatti; così magistralmente scorrevole e al tempo stesso profondo, tanto che non sai se ammirare di più il filosofo o lo scrittore.
Dunque, ogni qualvolta desidero ascoltare la voce di un amico, prendo uno dei suoi volumi e lo apro a caso, con l’assoluta certezza di trovarvi qualche frase intelligente, qualche osservazione acuta e anticonformista, qualche squarcio d’infinito nel grigiore della vita quotidiana, come un raggio di sole che penetra nella nebbia e restituisce alle cose un volto nuovo e fresco, una prospettiva seducente e piena di vivacità.
Bene: mi accosto allo scaffale, prendo a caso uno dei dodici volumi dei suoi «Diari», a cura del grande studioso kierkegaardiano Cornelio Fabro, editi dalla benemerita Casa editrice Morcelliana di Brescia in tre successive edizioni: nel 1948, nel 1962, nel 1980 e seguenti; quest’ultima, la più ricca e la più ampia, anche se non ancora integrale.
Questi libri sono anche un ricordo personale: li ho acquistati in una città a me cara, durante il servizio militare, in una gelida sera d’inverno, con la mia magrissima paga di caporale degli alpini. Ricordo ancora l’espressione di stupita, silenziosa ammirazione della giovane suora alla quale li avevo ordinati, e la gioia con cui uscii dalla libreria, stringendo il mio tesoro; e le avide letture serali, allo scarso lume della camerata, disteso nella branda, in attesa che le note del «silenzio» oscurassero la caserma dell’artiglieria da montagna, ove uomini e muli avrebbero trascorso un’altra notte di riposo, in francescana compagnia reciproca.
E poi le lunghe ore di sentinella, in cima alla torre della polveriera, scrutando i campi immersi nell’oscurità; e il piacere proibito di estrarre dall’ampia tasca dell’uniforme uno di questi preziosi volumi, oppure «Il concetto dell’angoscia» e «La malattia mortale», opere penetranti se mai ve ne furono, capaci di scendere negli abissi inesplorati dell’anima umana; e immergermi di tratto in tratto nella lettura, pur tenendo desti tutti e cinque i sensi e badando a non perdere di vista il settore di mia competenza…
Dunque, prendo un volume dei «Diari» a caso - è il settimo - e, sempre a caso, lo apro; butto lo sguardo sulla prima annotazione che mi capita davanti, così al volo: la numero 2866 (pagg. 132-33) e vi trovo questa magnifica perla di saggezza:

«La fede è precisamente il “punto fuori del mondo”, il quale muove perciò anche tutto il mondo.
È facile vedere che ciò che emerge, attraverso la negazione di tutti i punti nel mondo, è il “punto fuori del mondo”.
Dal sillogismo: Nel mondo non vi è nessuna giustizia, ma solo ingiustizia”, provare che esiste la giustizia, cioè che essa allora deve esistere “fuori del mondo”, eco il “punto fuori”. Tale è il sillogismo della Fede.
Ahimé, da troppo tempo la Fede non si trova più nel mondo… e perciò non muove il mondo. La Fede si è lasciata ingannare e trasformare in un punto dentro il mondo; perciò essa muove al più come qualsiasi altro punto dentro il mondo, produce qualche circolazione di probabilità, occasiona qualche piccolo episodio; ma non muove più come il “punto fuori”.
Così muoveva invece il Cristianesimo quando entrò nel mondo. Ma il mondo che non trovava il suo tornaconto in questo punto fuori - che manterrebbe tutto il mondo in continuo timore e tremore - il mondo ingannò se stesso ovvero il Cristianesimo, e riuscì ad avere il Cristianesimo dentro. Dall’essere il punto fuori, il Cristianesimo divenne niente di meno che “l’ordine stabilito”.
Tutto si arrestò. Poi si è cercato di provare che l’origine del Cristianesimo è un mito. E perché no? Quando non ci rende conto che il suo sviluppo finale è piuttosto un mito o una favola. Tutto dipende dal punto da cui si parte come dal punto fermo. Invece per me è evidente che il Cristianesimo nella sua forma attuale è la cosa più favolosa che si possa mai immaginare. […]
Nella sua forma originaria il Cristianesimo è nel suo vero medio: la forma è la reduplicazione del suo contenuto. In questo non vi è nulla di mitico. Ora si è tolta la reduplicazione – e quindi la Cristianità è precisamente un mito.
Vi sono due generi di incognito. Nella “figura di servo” (Philipp., 2, 7), Cristo era Dio. Nella “figura dell’uomo-Dio”, la Cristianità è paganesimo.» Nella prima situazione non vi è nessuna contraddizione.  Nell’ultimo intruglio c’è autocontraddizione, e per questo c’è il mito - se addirittura non si vuol dire che ch’è una menzogna. Fate pulizia in casa vostra, cercate di togliere la menzogna, e vedrete allora che non ci sarà più questione de mito; cioè, nel momento che si vedrà che la Cristianità è una bugia, un inganno, nell’identico momento si vedrà che il Cristianesimo originario era ben altro che un mito.
La tattica anche qui è nella direzione inversa. Non si deve ribattere che il Cristianesimo non è un mito, non si deve mettersi a difenderlo ecc.: no, si deve attaccare. Si deve provare che la Cristianità è una favola; vedrete allora che manderemo all’aria anche il castello di carta del mito.»

Qui c’è tutto Kierkegaard, il Kierkegaard «scandalosamente» cristiano, cioè radicalmente cristiano, intrepido avversario di quella menzogna collettiva chiamata Cristianità, vale a dire quel mediocre, penoso compromesso tra una fede rivoluzionaria e l’esigenza di starsene tranquilli in pantofole, senza portare tanto chiasso e scompiglio nel mondo, per non turbare troppo le coscienze delicate, amanti del quieto vivere.
Povero Kierkegaard!
Se avesse potuto immaginare che i teologi «cristiani» successivi, e specialmente quelli dell’area protestante, avrebbero spinto fino alle più estreme conseguenze la mondanizzazione del Cristianesimo ed il compromesso con lo spirito «scientifico» della modernità!
Se avesse potuto leggere un Rudolf  Bultmann, che riduce a mito proprio il Cristianesimo delle origini; un Dietrich Bonhoeffer, che sostiene dover l’uomo, ormai diventato adulto, fare come se Dio non esistesse affatto, tanto più che Dio stesso si nasconde, volendo vedere come  lui se la sappia cavare con le sue sole forze; un Hans Küng, che conta avaramente i miracoli «autentici» di Cristo, per non esporsi troppo alle critiche della mentalità laica e razionalista, e che mette un punto di domanda perfino davanti alla fede nella vita eterna…
Ma torniamo al concetto del «punto fuori dal mondo», che, proprio per il fatto di essere fuori, è capace di muovere il mondo intero.
Così come vi è, nel cuore dell’uomo, la sete di giustizia, e tuttavia, nel mondo, null’altro che ingiustizia; allo stesso modo vi è in lui un anelito verso l’Assoluto, ma nel mondo, per quanto egli si guardi attorno, null’altro può scorgere, se non cose relative e contingenti.
Eppure esistono, quella sete e quell’anelito: esistono, sono reali; non illusione. Dunque, la loro fonte non può essere nel mondo: se fosse nel mondo, infatti, egli troverebbe, prima o poi, di che dissetarsi, di che saziarsi; e invece, nulla.
Del resto, se l’origine di quella sete di giustizia e di quell’anelito verso l’Assoluto fossero nel mondo, allora sarebbe della stessa sostanza del mondo; ma, in tal caso, non sarebbe in nulla diversa, quanto alla propria natura, da tutte le altre cose che si trovano nel mondo. E come potrebbe la giustizia essere di questo mondo; come potrebbe l’Assoluto essere nel mondo, visto che, nel mondo, nulla vi è che sia interamente giusto, e men che meno nulla di assoluto?
Eppure la giustizia esiste: altrimenti, come ne avremmo la nozione originaria, accompagnata dall’ardente desiderio di essa? Dunque, non può esistere che fuori del mondo. Allo stesso modo, anche l’Assoluto deve esistere: diversamente, perché la sua assenza ci tormenterebbe, come una spina conficcata nel cuore?
Non solo.
Il mondo non può muoversi da se stesso: perché ciò che è contingente e relativo, non può possedere un movimento originario. Bisogna che quel movimento gli sia stato impresso da qualcosa che è fuori di lui, da qualcosa che è altro da lui. Il mondo non può essere la causa ed il fine di se stesso. Il mondo è soggetto al movimento; in esso le cose nascono e muoiono: nulla vi è di permanente, quindi neanche il mondo può essere permanente.
Ma Kierkegaard non usa il verbo «muovere» solo nel senso degli antichi filosofi greci; egli pensa anche, e soprattutto, a quel passo del Vangelo ove Cristo dice: «Se voi aveste fede quanto un grano di senape, e diceste a queste montagne di muoversi, esse si muoverebbero».
Quindi, il mondo non può muoversi da solo anche, e soprattutto, nel senso che il mondo non può trovare in se stesso la ragione del proprio esistere, né gli uomini possono trovarvi il termine ultimo del proprio vivere e del proprio interrogarsi sulla vita.
C’è bisogno di una fede, per vivere e per muovere le cose; ma una fede che sia interamente legata alla dimensione di questo mondo, è una fede che non avrà mai la forza necessaria per agire veramente su di esso.
Parole profetiche!
Quante fedi abbiamo visto succedersi nel corso della storia moderna: la fede nella scienza (rivoluzione copernicana e galileiana), la fede nella ragione (Illuminismo), la fede nella libertà, nella fraternità e nell’uguaglianza (Rivoluzione francese), la fede nella macchina (Rivoluzione industriale), la fede nel progresso (positivismo), la fede nel comunismo (marxismo e Rivoluzione d’ottobre), la fede nella missione civilizzatrice dell’uomo bianco (colonialismo), la fede nello Stato assoluto (fascismo), la fede nella razza (nazismo), la fede nell’Internazionale dei lavoratori (stalinismo), la fede nel capitalismo e nella democrazia (neoconservatorismo)…
Ogni volta è sembrato agli uomini di aver scoperto la fede risolutrice e definitiva, e che sarebbe bastato abbandonarsi ad essa, per veder cadere ogni ostacolo e spalancarsi la strada verso un roseo futuro. E tutte, tutte queste fedi li hanno traditi; da tutte, essi si sono allontanati con un senso bruciante di vuoto, di amarezza, di suprema disillusione.
Oggi, cadute le fedi della modernità, proliferano, come altrettanti surrogati di esse, le nuove fedi del terzo millennio: la fede nell’età dell’Acquario, la fede nelle nuove sette religiose, la fede nell’occultismo, nella teosofia, nell’antroposofia, nei dischi volanti, nella fine del mondo (complici le profezie del cosiddetto calendario maya); persino la fede nel Diavolo, che conta - ed è un dato su cui vale la pena di riflettere - vari milioni di seguaci in tutto il mondo, con tanto di messe nere e di sacrifici umani per ingraziarsi le potenze delle tenebre.
Che ne è della fede cristiana?
Essa, come già notava Kierkegaard, ha cercato di «mettersi al passo con i tempi»: terrorizzata all’idea di finire nel dimenticatoio delle cose fuori moda, si è sforzata di venire incontro allo spirito del mondo. Vi sono teologi cristiani, ormai, che parlano più o meno come dei perfetti atei; e vi è una quantità di «credenti» la cui fede è così scarsa, che non potrebbe smuovere nemmeno un granello di sabbia. Nulla, nella loro visione del mondo - per non parlare delle loro azioni concrete - li distingue come dei cristiani; essi sono, semplicemente, la cristianità, versione laica, aggiornata e svuotata di fede, del vero cristianesimo.
Per piacere al mondo - ossia alla cultura laicista e secolarizzata oggi imperante, dominata dal più grossolano materialismo - vi sono intellettuali cristiani ed uomini di Chiesa che ostentano punti di vista quanto mai disinvolti e profani: quasi si vergognano di parlare dei misteri dell’anima e dell’altro mondo; quasi domandano scusa di portare sulle spalle una fede antica di due millenni, in un mondo che apprezza sopra ogni altra cosa la categoria della novità.
In particolare, non c’è cattolico «illuminato» e «progressista» che non parli in termini straordinariamente elogiativi del Concilio Vaticano II: come se solo grazie ad esso la Chiesa avesse colmato, d’un colpo, un ritardo secolare; come se solo i teologi del Concilio avessero visto in faccia la Verità, dopo un lungo e pertinace oscurantismo; come se tutto ciò che fu stabilito in quella sede fosse vero cristianesimo, fuori del quale non vi sarebbero che le tenebre dell’ignoranza e della superstizione medioevale.
Andiamoci piano. Non è tutto oro, quello che brilla; non è sempre un progresso, il fatto di spingersi avanti. Esiste un andare avanti che è, in realtà, un tornare indietro; e gli applausi del mondo - in questo caso, degli intellettuali laici e di sinistra - dovrebbe mettere una pulce nell’orecchio a quei cristiani che vedono nel Concilio Vaticano II la svolta della salvezza.
Le cose sono chiare quando ciascuno interpreta il proprio ruolo, con franchezza e coerenza, e non cerca di scambiarlo con quello degli altri. Diversamente, si generano solo confusione, ambiguità e disorientamento delle coscienze.
L’uomo di fede non è un cittadino di questo mondo; e, se lo è, lo è in via transitoria e contingente. Oggi egli è qui, e cerca di esservi nel modo più coerente; ma domani, egli non ci sarà; e, fin da ora, il suo sguardo è indirizzato oltre. L’uomo di fede ha una doppia cittadinanza, terrena e ultraterrena: sa che l’applauso di questo mondo è una povera cosa e, molto spesso, premia non la sua fedeltà, ma il suo tradimento nei confronti della propria fede, di ciò che lo rende diverso dal mondo.
L’uomo di fede non deve preoccuparsi di piacere al mondo; stando nel mondo, pur non cercandole, mette nel conto delle cose probabili l’incomprensione ed anche l’ostilità degli altri uomini. Se questi lo applaudono, forse è il caso che si domandi dove sta sbagliando. È penoso vedere tanti sedicenti cristiani, perfino tanti uomini di Chiesa, correre dietro all’approvazione del mondo, e sorridere soddisfatti delle lodi che vengono fatte loro per essere così vicini al sentire del mondo: vale a dire, così poveri di fede.
È in questo modo che la fede del cristiano, da cosa che ha il suo punto fermo fuori del mondo, incomincia a diventare una cosa di questo mondo; il che è come dire che incomincia ad appassire e a spegnersi. Quando la sua fede sia più o meno mondanizzata, allora essa non sarà più in grado di muovere nulla, nel mondo; perché solo quando essa ha origine in un punto che sia fuori di esso, può muoverlo e cambiarlo.
Ecco perché le varie fedi immanenti non hanno mosso nulla, non hanno cambiato nulla - anche se, in compenso, molte di esse hanno lasciato una lunga scia di sangue e di dolori dietro a sé. Erano fedi di questo mondo, e il mondo non può redimersi da se stesso; gli uomini non possono redimersi da soli, tanto meno possono redimere gli altri.
Quante volte abbiamo visto degli uomini, incapaci di guardare in fondo alla propria anima, pretendere di salvare il mondo e di portare chissà quale prodigiosa liberazione ai propri simili: schiavi che non sanno comandare neppure a se stessi, schiavi delle proprie basse passioni - prima fra tutte, la brama di potere - i quali, tuttavia, non dubitano neppure per un attimo di avere in tasca la verità definitiva e di poter salvare niente di meno che il genere umano.
E invece no.
Se davvero si desidera cambiare il mondo, bisogna incominciare da se stessi. Nessuna ricetta, nessuna dottrina, nessuna fede preconfezionata potrà mai far sì che gli esseri umani portino ai propri simili ciò che non possiedono. Chi non è libero in se stesso, non può portare la libertà agli altri; chi non è disposto a farsi piccolo, a farsi l’ultimo, non è degno di guidare gli altri; chi non sa comandare ai propri appetiti disordinati, non può insegnare ad alcuno la via della giustizia.
Ma la vera fede, non è mai fede in questo mondo; perché la fede in questo mondo riproduce le caratteristiche di esso: e il simile può agire sul simile, ma sempre in modo estrinseco e superficiale; per agire in profondità, bisogna che intervenga il dissimile.
Questo è il paradosso della fede: che essa è sempre fede nell’Altrove; cioè, da un punto di vista puramente umano, un paradosso, se non un assurdo.
Ma ciò che è assurdo agli occhi del mondo, è la realtà vera, sul piano dell’Assoluto…